Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VII/Capo IV
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CAPO QUARTO.
Il re di Napoli ferma alleanza con l’Austria, tregua con la Inghilterra; fa guerra a’ Francesi. Caduto l’impero di Francia, provvede al suo regno.
LIV. Mentre i Napoletani cominciavano a disamare Gioacchino, e peggioravano le sorti di Francia, l’imperatore d’Austria in nome de’ sovrani di Europa gli offeriva amicizia. Di già ne campi di Ollendorf, su la riva dell’Ilm, fra tanti esempii d’incostanza, il conte di Mies commissario austriaco aveva aperto a Gioacchino il pensiero dell’alleanza, e n’era stato inteso senza disdegno. Qui è il luogo di palesare che îl re, per natura o per arte, proclive all’ astuzia, la chiamava politica, la credeva necessità di regno, se ne vantava maestro, ed era, come al più spesso avviene a’ reggitori de’ piccoli stati, sehernito dalle sue arti. Egli stesso, dubbioso dell’avvenire, chiamò a consiglio partitamente ad uno ad uno parecchi suoi ministri o generali, de’ quali confidavasi per affetto ed aveva in pregio il giudizio. Le opinioni si divisero in due opposte, delle quali riferirò i concetti in due discorsi pervenuti a mia certa notizia; e mi abbiano fede, benchè i nomi degli oratori io nasconda, i lettori di queste pagine.
L’uno disse:
«Sire, se in V. M. le qualità varie di re di Napoli, di cittadino francese, di congiunto dell’imperator Bonaparte, e ciò ch’ella debbe alla sua fama presente e quel che ne aspetta la posterità, generassero doveri contrari o differenti, io in materia tanto difficile per lo esame, tanto grave per il fine, mi crederei incapace di dar giudizio ed attenderci nel silenzio timidamente le decisioni di V.M. e i decreti del fato. Ma gli interessi sono unici; fa stessa cosa dimandano il re e ’l suo popolo, il cittadino francese, il cognato dell’imperatore, l’uomo destinatosi all’onore ed all’istoria.
La rivoluzione di Francia si fermò felicemente nell’impero di Bonaparte: l’impero fondò in Europa altri regni della sua specie, e surse dallo insieme la civiltà moderna. Perciò rivolazion francese, impero di Bonaparte, re nuovi, moderna civiltà, si presentano con le stesse sembianze alla mente degli antichi re; le paci, i riconoscimenti, le alleanze, i pegni di amicizia, i parentadi, sono per essi le transazioni della necessità, senza obbligo di fede o di coscienza. Il veechio ed il nuovo secolo si fanno guerra; ed ormai la vittoria non può essere particolare di uno stato e di un popolo; se trionfa il nuovo, tutte le società europee avranno in venti anni le basi della civiltà francese; e se l’antico, tutte si «arresteranno, ma gli stati nuovi saranno retrospinti verso un’odiata antichità.
Da queste verità altre ne discendono. Non speri re nuovo di tenersi in trono se l’impero di Francia è abbattuto: nè speri popolo di conservarsi le instituzioni novelle sotto antico re; che se oggi lo promette, mancherebbe dopo la vittoria; ed il primo atto della rivoluzione di Francia, come l’ultimo decreto di V. M. sarieno del pari abborriti e dannati. E perciò a me sembra aver pericoli ed interessi eguali la Francia, l’imperator Napoleone, il re Gioacchino e ’l popolo napoletano; cadere o reggere insieme tutti.
Non le parlerò che brevemente della sua fama e della sua gloria. Ella deve il diadema alle sue virtù militari; ma istromenti della giustizia di Dio sono stati Bonaparte e la Francia. Chi mai sarebbe del suo nome, s’ella volgesse il dono contro i donatori? Moreau si cuopre della patita ingiuria; si cuopre Bernadotte degl’interessi del suo regno e de’ voleri del padre. Ma Gioacchino che direbbe al mondo? E qui mi taccio, lasciando al suo proprio senno ed al suo proprio onore, l’uffizio del miglior consiglio.
Tutto impone a V. M. il debito di restar fedele alla Francia. Trentamila soldati dell’esercito napoletano difendono il regno; e basteranno, se V. M. è con essi, contro le forze siciliane ed inglesi, il cui maggior nerbo è sul Reno e in Ispagna; trenta altre migliaja si uniscano alle schiere italo-franche; e così formando poderoso esercito, portino in Alemagna ed a Vienna la guerra e la vendetta. L’Italia, ch’è nel mezzo fra due eserciti confederati, resterà obbediente, e sarà larga d’armi e danaro. L’inimico, se fosse potentissimo, non potrebbe attaccare l’Italia che nelle due estreme fronti, ossia negli stati in Napoli, facendo base la Sicilia, o negli stati del regno italico, partendosi dalla Germania. I due eserciti, di V. M. e del vicerè, comunicherebbero per linee interne: l’uno nelle sventure piegherebbe sull’altro, e saria più forte. La guerra d’Italia, che che mai avvenisse sul Reno, starebbe da sè sola per grandezza di scopo e di mole; ed a chi la maneggia darebbe cagione ed opportunità di politiche transazioni. A tale sono oggi le cose che Napoli contro Francia, a sarà tributaria d’armi contro a sè stessa, soggetta alla volontà di re avversi e potenti; ma Napoli, se resterà alleata della Francia, si eleverà a nazione libera di sè stessa e del proprio avanzamento.
E perciò restar fedele agli antichi patti, accertarne l’imperator de’ Francesi, concordarsi col vicerè d’Italia su la idea della guerra comune, questo è il mio voto. Io ne credo felice il successo; ma se fossi dubbioso, vorrei prepararmi nelle sventure la consolazione di poter dire al mondo e a me stesso: tra difficili circostanze in cui l’umano giudizio si confonde, io tolsi consiglio dall’onore.»
LV. Ed altro oratore in altro tempo con più semplici e libere parole gli disse:
«Quando mai delle nostre cose dovesse giudicare il solo ingegno di V. M., la decisione sarebbe certa, e Napoli si troverebbe già unita alla parte oggimai più potente e fortunata di Europa, ma in questo giudizio hanno peso oltre gl’interessi, gli affetti, e al debito di re contrastano gratitudine, fedeltà nelle sventure, amor di patria e di famiglia. Chi dovrà vincere? la natura delle cose lo dice. Ella tutto deve alla Francia ed a Bonaparte; se la Francia le chiede il braccio ed il valore, vada Gioacchino a combattere per lei e a morire, o se la vita dell’imperatore è in pericolo, gli faccia scudo della sua vita. Ma in servigio de’ suoi benefattori spingere ai cimenti ed alla rovina il popolo ch’ella regge, egli è pagare il debito proprio co’ danni altrui.
Sono freschi i nostri dolori. Pochi mesi addietro la felicità d’Italia, messa dalla fortuna in mano al re di Napoli, cedè al desiderio che V. M. aveva di rendere all’imperatore de’ Francesi personali servigi, mirabili, ma inutili; se ella non partiva per Dresda, se l’accordo con lord Bentinck si avverava, altra era la nostra sorte, ora e per l’avvenire. Abbia fine una volta il darsi vittima gl’Italiani alla Francia, che se le hanno debito di savie leggi e di benefiche instituzioni, lo han pagato di tributi e di armi; e se i Napoletani ebbero da V. M. grandezza e fama, le meritarono per obbedienza e travagli. Sieno alfine vicendevoli ed eguali per noi e per voi gli obblighi e la gratitudine; ed allora, o sire, anticipando il futuro, separandoci dalle passioni del presente, immaginandoci posterità, fingiamo che in un libro d’istorie si legga: Gioacchino agli affetti di congiunto, alla gratitudine sua per ricevuti beneficii, ed agl’interessi d’un paese che fu sua patria, sacrificò il popolo del quale era re. Ed in altro libro: Al popolo del quale era re, sacrificò Gioacchino tutti i più teneri privati affetti. Or sia in potere di V. M. che de’ due libri uno perisca, l’altro resti in eterno; qual resterà?
Nè so valutare la grandezza degli ajuti che Napoli può dare alla Francia; di quarantacinquemila (e dico il più) combattenti del nostro esercito vinticinquemila almeno restar dovrebbero in difesa del regno, ventimila si unirebbero alle schiere italo-franche, si adunerebbe in Lombardia un esercito di sessantamila soldati che avrebbe a fronte altro esercito tedesco di arte uguale e di ardimento maggiore, perchè ora in noi è timore quanto in essi speranza; e perciò sessantamila Tedeschi basterebbero a contenere l’esercito di Lombardia; e può la Germania, possono i re alleati, senza menomare le schiere destinate contro la Francia, volgere sopra Italia sessantamila combattenti. Qual diversione sarà dunque per la guerra del Reno L’esercito italiano? Che mai avran prodotto gli sforzi del re e del regno di Napoli?
