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xvi - pietro aretino 119


Ed ha forze proporzionate a’ suoi appetiti : un corpo di ferro, una energia di volontá, la conoscenza e il disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa facoltá che il Guicciardini chiama «discrezione», il fiuto, il da fare caso per caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in varie direzioni : uno è lo scopo, la soddisfazione de’ suoi appetiti, o, come dice il Guicciardini, il suo «particulare». Tutti i mezzi sono eccellenti, e li adopera secondo i casi. Ora è ipocrita, ora è sfacciato, ora è strisciante, ora è insolente. Ora adula, ora calunnia. La credulitá, la paura, la vanitá, la generositá dell’uomo sono in mano sua un ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte le chiavi per tutte le porte. Oggi un uomo simile sarebbe detto un «camorrista», e molte sue lettere sarebbero chiamate «ricatti». Il maestro del genere è lui. Specula soprattutto sulla paura. Il linguaggio del secolo è officioso, adulatorio : il suo tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera: e lui mette a prezzo la calunnia, il silenzio e l’elogio. Non gli spiacea aver nome di mala lingua, anzi era una parte della sua forza. Francesco primo gl’inviò una catena d’oro, composta di



    dante, feci vedere ventidue persone sin con i loro figliuoletti a le poppe, concorsi d’ improviso a mangiar Tossa del mio povero inchiostro; né mai giorno trapassa che, se non piú, almen tanti mi veggo intorno affamati...— Oh!— dite voi a me — e perché ispendere senza ritegno chi non ha piú che tanto? — Perché — rispondo io — i reali animi sono in la spesa isfrenati». — «Mangiando... l’altrieri non so che lepri squarciate dai cani, che mi mandò il capitan Giovan Tiepoli, mi piacquer tanto, che giudicai il «Gloria prima lepus» un detto degno di essere posto nel coro degli ippocriti per man dei lor digiuni in cambio del «silentium», che il cicalar fratino attacca dove si dá la pietanza. E mentre le lodi loro andavano coeli coelorum, ecco i tordi portatimi da un staffier vostro, i quali nel gustarli mi fecero biscantare lo «Inter aves». Essi sono stati tali, che il nostro messer Tiziano, nel vedergli nello spedone e nel sentirgli col naso,... piantò’ una frotta di gentiluomini che gli avevano fatto un desinare. E tutti insieme demmo gran laude agli uccelli dal becco lungo, che, lessi con un poco di carne secca, due foglie di lauro e alquanto di pepe, mangiammo e per amor vostro e perché ci piacevano, come piacquero a fra Mariano, al Moro dei nobili, al Proto da Luca, a Brandino e al vescovo di Troia gli ortolani, i beccafici», i fagiani, i pavoni e le lamprede, di che si empierono il ventre con il consenso delle lor anime cuoche e delle stelle pazze e ladre, che le infusero in quei corpacci... E beato colui che è pazzo, e nella pazzia sua compiace ad altri ed a se stesso.»