Pagina:De Sanctis, Francesco – Storia della letteratura italiana, Vol. II, 1912 – BEIC 1807957.djvu/129


xvi - pietro aretino 123


La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si discuteva piú se si aveva a scrivere in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato oramai il suo dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare si avesse a chiamare «toscano» o «italiano». E non era contesa di parole, ma di cose. Perché molti scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall’un capo all’altro d’Italia, e non erano disposti di andare a prender lezione in Firenze. Amavano meglio latinizzare che toscaneggiare. Riconoscevano come modelli il Boccaccio e il Petrarca, ma non davano alcuna autoritá alla lingua viva. Lingua viva era per loro il linguaggio comune, che atteggiavano alla latina e alla boccaccevole. Questo meccanismo era accettato generalmente : se non che in Firenze il fondo della lingua non era il linguaggio comune, mescolato di elementi locali, siculi, lombardi, veneti; ma l’idioma toscano, cosi com’era stato maneggiato dagli scrittori. E Firenze, esaurita la produzione intellettuale, alzò le colonne di Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e disse: — Non si va piú oltre. — Il Bembo e piú tardi il Salviati fissarono le norme grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt’i generi furono fissate nelle «rettoriche», traduzioni o raffazzonamenti di Aristotele, Cicerone e Quintiliano. Si giunse a questo: che Giulio Camillo pretendea d’insegnare tutto il sapere mediante un suo meccanismo. Tendenza al meccanizzare, che è fenomeno costante in tutte le etá che la produzione si esaurisce, e la coltura si arresta e si raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.

Pietro, di mediocrissima coltura, considera tutte queste regole come pedanteria. La sua vita interiore, cosi spontanea e piena di forza produttiva, mal vi si può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo. E chiama «pedantismo» quel veder le cose non in se stesse e per visione diretta, ma a traverso di preconcetti, di libri e di regole. Quegl’ inviluppi di parole e di forme gli sono cosi odiosi come l’ipocrisia, quel covrirsi della larva di un’affettata modestia, invilupparsi nella pelle della volpe e predicar l’umiltá e la decenza, senza valer meglio degli altri.