Nulla di bene alla patria di V. M., tutto di male al suo popolo, avvegnachè noi avremo guerra esteriore e interna. È noto a V. M. che già vi si apprestano il re Ferdinando e gl’Inglesi, il re presentandosi agl’immaginosi popoli napoletani con in mano la costituzione data e praticata in Sicilia, e Bentinck assicurandone la durata con le sue schiere e in nome della potente e libera Inghilterra. Ciò all’esterno. Nello interno (soffra in questa presente estremità dei nostri casi schiettezza estrema) le popolari scontentezze sono gravi e molte: i rigori della polizia a’ tempi del re Giuseppe, i furori di Manhes contro il brigantaggio, le attuali persecuzioni ai carbonari, ogni error di governo: tutti i travagli, tutte le morti di otto anni di rivoluzione risorgono nella memoria e nella vendetta della più parte del popolo. Se ne sono palesati i segni negli Abruzzi e nelle Calabrie; in Polistena è stato eretto l’oramai disusato albero di libertà, e bisognarono ad abbatterto forza di soldati e prudenza. L’esercito ha disciplina non salda. Lo spavento che già si aveva del re Ferdinando, gran forza interna per il re Gioacchino, dopo gli ultimi fatti della Sicilia è cessato in molti, scemato in tutti, convertito a speranza in alcuni. Ella, o sire, per ingegno e valore trionferà de’ suoi nemici, ma con quanti danni e quante morti per guerra, punizioni e vendette? E se mai dal troppo numero di nemici esterni e dalle troppe interne ribellioni fossimo vinti? Rifuggo dalla immagine di un regno preso per conquista dall’antico re Ferdinando e dagli Inglesi.
E tanti pericoli e tanti travagli qual fine avrebbero? L’imperator de’ Francesi, avendo oramai contrario il disperato coraggio di re, di eserciti e di popoli infedeli, è favola o sogno ch’egli vinca tutti e ritorni alla signoria del mondo; avrà l’impero tra l’Oceano e ’l Reno, rinunzierà alla Spagna, alla Germania, alla Italia; decaderà in possanza. Ma V. M. cadrà affatto dal trono; e noi, popolo vinto o ceduto, soggiaceremo al flagello de’ nostri antichi re, vieppiù fieri al ritorno perchè animati da conquista e da lunghi sdegni. Tutto il bene che i due re francesi avran fatto al regno sparirà in un giorno, e della rivoluzione non resterà documento, fuorichè le liste delle vendette. L’interesse dei Napoletani è dunque il conservarsi con V. M. le instituzioni del suo regno.
Il modo certo ed italiano per ottenerlo sarebbe, accordandosi V. M. col vicerè d’ Italia per un trattato comune co’ re alleati, patteggiare (facil cosa se foste insieme) la indipendenza d’Italia. Ma il principe Eugenio, nè per pace nè per guerra si legherà col re Murat, vorrà singolar merito di fedeltà cieca, non di politica, e fama da scena non da istoria. Se l’abbia. Ma, o sire, quanto grande esser debbe il dolore di ogni uomo nato in Italia al vedere in questo istante soldati prodi italiani negli eserciti francesi, ed altri nello esercito del vicerè, ed altri con V. M., ed altri con gl’Inglesi, altri col re di Sicilia; duecentomila almeno dalle Alpi a Capo Noto, parlando l’idioma istesso d’Italia, combattere per cause varie e di altrui; disperdere inutilmente il valore e la vita, e mentre nel braccio e nel senno proprio starebbe la italiana sicurezza, andarla pregando, non esauditi? Non è dunque inerme o pigra la Italia, ma cagion vera delle miserie sue è la divisione delle sue genti e de’ suoi reggitori.
Però che tale è voluta dal fato, V. M, abbandonando le generali speranze, provvegga almeno a questa ultima non infima nè ignobil parte della penisola, e le dia certezza di civiltà e di avvenire, Il potrà fermando pace ed alleanza coi re di Europa, tenendo unito l’esercito in Italia, dando al suo popolo commercio libero con la Inghilterra, migliorando le instituzioni civili, rivocando le persecuzioni di polizia, riducendo in uno le parti divise dello stato; e non sofferendo che un vecchio re, nato re, usato agli errori di assoluta potenza, superi in civiltà un re nuovo, surto da libera rivoluzione per militare grandezza.
Ed infine, io da’ ragionamenti passando alle preghiere, la supplico di prendere sollecita immutabile sentenza, non cedendo al consiglio di chi vago dell’antica politica italiana chiama vittoria il guadagnar tempo, ed arti di governo simulare e dissimulare co’ nemici e gli amici. E soprattutto la prego a non prendersi di falsa specie di gloria, ma credere che vi ha un sol mezzo da serbar la sua fama; serbando il trono.»
LVI. E mentre l’oratore parlava, Gioacchino, che pure usava di rompere il discorso, attentamente l’udiva. Mostrò talora disdegno, ma subito lo frenò perchè i liberi detti uscivano di labbro amico e devoto; due volte fu commosso, quando si figurò scudo alla vita di Bonaparte; e quando invitato a distruggere un libro delle sue istorie, pareva che dovesse distruggere quello de’ proprii affetti. Accomiatò l’oratore, e gli rese grazie: altri generali avevano parlato o dipoi parlarono nei sensi stessi: le cose di Francia peggioravano; la neutralità della Svizzera presso che violata, gli eserciti tedeschi su l’Adige, Venezia bloccata; cresceva nel suo reame la scontentezza; nell’esercito la contumacia; alle lettere di lui e della regina, espositrici de’ pericoli del regno, l’imperator Napoleone per superbia o sospetto non rispondeva. Incalzavano il re gli avvenimenti; stava per unirsi all’Austria, quando giunse in Napoli il duca d’Otranto Fouchè, già ministro mandato da Bonaparte a spiare in segreto l’animo di Gioacchino, ed a mantenerlo nelle parti della Francia; ond’egli, simulando la modestia e la collera di un disgraziato, diceva esser venuto a diporto; ma in privato a Gioacchino, per amor e servizio di lui.
Trattenutosi pochi dì, tornò a Roma. Restarono occulte le sue pratiche, ma dipoi osservate di Gioacchino l’arti doppie e ingannevoli, fu creduto che derivassero, oltra che dal proprio ingegno, da’ consigli del duca d’Otranto, tal uomo nelle universali opinioni da disdegnare per fino i successi che non fossero frutto di rigiri e perfidie. Lui partito, a mezzo dicembre del 1813, venne il conte di Neipperg legato dall’Austria, e convenendo col duca del Gallo trattatore per le parti di Napoli, fernarono a’ dì 11 di gennajo del 1814 lega fra i due stati. Scopo di essa, la continuazione della guerra contro la Francia per lo ristabilimento in Europo dell’equilibrio politico: e mezzi ad ottenerlo, dalla parte d’Austria centocinquantamila soldati, de’ quali sessantamila in Italia; dalla parte di Napoli trentamila; e da ambo le parti nuove milizie, se bisognassero. Capo delle schiere confederate il re di Napoli, e lui assente, il primo dell’esercito tedesco.
Riconobbero, l’imperatore d’Austria il dominio e la sovranità degli stati attualmente posseduti dal re di Napoli; il re di Napoli, le ragioni dell’Austria su gli stati d’Italia.
Convennero non fermare altra pace o tregua se non comune. L’imperatore promise l’opera e gli officii per pacificare Napoli con la Inghilterra, e co’ potentati di Europa, confederati dell’Austria.
Fin qui la parte pubblica del trattato. Per articoli secreti stabilivasi che l’imperator d’Austria s’impegnerebbe ottenere dal re Ferdinando Borbone le cessione del trono di Napoli a pro di Gioacchino Murat; il quale dalla sua parte rinunzierebbe alle pretensioni su la Sicilia, e coopererebbe, nella pace generale co’ sovrani di Europa, ad indennizzare il re Ferdinando del ceduto trono di Napoli.
Ed altro frutto dell’alleanza avrebbe Gioacchino, per lo accrescimiento a’ suoi stati di tanto paese romano che alimentasse quattrocontomila abitanti.
Le ratifiche al trattato pubblico e secreto si promettevano, dall’una e l’altra parte, sollecite.
LVII. Altro trattato che dissero armistizio, tra Napoli e la Inghilterra, fermarono al 26 gennajo dell’anno stesso il duca del Gallo e lord Bentinck, convenendo immediata cessazione di ostilità, libero commercio, accordo comune e con l’Austria su la vicina guerra d’Italia. E quando mai l’armistizo cessar dovesse, notificazione dall’una all’altra parte tre mesi avanti alle offese. Erano state insino allora occulte le pratiche; poi quegli accordi, pubblicati, apportarono al popolo vera gioja per il cessato timore di guerra, per i guadagni del commercio, per la creduta sicurezza del futuro, per le speranze di reggimento più libero suscitate da’ discorsi di Gioacchino, e soprattutto per quell’impeto di sdegno che scoppiò in tutta Europa contro la Francia: giusto nei Russi, Austriaci e Prussiani, scusabile negli altri popoli di Alemagna; ingrato e stolto in Italia.
LVII. Intanto Gioacchino sin dal precedente novembre aveva mosso due legioni, preso i quartieri in Roma ed Ancona, apprestate altre schiere ed anunziato vicino il suo arrivo a Bologna: egli spinto a quei moti dal suo genio di operare e d’invadere, e dall’avvedimento di mostrarsi armato agli amici e a’ contrarii. Bonaparte, benchè sospettoso di lui, non volendo dar motivo o pretesto al temuto abbandono, nè precipitare la guerra, aveva prescritto a’ suoi luogotenenti che quelle legioni fossero tenute come alleate, e nei congressi di pace i suoi ambasciatori ponevano nella bilancia delle forze cinquantamila Napoletani a pro della Francia. Ma il generale Miollis, governatore di Roma, e ‘l general Barbou di Ancona, insospetti de’ Napoletani, si tenevano vigili e in armi. Ed al tempo stesso molti Italiani, o per carico ricevutone da Gioacchino, o per proprio zelo, andavano divolgando che il re di Napoli, scaltro, libero, fortemente armato, quando i nemici esterni ira loro combattessero avrebbe promulgata e sostenuta la libertà d’Italia. Di già que’ discorsi eccitavano ne’ meno accorti speranze e moti, allorchè i trattati con l’ Austria e l’Inghilterra vennero ad accertare i sospetti de’ Francesi, ed a spegnere le ultime ansietà d’italiana indipendenza.
Gioacchino scriveva a Miollis a Barbou, a Fouchè sensi amichevoli: diceva che necessità di regno lo aveva spinto a quell’alleanza, ma che divoto ed amante della Francia renderebbe concordi gli interessi di stato e gli affetti proprii. Proteste non credute. Il general Mioltis con forte presidio acquartierò in castel Sant’Angelo: il general Lasalcette in Civita Vecchia con ciò che restava di soldati francesi; il general Barbou voleva guardare in Ancona due castelli, ma i Napoletani destreggiando sorpresero quel dei cappuccini, sì che i Francesi milacinquecento fra soldati e impiegati civili, si chiusero nella cittadella. Tutta la Romagna con le abbandonata ai Napoletani, che dubbiosi per mancanza o contraddizione di ordini, come dubbioso era il re per contrasto di affetti, non guerreggiavano, non amministravano quel paese; avevano le sollecitudini della guerra, il fastidio delle guernigioni, tutte le molestie, tutti i pericoli della incertezza. I generali scrivevano al re di quelle perplessità, ed avevano risposte nulle o varie; tal che surto sospetto che ci macchinasse inganni, temevano o per sè medesimi o per le sorti di Napoli.
In quel mese di gennaro Gioacchino andò a Roma, e non ottenne, come sperava, da Miollis castel Sant’Angelo e Civita Vecchia; passò ad Ancona, nè Barbou volle cedere la cittadella. Vide in iscompiglio le amministrazioni interne, udì le protestazioni dei generali, le rimostranze dei magistrati, i lamenti del popolo: i ministri austriaci biasimavano la sua lentezza, chiamandola mancamento al trattato. Il più fingere apportava danno e pericolo; ond’egli comandò, partendosi per Bologna, avanzarsi le schiere napoletane per congiungerle alla legione tedesca retta dal general Nugent; stringere in assedio Ancona, castel Sant’Angelo e Civita Vecchia; ordinare le parti civili dei paesi occupati, impiegando il consiglio e l’opere dei migliori ingegni napoletani. Ma poichè sempre gli premeva il cuore il desiderio di non rompere a guerra con la Francia, lasciò in avanguardia contro l’esercito del vicerè la legion tedesca, e prescrisse che nelle comandate operazioni di assedio non fossero primi i Napoletani ad accendere le artiglierie.
Ordinò l’esercito. Lui stesso capo di tre legioni di fanti, una di cavalieri, ventiduemila soldati, sessanta cannoni, attrezzi corrispondenti, nessuna provvisione, nessun tesoro, confidando nelle ricchezze d’Italia. Erano agli stipendii napoletani alcuni soldati francesi, molti uffiziali colonnelli e generali. Gioacchino volendo ritenerli perchè ne pregiava il valore e l’esperienza, e credeva di attenuare il suo mancamento alla Francia spandendo l’esempio sopra gran numero di Francesi, gli lusingava in vario modo; fingeva con essi che era infingimento l’alleanza con l’Austria, sovrapponeva menzogne a menzogne, s’intrigava, screditavasi. I generali napoletani dall’opposta parte bramavano che quei Francesi partissero, perchè in essi vedevano i sostenitori degli ondeggiamenti del re e gl’inciampi alla pienezza della propria potenza ed ambizione; pregavano Gioacchino a sgomberarne l’esercito; mormoravano in disparte; generavano contumacia e scandalo. E quei Francesi, mossi da interessi contrarii, vacillarono lungo tempo; ed infine i più amanti di onore e di patria si partirono, altri rimasero vergognosi ed afflitti. Dei primi citerò un solo per la singolarità dei suoi casi: il colonnello Chevalier, caro a Murat, andò l’ultimo da disertore, lasciando un foglio nella notte e fuggendo. Ma il giugner tardi fu cagione di motteggi tra gli uffziali dell’opposto campo, ed egli, per mondarsi dello indugio, chiese di combattere all’alba dello stesso giorno, e primo tra i primi attaccò i Tedeschi e cadde ucciso.
LIX. Cominciarono gli assedii da quel di Ancona. Essendo troppo il presidio della cittadella (piccolo castello con pochi edifizii, nessuno a pruova delle bombe) bastavano i fuochi verticali a disperare la guernigione ed evitare agli assalitori le lunghe fatiche di trincea e di breccia. Disegnate a distanze varie (la minore di mille metri) poche batterie di cannoni, molte di mortari e di obici; impresi i lavori nella notte, durati nel giorno, compiuti i fortini ed armati; stavasi al punto di aprire i fuochi, e nessuno impedimento a noi veniva dalla cittadella: pareva che fossimo ad esercizio negli assedii di scuola. Le artiglierie e munizioni abbondavano prese dai forti e magazzini venuti in potere dei Napoletani, onde nulla mancava fuorchè il segno di guerra. I calcoli dell’arte dimostravano che la cittadella sostener potesse intorno a quarant’ore di fuoco.
Le cure, sospese per Ancona, furono volte a castel Sant’Angelo, indi a Civita Vecchia. Cominciarono le riconoscenze con la usata vigilanza: ma vista la pazienza del nemico, andavano gl’ingegneri scopertamente intorno al castello, segnando sul terreno le trincee e gli approcci. Fermata l’idea dell’assedio, apprestando macchine ed armi, marciarono alcni battaglioni sopra Civita Vecchia; e sebbene accampassero nelle alture più vicine alla città, il presidio francese vedeva il campo e tollerava. Ma poi che scoprì il general Lavauguion governatore di Roma, e il general Colletta direttore supremo del genio, odiati entrambo, l’uno perchè francese e nemico, l’altro perchè noto instigatore di Gioacchino a quella guerra, lo sdegno vinse il comando o la prudenza, e le batterie della fortezze tirarono continuamente sopra i Napoletani, e con maggior aggiustatezza dove i generali apparivano. Nulla ostante, continuando la riconoscenza e formato il disegno dell’assedio, quella schiera scemata di qualche uomo nella vegnente notte si partì.
Qui dunque ambe le parti preparavano strumenti ed armi, quando in Ancona il general Barbou, consumati i viveri, e mirando afflitta da malattie la guernigione, stabilì rendere la cittadella; ma vergognando di farlo senza onore di guerra, comandò tirare a disfida contro il campo dei Napoletani, benchè seco stessero a pericoli l’amata moglie e tre teneri figliuoli. I Napoletani, che il general Madonald dirigeva, risposero alle offese, e combattendo l’intero giorno e la notte, al levare del sole del dì seguente si vide bandiera di pace sul castello, che nel giorno istesso fu ceduto a patto che i presidii francesi avessero con gli usati onori sicuro passaggio in Francia. Ventiquattro ore durarono i fuochi, alquanto meno del prefisso tempo perchè la esplosione di una polveriera aggiunse alle rovine che producevano le bombe. Parte della città di Ancona sta framezzo i cappuccini, ch’era il campo dei Napoletani e la cittadella; ma nessun danno soffrì, restando sicura sotto un arco di projetti e di fuoco. Pochi Napoletani morirono, più Francesi, per falsa gloria del general Barbou, a cui bastar doveva l’esser giunto all’estremo della fame: tante false specie di onore deformano il mestiere dell’arme.
Le altre fortezze non furono assediate perchè in un trattato fra il duca d’Otranto per Francia e ’l general Lecchi per Napoli fu concordato che cedessero a patto di tornare in Francia i presidii liberi e sicuri. E dopo ciò i Napoletani, oltre Ancona, guardarono Civita Vecchia, Castel Sant’Angelo, i forti di Firenze, Livorno e Ferrara. Livorno, giorni innanzi, era stato minacciato da un’armata anglo-sicula, guidata da lord Bentinck; e poichè il presidio, tuttavia francese, stava preparato alla guerra, l’armata ristette aspettando favorevole occasione a sbarcare le genti. Le quali apparenze, mantenute anche dopo la cessione della città, spiacquero a Gioacchino, che ordinò fosse posta in stato di difesa, confidando all’orecchio del generale del genio ch’egli sospettava degli Inglesi.
LX. Poco appresso lord Bentinck con mostre di amicizia sbarcò dal naviglio schiere inglesi e siciliane, sotto insegna che portava scritto: «Libertà e indipendenza italica», e le incamminò sopra Genova. Conferì per lettere con Gioacchino e col generale Bellegarde i concertati disegni tra scambievoli sospetti. Allora lo stato delle cose della guerra in Italia era il seguente. Bellegarde con quarantacinquemila Austriaci campeggiava la sponda sinistra del Mincio; il re di Napoli con ventiduemila de’ suoi, toccando il Po e guardando il Ferrarese, il Bolognese, gli stati di Roma e la Toscana, avanzava gli avanguardi sino a Reggio e Modena: e Nugent sotto lui con ottomila Tedeschi accampava. Bentinck con quattordicimila Anglo-Siculi stava sopra i monti di Sarzana. Comunicavano Bellegarde e Gioacchino per Ravenna a Ferrara, Gioacchino e Bentinck avevano tra mezzo gli Apennini. E dalla opposta parte il vicerè con cinquantamila Italo-Franchi teneva i campi nella sponda destra del Mincio, custodiva un ponte sul Po a Borgoforte, potente per opere e per presidii, occupava Piacenza. Poca guernigione francese guardava Genova.
Così le forze, le idee differivano. Il generale Bellegarde voleva che Gioacchino procedesse sopra Piacenza, a fin di spostare il vicerè dalla riva del Mincio, e prometteva diversioni ed ajuti. Il diceva che trovandosi diviso da Bentinck, il quale operava nella opposta pendice de’ monti, nè legato altrimenti con Bellegarde che per le difficili e lunghe strade di Ravenna e Ferrara, il nemico a suo talento poteva sboccare da Borgoforte, assaltare i Napoletani sulle terre di Modena o di Reggio, e rientrare nelle sue linee prima che gli alleati inglesi o tedeschi avessero solamente notizia di quei fatti; ch’egli perciò faceva afforzar Modena di un campo, ed aveva così ordinate le sue schiere che al primo apparire del nemico volgessero tutte incontro al Po; che dunque il più inoltrarsi sopra Piacenza sarebbe stata occasione ed invito al vicerè di assaltare alle spalle i Napoletani, separarli dalla loro base, romperli e ritornare a’ suoi campi per le vie di Piacenza e Borgoforte. Fra le due opposte sentenze Bentinck, solamente inteso ad espugnar Genova, si mostrava dell’avviso di Bellegarde, non più per proprio ingegno che per diffidanza e avversione a Gioacchino.
La ragion militare stava dalla parte di Murat; ma stavano contro lui le apparenze e i sospetti, e perciò le opinioni rimanevano divise, gli eserciti immobili. In quella guerra si palesarono tutti gli errori e i vizii delle alleanze. Bellegarde poteva comunicare con Gioacchino per vie più brevi che di Ravenna o Ferrara, costruendo altri ponti sul Po; ma nol faceva, temendo che le nuove strade aperte a’ soccorsi, servissero al tradimento. Poteva Gioacchino attaccare Piacenza, se veramente ajutato da Bellegarde e da Bentinck, ma sospettava che lo spronassero a quella impresa per nuocere al suo esercito ed alla sua fama. Così Bentinck, alleato del re di Napoli, permetteva che dai Siciliani seco disbarcati si spargesse nell’esercito napoletano un editto del re Ferdinando, che, rammentando le sue ragioni, eccitava i sudditi a ribellar da Gioacchino. E così più in alto l’imperatore d’Austria, che avea promesso sollecite ratifiche al trattato con Napoli, lasciava correre i mesi senza che il ratificasse; e dall’altra parte il re Murat, alleato dell’Austria e della Inghilterra, desiderava il trionfo della Francia, ed attendeva o sperava l’opportunità ricongiungersi a lei. Lo stato d’Italia in quel tempo non era di guerra, ma di politica e d’inganno armato; in ogni atto, in ogni intenzione de’ reggitori de’ regni e degli eserciti o traspariva o si nascondeva un mancamento di fede: i peccati erano universali; ma incerto, la fortuna chi premierebbe.
I popoli, cauti, obbedivano non operavano. Gioacchino facendo dire esser giunto il momento in cui gl’Italiani si unirebbero sotto la stessa insegna, dava agli stati occupati forma ed ordini comuni di governo. Bellegarde, al tempo stesso, avvertiva gl’Italiani essere proponimento de’ re confederati, restituire gli antichi stati al re di Sardegna, alla casa d’Este, al gran duca di Toscana ed al papa. Il vicerè su l’altra sponda del Mincio bandiva le vittorie dell’imperatore Napoleone a Nangis, a Montereau, ed accertava i popoli che le sorti d’Italia stavano in mano alla Francia. E questa Italia in tanti modi insidiata, scontenta del presente, certa di servitù per lo avvenire, tenevasi inquieta, ma tacita. Solamente in Napoli, al mutar di politica, al vedere i porti e i mercati abbondare di merci inglesi, rare e desiderate per otto anni, cambiare co’ prodotti della terra che quasi senza prezzo marcivano, andare in Sicilia e venirne senza pena o pericolo, sentire il proprio re e le proprie schiere potenti e posseditrici di varii regni, il popolo tra maraviglie, guadagni e srandezze, rallegravasi e sperava.
LXI. Da varie parti, quasi al giorno istesso tre gravi sventure vennero ad affliggere Gioacchino. I generali del suo campo dimandarono con risolutezza, di essere intesi negli affari della guerra. Il papa, liberato da Bonaparte, incamminato verso Roma, era già sul confine di Parma. In Abruzzo i carbonari, mossi a ribellione, sommovendo parecchi paesi, avevano alzata bandiera borbonica. De’ quali avvenimenti dirò più a lungo.
I generali di Gioacchino erano dell’esercito la miglior parte per servigi, virtù di guerra ed ingegno; giovani di età, partigiani dell’idee nuove, ed amanti ab antico di patria e d’Italia, divoti a Gioacchino per gratitudine ed ambizione, ma esperti ed abusatori de’ principali suoi difetti, premiar troppo, punir giammai, e sì che nello esercito si ambivano le azioni di merito, guerra, fatiche, cimenti, e poco temevansi le ribalderie e le colpe. Or quei generali, seguaci del re nelle prime controversie con Bonaparte, alcuni partecipi e consiglieri delle conferenze di Ponza, la più parte instigatori alla lega con l’Austria, e tutti solleciti dell’onore dell’esercito e del capo, vedendo che politica falsa e cangiante menava il re ed il regno a irreparabile rovina, parlandosi l’un l’altro e rattristandosi, sperarono indurre Murat a proponimento migliore. Con foglio sottoscrtlto da due, che per più lunghi servigi cerano primi, chiesero che in quelle circostanze gravissime il re, convocando un consiglio per la guerra, sentisse il voto de’ suoi generali.
Parve quel foglio, ed era, deliberazione dell’esercito, detrazione all’imperio del capo, novella specie di ribellione, colpa degna di pena. Se Gioacchino avesse avuto animo a punire, non prorompevano i maggiori dell’esercito a quella estrema baldanza; ma il re che perdonava fino agl’infimi dell’esercito, non punirebbe i primi carissimi a lui, e solamente colpevoli di troppo zelo. La disciplina (l’ho detto altrove e ad ogni nuovo esempio vo’ ripeterlo) non è merito de’ soggetti, è virtù del capo; e ben dico virtù, se costa sforzi magnanimi ad esercitarla, severità di costumi, giustizia continua, inflessibilità, e mentre il sentimento più naturale ad uomini che vivono in travagli e pericoli comuni sarebbe il vicendevole amore, sopprimerlo nel suo cuore, non aspettarlo da sottoposti, e desiderare in essi timore, ammirazione, rispetto, sentimenti che si imprimono per propria fatica ed amaritudini. Il re a sedare l’audacia de suoi generali adoperò le minacce, poi le seduzioni, ma non furono da quelle arti spaventati nè presi. Potè l’affetto. In quel mezzo annunziato l’arrivo di Bentinck, che superbo e da nemico, benchè fosse alleato, veniva a chiedere al re la cessione di Livorno ed altre non minori cose, Gioacchino disse: «Egli giunge in mal tempo per me, che mai gli dirò? dove troverò forza da sostenere il decoro di re e di capo dell’esercito, or che questo esercito ed i miei generali sono contro me ribellati?» Due di loro, presenti, sentirono tenerezza e vergogna, comunicarono quegli affetti agli altri, che nel giorno medesimo adunati andarono al re con atti di sommissione e promessa di piena obbedienza. Finì quel moto nel campo, ma ne rimasero la memoria e l’esempio; la disciplina peggiorò, i cieli maturavano la catastrofe dell’anno seguente.
LXII. Intanto il papa giungeva al Taro, e Gioacchino in Bologna nol sapeva che dal grido pubblico. Fu primo pensiero il non riceverlo, ma con quali armi contrasterebbe, con quali inciampi ritarderebbe l’uomo che procedeva sicuro portato irresistibilmente dalle opinioni e dal popolo? Il generale Nugent, senz’aspettare gli ordini del re, che pur era suo capo, lo aveva ricevuto sul confine, e con riverente pompa militare lo scortava sino alle rive dell’Enza, che i Napoletani guernivano. Mancava il tempo a’ dubbii e al consiglio. Il re scrisse al generale Carascosa, comandante dell’avanguardia, di andare incontro al pontefice, e con tutti i mezzi di persuasione o d’industria trattenerlo sul cammino o in Reggio. Non appena il generale giunto al fiume, vi giungeva dall’altra sponda Pio VII, con seco popolo innumerabile e devoto, ed una scorta magnifica di cavalieri tedeschi, che benedetti e ringraziati tornarono a Parma, mentre il popolo accresciuto di altre genti proseguiva col papa verso Reggio. E poichè le carrozze non si arrestarono, il Carascosa non entrò a parlamento e seguì la calca. Non andava scorta ordinata di milizia napoletana, ma soldati ed uffiziali confusi volontariamente nella folla, ingrandivano la riverenza e le maraviglie dello spettacolo. Molti de’ popolani spingevano la carrozza dov’era il papa, nè già per bisogno, ma in segno di bassa servitù; e tra quelli si scorgevano più zelanti e devoti alcuni uffiziali di Napoli con abito militare.
In Reggio, il generale Carascosa, subito ammesso alla presenza di Pio, dopo atti di riverenza ch’egli fece ossequiosamente, e l’altro accolse con benignissimo aspelto (offrendo al primo incontro la mano a baciarla, per allontanare il sospetto di maggior culto), il generale dimandò qual fosse il disegno di sua santità, ed egli: proseguire il cammino verso. Bologna.... Ma sua maestà il re di Napoli ignora l’arrivo della santità vostra, nulla è preparato al ricevimento.... E nulla, risponde, io desidero dalla maestà sua alla quale spero i divini favori.... I cavalli delle poste sono impiegati al militar servizio, e senza gli anticipati provvedimenti potrebbe vostra santità non trovarne che bastassero al suo viaggio.... Gli chiederò alla carità di questi devoti cristiani che mi circondano.... Ma già da lungo tempo i cavalli de privati sono addetti all’esercito.... Proseguirò a piede, Iddio me ne darà la forza. E dopo breve silenzio il generale dimandandogli a quali gradi della milizia, e quando accorderebbe l’onore della sua presenza; egli rispose, che vorrebbe veder tutti, ma incalzato dal tempo avrebbe visto i soli generali domani alle nove ore della mattina. Il Carascosa ribaciò la mano, e con egual riverenza si accomiatò; riferì al re, molto a motto il discorso, e lo pregò di cedere all’impero delle opinioni. Al dì seguente all’ora stabilita, presentati al pontefice i generali dell’esercito, gli accolse con cortese semplicità, offrì la mano ad ognuno, s’intrattenne in discorsi di milizia, lodando la bellezza delle vedute schiere; nè diede licenza, prima che di ognuno non ebbe udito il dimandare e il rispondere.
E subito si partì. Il re in Bologna dopo avere ondeggiato fra pensieri varii e rigettato il buon consiglio di due suoi ministri, di parteggiare coi popoli per il papa, scelse il peggior avviso, il mezzano, onorare il pontefice per corteggi, non dargli ajuti. Giunto quegli a Bologna e ristoratosi dalle fatiche del viaggio. fece, egli primo, Visita al re intrattenendosi non breve tempo; dopo alcune ore la visita fu resa e più lunga. Toccarono la restituzione degli stati della chiesa, e l’uno tutto volendo, l’altro concedendo stentatamente, fu concordato (senza scritto perchè ognuna delle due parti voleva serbare intere le sue ragioni) rendere al pontefice Roma e ’l patrimonio di San Pietro, il re di Napoli tenere il resto. Altra discordanza era nel proseguimento del viaggio, il papa indicando la strada Emilia; e Gioacchino, a fine di trattenere i moti e gli affetti de’ popoli che rimanevano a lui soggetti, bramando che proseguisse per la Toscana. Ma Pio più forte di Gioacchino, nella scelta del cammino vinse per risolutezza; così come nella divisione de’ dominii, conoscendo sè più debole perchè disarmato ed ancora solo, aveva tollerato ch’egli tenesse la maggior parte degli antichi suoi stati. L’indomani seguitò per la strada Emilia, e lentamente giunse a Cesena sua patria, dove lunga pezza, sino a che le guerre di Francia e d’Italia ebbero fine, restò; e dipoi come in trionfo entrò in Roma il dì 24 di maggio di quell’anno 1814. Al dì vegnente le milizie di Napoli ne partirono, nè i ministri di lui vollero consegnato da’ ministri del re il governo della città e delle ricuperate province, preferendo le perdite e i disordini al fastidio ed al riconoscimento del passato dominio. Già la superbia spuntava.
LXIII. I carbonari della Calabria erano concitati dalla Sicilia; quelli di Abruzzo, da Lissa, isola dell’Adriatico, che fatta emporio di commercio e di contrabbando era dagl’Inglesi fortemente guardata. I Calabresi, sperimentati ai rigori del generale Manhes, macchinavano segretamente; ma gli altri inesperti ratto si mossero, così che al dì fissato la rivoluzione proruppe simultanea e generale nella provincia di Teramo, confine del regno. Era disegno dei carbonari adunarsi armati nella campagna, entrare nelle città, togliere di officio i magistrati, e mutargli in altri, gridare caduto l’impero di Murat e risorto quello di Ferdinando Borbone, re costituzionale; correre le vicine province, e avanzare nel regno con gli ajuti di altri settarii e della fortuna. La più parte dei desiderii si avverò: tutta intera quella estrema provincia, fuorchè la città capitale, fu ribellata; e procedeva il cambiamento nel vicino distretto di Chieti, se i provvedimenti dell’intendente Montejasi, ed il sollecito muovere di alcune squadre di gendarmi non avessero impedito ai rivoltosi di Teramo il passaggio del fiume di Pescara. Sedizione sì vasta non aveva costato nè delitti, nè fatiche: i magistrati di Gioacchino nella ribellata provincia erano usciti di posto chetamente; i novelli esercitavano senza vendette o superbia; le leggi erano mantenute; la mutazione d’impero e di ministri era avvenuta in un giorno: indizii tutti di universale consentimento, pericolo maggiore al governo. Così stavano le cose in Abruzzo quando il barone Tulli, fuggitore, venne nunzio a Gioacchino.
Essendo nell’esercito molti soldati abruzzesi, uniti a reggimento, fu prima cura del re nascondere quei casi. Dipoi consigliando i rimedii, chi dei ministri inchinava al rigore, chi alle blandizie; il re, esacerbato, stava coi primi, ma il pericolo, a vederlo, era tanto grande che si adoperarono al tempo stesso perdoni e pene, premii e minacce. Un decreto agguagliando le adunanze di carboneria a cospirazioni contro lo stato, puniva di morte gli antichi carbonari che si adunassero, come i nuovi che si ascrivessero alla setta. La reggente mandava in Abruzzo le più fide squadre, e due signori abruzzesi accreditati per bella fama di politiche virtù, il cavaliere Delfico e il barone Nolli, mentre il re inviava dal campo il generale Florestano Pepe, autorevole per grado, benigno per indole.
Ma quella sedizione senza nerbo di forze interne o esteriori, impeto primo e sconsigliato di accesi ingegni, da sè stessa indeboliva e cadeva. Gli antichi magistrati di Murat ripigliavano le sedi senza contrasto cedute; gl’intrusi le ricedevano più facilmente, le squidre mandate di Napoli vi giunsero dopo la calma; il Delfico, grave di anni, si arrestò; ed al general Pepe fu surrogato il generale Montigny francese, violento, maligno. Avvegnachè intesa da Gioacchino la improvvisa vicenda, non più temendo dei ribelli, volle ad esempio aspramente punirli; rivocò le blandizie, afforzò il rigore, e molte morti, molte pene, lacrime ed afflizioni furono il fine di quel fanciullesco rivolgimento.
LXIV. Dalle cose d’Italia erano quelle di Francia assai diverso; qua politica molta e poca guerra, là politica quasi nessuna e guerra grandissima; i congressi europei oramai sciolti, i destini del mondo in mano alla fortuna dell’armi. In un tempo che questa si mostrò lusinghiera a Bonaparte, l’imperator d’Austria scrisse a Gioacchino di suo pugno per accertarlo delle ratifiche alla fermata alleanza; e l’imperatore di Russia spedì suo legato il conte Balachef a trattar pace col re di Napoli. Mentre lord Bentinck venuto a chieder la cessione di Livorno e Pisa onde formarne base di guerra contro Genova, peri discorsi del conte Mier e di altri ministri dei re alleati, abbandonò quelle pretensioni, e temperando l’alterigia si mostrò al re amico e riverente. Le quali cose portavano in Gioacchino la cortezza delle vittorie di Bonaparte, raccontate nei bullettini, esagerate dai Francesi che gli erano intorno, ed accreditate dal conosciuto genio del capitano grandissimo e dalle proprie speranze. Fece prova per l’ultima volta di legarsi col vicerè; ma questi più incitato alla nemicizia dalle fortune di Bonaparte, che erano a Murat stimoli di concordia, rigettò le offerte, scacciò l’ambasciatore, e perchè giovava alla vendetta ed alle difese sparger odio e diffidanza fra suoi nemici, trovò maniera di palesare quelle pratiche ai commissarii dei re alleati presso Gioacchino.
E intanto il generale Grenier con quattordici mila Italo-Francesi, valicato il Po a Piacenza, attaccò nei campi della Nura e di Parma la legione austriaca retta dal generate Nugent, e altre schiere per il ponte di Borgoforte assaltavano Guastalla. In ambo i luoghi i Tedeschi vinti e scacciati lasciarono sul campo quattrocento tra morti e feriti, duemila e più prigionieri, due cannoni, molti arnesi di guerra; e Grenier, messa guernigione in Parma e Reggio, tornando alle sue linee per Borgoforte, abbandonò Guastalla; Nugent, riordinatosi dietro i campi napoletani, si trovò in riserva; la legione del generale Carascosa in avanguardia; quella del generale Ambrosio nel centro. Per il movimento di Grenier una compagnia napoletana, avviluppata fra’ battaglioni francesi, fu prigioniera; ma nel giorno istesso rilasciata con amichevoli dimostrazioni e con armi: dono astuto e fallace.
E queste apparenze, e il non aver scccorso opportunamente la legione tedesca da forze maggiori assalita, e i ritardi e le pratiche e gli sconsigliati discorsi del re, diedero tanto sospetto di inganni che oramai gli alleati temevano di lui come di nemico; i commissarii apertamente si querelavano; Balachef sospese le conferenze di pace, e Gioacchino allora per accorrere al maggior pericolo (come usano gli uomini di animo incerto, chiamando scaltrezza o bisogno la continua inconstanza) stabilì di assaltar Reggio e ricondurre la legione tedesca ai suoi campi di Parma e della Nura. Al dì seguente le preparate schiere ed alcuni battaglioni austriaci che il generale Nugent, a ristoro di onore ed a vendetta, volle in avanguardia, scontraronsi col nemico sul ponte di San Maurizio presso a Reggio, e si venne all’armi. Il ponte chiuso con alberi abbattuti era difeso da soldati e cannoni, e la sponda sinistra del fiume da fanti, cavalieri e artiglierie. Cominciato il combattimento, il fiume valicato più in su del ponte dai Napoletani guidati dal generale Guglielmo Pepe, le barricate scomposte, allontanati i difensori e le artiglierie, il ponte preso e preso il campo: i nemici, ordinati ma solleciti, ripararono in Reggio. Le due parti combatterono con forze, animo ed arte uguale; il generale Severoli italiano, capo degli Itali-Francesi, cadde come estinto, troncatagli una gamba da palla di cannone, altri cinquecento dei suoi furono morti o feriti, seicento prigioni, e degli Austro-Napoletani quattrocento tra feriti e morti. Il re giunse al campo quando già la vittoria era per noi; e però se ne debbe l’onore ai generali Carascosa e Nugent. Chiuso in Reggio il nemico, valicato il canale del naviglio dai Napoletani, già nostra la strada di Parma e debolissime le mura di Reggio, si poteva con poca altra guerra espugnare la città e tener prigioni quei presidii, ma il re concesse libera ritirata, concordandone i patti i generali Livron e Rambourg, l’uno per la nostra parte e l’altro per la contraria, ambo Francesi. E così quel merito di alleanza del mattino fu perduto al cader del giorno, e rimasero interi o accresciuti i sospetti e le querele.
LXV. Ed intanto cadute in peggio le cose di Francia, i commissarii presso del re divennero più baldanzosi, Balachef più schivo alla pace, ogni cosa più contraria alle affezioni ed agl’interessi di Gioacchino. Ed egli abbandonando come che tardi le dubbiezze, volle congresso con Bellegarde, e concertarono le operazioni di guerra, contemporanee de’ Napoletani sul Taro, de’ Tedeschi sul Mincio, obbietto de’ primi Piacenza, de’ secondi Milano. Sì che a’ 13 di aprile effettuati i convenuti movimenti, il re con novemila soldati passò il Taro, difeso da sei in settemila Italo-Franchi; altra legione napoletana osservava il passaggio di Borgoforte, ed altre squadre dello stesso esercito ed austriache stavano in riserva; mentre che in Sacca si faceva finta di gettare un ponte sul Po per minacciare l’ala diritta del nemico, e così giovare a Bellegrade che operava contro il centro e la sinistra. Fu combattuto sul Mincio senza effetto, non si scontrarono a Borgoforte; il ponte a Sacca venne contrastato e impedito da forze sei volte maggiori; restò la riserva inoperosa. Il Taro, combattendo, fu valicato; quattrocento de’ nostri morti o feriti; altrettanti de’ contrarii e cinquecento prigioni. Il generale Gobert austriaco, guidando schiere tedesche, lentamente operò sul fianco destro del nemico sì che questi potè ritirarsi, ed il re in argomento di zelo ne fece pubblica lamentanza. Il generale Mancune, reggitore della contraria parte, ordinatamente si raccolse al cadere del giorno in Sandonnino, e nella notte a Firenzuola. I Napoletani pernottarono sul campo, ed alla prima luce del vegnente giorno traversarono Sandonnino, vuoto di guardie, procederono a Firenzuola, scontrarono il nemico e lo spinsero con poca guerra oltre la Nura, e sol dalla notte non dal fortificato convento di San Lazzaro furono trattenuti. Lo indomani dopo caldo ma breve combattimento quel posto e quel campo furono presi, il nemico riparò in Piacenza, noi al di fuori disegnavamo i modi di espugnar la città.
LXVI. E si era appena al meriggio del 15 di aprile del 1814, quando un foglio del generale Bellegarde, riportando la presa di Parigi, annunziava sospesa in Italia la guerra, ed aperte le conferenze di pace col vicerè. Al tempo stesso per la via di Piacenza, non più chiusa, giunse messaggero un uffiziale di Francia, e tutte riferì le infelici sorti dell’impero, le sventure dell’armi, il tradimento di alcuni capi, la fellonia di un ministro, la macchinazione di alcuni più conti e più ambiziosi fra i liberali, gli atti e ’l decreto del senato, la fuga di Giuseppe Bonaparte, le capitolazioni di Parigi, l’abdicazione dell’imperatore, il ritorno de’ Borboni al trono, e quel tumulto di consentimenti e di adulazioni che in Francia (vergogna ed ostacolo alla vera grandezza di un popolo) più che altrove subitamente si manifesta a pro del potere e della fortuna. Stava Gioacchino a passeggiare sul prato di piccola casa di campagna, quasi alle mura della città, ed io seco ragionando delle fortificazioni di Piacenza e del modo di espugnarle, quando giunsero que’ due messi. Leggendo i fogli impallidì, e tacito per alcun tempo ed agitato passeggiava in disordine: ma poscia a pochi che gli stavano intorno disse mestamente ed in breve i casi della Francia, comandò che la guerra fosse sospesa, e subito tornò a Firenzuola, indi a Bologna. Nè cessò la mestizia, che anzi per parecchi giorni andava crescendo, pensando alla grandezza del rovinato impero, ed a passati travagli per innalzarlo, ed a’ suoi presenti pericoli ed a Bonaparte, non più in sua mente despota e superbo, ma congiunto, benefattore e infelice.
LXVII. Pochi dì appresso il vicerè fece accordi con Bellegarde e con Gioacchino: stabilirono che dell’esercito italo-franco i Francesi ritornassero in patria, gl’Italiani serbassero il paese che allora occupavano, ed era quanto è racchiuso tra il piede dell’Alpi, il Po ed il Mincio, i Napoletani prendessero le stanze prefisse ne’ trattati della confederazione; le fortezze oltre il Mincio, ancora guardate da’ Francesi, fossero cedute a’ Tedeschi di Bellegarde. Mentre Genova investita dagli Anglo-Siculi, e fatta consapevole degli avvenimenti di Francia, erasi data per capitolazione a lord Bentinck, e questi con la usata foga (leggerezza che pareva inganno) la ordinava a repubblica, e ristabiliva leggi e magistrati a modo del 1797. In tutta Italia finì la guerra.
Se non che in que’ giorni stessi altra peggiore, perchè civile, arse in Milano. Pure in quella città più favorita in Italia da’ Francesi, il genio ingrato e nemico della Francia trovò numerosi e potenti partigiani. Cosicchè scomparse appena le milizie, il popolo della città cresciuto di genti del contado, a disegno raccolte ed armate, proruppe tumultuosamente, abbassò, disfece tutte le insegne del passato dominio, dispregiò l’autorità de’ magistrati, uccise spietatamente il ministro Prina, e, sconoscendo il vicerè, nominò una reggenza fra cittadini; e questa inesperta e presuntuosa, sperando libertà da’ sovrani del Nord, mandò ambasciatori a chiedere libera costituzione della quale segnò i termini. Il principe Beauharnais offeso nello impero, minacciato nella persona, non tornò a Milano, andò in Baviera presso il re suo congiunto; governavano la città capo del regno italico reggenti nuovi, alzati da’ moti tumultuosi del popolo; nulla restò dell’antico, che i re alleati per naturale riverenza alle passate grandezze, o per prudente consiglio sino allora rispettavano; e perciò Bellegarde, trasgredendo i patti, spinse le schiere sino a Milano, ed il nome di quel regno e le ultime speranze di quegl’italiani disparvero. Disegni mal ponderati de’ liberali francesi avevano nociuto alla Francia, disegni simili di egual gente nocquero all’Italia; e quelle imprudenze discendevano da’ desiderii d’indipendenza surti l’anno innanzi tra’ popoli.
Ma poichè le alleanze europee contro Bonaparte ebbero pieno trionfo, gli spazii lasciati dal nuovo invadeva l’antico, modesto agli atti, superbissimo ne’ proponimenti. Il papa Pio VII, possessore di Roma e delle province che dicevano patrimonio della chiesa, aveva rivocate tutte le leggi dell’impero francese, e ristabilite le antiche, fin la tortura. Vittorio Emanuele, appena tornato al trono del Piemonte, avea prescritto esser leggi e costituzione dello stato quelle del 1770; Ferdinando III, ricondotto dalle armi del re Gioacchino al trono della Toscana, avea richiamate le maravigliose per il passato secolo, non bastevoli al nuovo, leggi di Leopoldo; ed un suo luogotenente che il precedette, abborrendo ogni cosa francese, chiudeva le nuove scuole, aboliva le case di arti e di pietà. Tutto il già regno italico, Parma, Modena, Lucca, le tre Legazioni, e le terre chiamate Presidii della Toscana, erano occupate da’ Tedeschi, e governate senza leggi certe, ad occasione ed a modo di militar comando. Quei Presidii, utili in pace a’ re di Napoli, non poca forza nelle guerre, d’Italia, e possesso di tre secoli, perduti per la rivoluzione di Francia, furono obliati ne’ trattati tra Fouchè e Lecchi, e poi alla consegna toscana fra Roccaromana e Rospigliosi; cosicchè due dimenticanze disperderono il frutto di tre guerre di Alfonso I di Aragona e di Filippo IV, e la continua prudenza de re successori. Genova, vaneggiando di libertà, obbediva alle vecchie sue leggi. Le Marche presidiate e comandate da milizie napoletane, tolleravano governo misto, altiero e bene spesso assoluto. Perciò la civiltà nuova, che poco fa copriva la quasi intera Europa, serbava immagine di sè nel solo regno di Napoli.
LXVIII. Gioacchino, riparate come poteva le sue cose d’Italia, e lasciate nelle Marche due legioni sotto l’impero del general Carascosa governatore di quelle province, tornò in Napoli. Furono grandi le feste, talune prescritte, altre suggerite dall’adulazione, tutte ingannevoli; perocchè la caduta di Bonaparte e l’impeto del vecchio sopra il nuovo, lasciando Gioacchino isolato e straniero alla politica del tempo, suscitava ne’ popoli sospetto che le sorti dei regno sarebbero in breve mutate. Ed indi a poco, in conferma di tali dubbiezze si lessero gli editti del general Bellegarde, nunzii del ritorno dell’antica Lombardia all’impero d’Austria; e i trattati di pace fermati a Parigi il 30 di maggio, ne’ quali, non facendo motto del re di Napoli, si convocava congresso di ambasciatori a Vienna per i casi dubbii di dominio. Pompeggiava intanto ne’ discorsi e negli editti de’ più potenti re la legittimità, parola ne’ primi tempi variamente intesa; ma poichè fu da principi definita la distruttrice delle male opere di cinque lustri, conservatrice delle buone, e sopra le vaste rovine della rivoluzione restauratrice benigna delle precedenti cose e persone, era parola e principio pericoloso e contrario a Gioacchino. Egli nominò suoi ambasciatori nel congresso il duca di Campochiaro ed il principe di Cariati; e ad occasione vi spediva generali ed altri personaggi di fama e d’ingegno.
Ma volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando che più de’ maneggi e de’ discorsi valer gli dovesse il voto de’ soggetti e la forza dell’esercito, in tempi ne’ quali menavasi vanto dell’amore de’ popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori ingegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti acquistata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il regno senza o soggezione o simiglianza o gratitudine ad altro stato; così adombrando le tollerate catene per nove anni. Chiamava in ajuto il consiglio de’ più sapienti e più amanti di patria, che intendessero a riformare i codici, la finanza, l’amministrazione, l’esercito. Pregava di non correre ciecamente con la fortuna verso il passato, ma considerare che le civili instituzioni della rivoluzione di Francia e dell’impero erano frutto in gran parte della sapienza de’ secoli.
E prima che il consiglio per la finanza proponesse la riforma di alcun tributo, egli di parecchi più gravi alleviò il peso. Per nuove ordinanze giovò al commercio esterno, così aggradendo ai suoi popoli ed agli Inglesi, che soli trafficavano ne’ nostri porti; fece libero coll’abolizione del cabottagio (tal era il nome di un sistema modestissimo di dogana marittima) il commercio interno; fece libera la uscita delle granaglie; tolse alcuni dazii di entrata, altri scemò; non osava bandire l’assoluta libertà commerciale, impedito dalla poca sua scienza nella pubblica economia e dal mal esempio della Francia e dell’Inghilterra.
LXIX. Era stata per nove anni invidia e lamento de’ Napoletani veder nel regno i Francesi primi agli onori e a’ guadagni; e perciò il re, oggi inteso di piacere a’ suoi popoli, prescrisse concedersi le cariche dello stato a’ soli Napoletani, o a quegli stranieri divenuti per legge cittadini; e non essere cittadino se non a’ termini dello statuto di Bajona; e doversi chiedere la cittadinanza fra un mese; e non chiesta, o non concessa, uscir di uffizio. Quanti erano stranieri nel regno dimandarono la cittadinanza napoletana; ed aperto l’esame nel consiglio di stato, pochi de’ consiglieri mostravansi severi, molti facili; ma coll’andare de’ giorni la severità prevaleva. E ciò visto, i Francesi, per disperazione fatti audaci, dicevano al re. «Da voi pregati, lusingati da voi (rammentando i tempi, i luoghi, le parole), siamo rimasti con voi, nemico alla Francia; ed ora stesso, felice in trono, discacciate noi senza patria infelicissimi, poveri, e solamente colpevoli della vostra colpa.» Rimproveri acerbi perchè veri.
L’animo del re fu commosso; che ad ogn’istante al mal preso partito d’infingere e d’ingannare egli pagava larghissimo tributo di dolori e di danni. Venne in consiglio di stato preparato a difendere gli stranieri col renderne facile la cittadinanza, e disse: «Io parlo a voi questa volta come re a’ consiglieri, e come padre a’ figli; perciocchè nella quistione che proporrò, trovandosi confusi interessi ed affetti, si competono i giudizii della mente e del cuore. Da chè le fortune di Francia mutarono, e giovò al regno l’esser nemico di quell’impero, io benchè francese, congiunto di sangue e debitore del trono all’imperator Napoleone, seguendo il vostro interesse e i consigli vostri, mi legai in guerra co’ nemici della mia patria e della mia famiglia. Il mio cuore, non vo’ nascondere il vero, è stato assalito da contrarii affetti; ha combattuto in segreto per molti mesi, e combatte, i doveri di re hanno sempre vinto e vinceranno. E benchè la quistione che or ora proporrò sia dentro me stesso decisa, se voi sarete contrarii al mio voto, io non userò del sovrano potere, ma tollerando questo nuovo dolore, seconderò il vostro avviso.
De molti Francesi che in guerra o negli officii di pace han servito tra noi, e che a mal grado dispongonsi all’andare, io a picciol numero, a soli ventisei qui registrati (mostrò un foglio) ho promesso che voi concederete le dimandata cittadinanza. Sono gli stessi che volendo partirsi mesi addietro, io, travagliato sul Po, trattenni con preghiere e lusinghe. Non troverebbero in Francia nè patria che da nemici abbandonarono, nè stima pubblica, nè la stessa misera quiete dell’oscurità, giacchè troppo noti per fama ed opere. Or io vi dimando per essi la cittadinanza; il concederla a fia premio a’ servigi che han reso alla nostra patria, pietà del loro stato, condiscendenza alle mie promesse.» E ciò con amorevole gesto proferito, più altieramente soggiunse. «È libero ad ognuno il rispondere.»
Il qual discorso avrebbe ottenuto pieno e sollecito effetto, se il continuo simulare del re non avesse scemata fede a’ suoi detti, e se la quistione di cittadinanza non legavasi all’altra maggiore della costituzione, che aveva tra’ consiglieri non pochi sostenitori, e contrarii i Francesi amici del re, i nomi dei quali non dubitavasi che fossero nel novero de’ ventisei. Due consiglieri più animosi sommessamente risposero, che, non essendo in facoltà del consiglio mutare lo statuto di Bajona, si tratterebbe della cittadinanza de’ ventisei per le vie di legge; che intanto pregavano il re con figliale rispetto ed amore a riflettere ch’egli aveva non solamente promesso ma giurato a cinque milioni di soggetti il mantenimento dello statuto; che in quei tempi di politica difficilissima rivocare i giuramenti e le promesse era troppa fidanza nella rassegnazione dei popoli, e che dopo dolori tanto vivi al suo cuore quanto profittevoli al regno, non volesse perderne il frutto, e adombrarne il merito per fievoli cagioni. Uno dei ministri perla opposta parte, in sostegno de’ voleri del re, lungamente parlò, ed ebbe vivaci risposte; l’accesa disputa si prolungava, ma il re la interruppe, dicendo: «Oramai le varie sentenze sono manifeste; si dicano i voti.» Di ventotto consiglieri, ventitrè furono per la sentenza del re, gli altri cinque per la opposta; e questi, mal veduti dal principe, erano dal pubblico laudati.
Vittorioso il re, propose di concedere cittadinanza ad ogni straniero che avesse militato nel nostro esercito; ed un suo ministro aggiungeva che per merito d’armi ogni stato diviene patria a’ guerrieri. I due consiglieri, sfortunati nel primo arringo, opponevano che passato il tempo della sgherreria militare, e le armi stesse divenute civili, il più onorevole officio era servir la patria combattendo; ma il più vergognoso vendere altrui, o per oro o per falsa gloria, la vita. Eppure in quell’adunanza di cittadini e di onesti, non per sentimento ma per servitù, il voto del re fu secondato da’ ventitrè medesimi della prima sentenza. E passando a’ nomi degli ammessi, la lista de’ ventisei fu trovata di trentotto, e quindi estesa i piacimento; l’altra de’ militari, lunghissima; non partirono che i volontarii e i più miseri: il re, che in consiglio era entrato modesto, ne uscì altiero; e que’ fatti, divolgati, accrescevano desiderio di porre alcun modo al supremo potere.
LXX. Le riforme proposte per lo esercito non furono seguite, chè ben altro in quel tempo era il pensiero e ’l bisogno di Gioacchino che diminuire la sua potenza, Egli scortamente l’accrebbe, chiamando nuovi coscritti, componendo nuovi reggimenti di fanti e cavalieri, e meglio ordinando tutte le parti della milizia. Fra i reggimenti uno se ne volea comporre de’ militari che nati in Napoli, tuttora al servizio della Sicilia, erano invitati a tornare in patria, or che la pace europea (diceva il decreto) rende ad ognuno le ragioni e gli obblighi di cittadino. Ma nè quello invito, nè il minacciato esilio a’ ripugnanti, potè vincere la giurata fede a Ferdinando; così lo sperato reggimento non fu mai composto. Abbonda il secolo di tristi esempii e buoni. Già da un anno eransi meglio ordiinate le milizie civili, e prescritta per la città di Napoli una guardia detta di sicurezza, che trovò molti ostacoli vinti dal costante volere del re; erano dodicimila almeno, in sei battaglioni di fanti, ed uno squadrone di cavalieri, con vesti, armi e fogge militari; possidenti e mercatanti i più ricchi, e professori di scienze, e magistrati di ogni grado e di ogni età, abili o inabili alla guerra; perciocchè quella adunanza valeva, non per forza d’ armi, ma per rispetto pubblico e per esempio. Ed a viepiù confermarne la memoria ed il gradimento, fu instituita e conceduta a’ più meritevoli una medaglia di oro smaltato bianco, girata di un ramo di quercia, traversata da due aste sostenitrici delle nazionali insegne e della corona regia; la qual medaglia da una faccia con la effigie del re, dall’altra col motto: Onore e fedeltà, retta da un nostro amaranto, portavasi appesa al petto per segno e fregio.
LXXI. Ed il re ostentando altra forza più conforme alla civiltà del tempo, perchè di popolo, praticò l’usato mezzo degli indirizzi. Agli impiegati più alti e più dipendenti si chiesero in segreto e se ne pattuirono da ministri del re i sensi e le parole; l’esempio si propagò ne’ minori, cosicchè le milizie, i magistrati e le amministrazioni, le comunità, il clero, le accademie e tutte insomma le corporazioni dello stato, con fogli che a disegno pubblicavano nelle gazzette, lodando di alcuna virtù il re o il suo governo, facevano voti di durabilità ed offerta delle proprie sustanze e della vita. Erano sensi veraci in parte, e in parte suggeriti da adulazione, da esempio, e suprattutto, ne’ più veggenti, dal confronto del governo Murattiano, misto di beni e mali, col Borbonico, del quale la cattività era sola e sperimentata. Una mole sì grande di desiderii privati pareva desiderio pubblico, e benchè gl’indirizzi provocati fossero ormai usato divisamento, pure nel congresso di Vienna se ne tirò argomento a pro di Gioacchino, sia che ogni molto nella mente degli uomini ha possanza, sia che non supponevasi tutta intera la napoletana società menzognera e corrotta.
Tra numero sì grande d’indirizzi due primeggiavano: l’uno dell’esercito stanziato nelle Marche, l’altro della nobiltà; perchè due ceti così potenti, soggetti e vicini alla monarchia, chiedevano i voti col dimandare al re, palesemente o sotto veto, una libera costituzione; altri ordini avevano adombrato il desiderio istesso. Ed al certo de’ mille e mille indirizzi, tra sentimenti varii e lusinghieri, uno prevaleva, ed era il vero: conservare di Gioacchino la stirpe ed il governo, ma frenati da leggi, e perciò il re ne’ discorsi e negli atti prometteva di appagare quella brama pubblica, e con ciò profondamente persuadeva all’universale il bisogno di più libero reggimento.
LXXII. Ed altro segno di potenza fu creduto il lusso della reggia, al quale inclinavano per propria alterezza il re e la regina, per costume il secolo, e per naturale imbecillità tutta la plebe della umana specie; perciò continue in corte feste, cacce, tornei, ed al campo di Marte militari esercizii che mostrassero agli osservatori l’esercito ognor crescente di numero e di bellezza. Magnifica cerimonia fra tutte, al ritorno dall’Alemagna delle schiere napoletane, fece l’esercito stanziato in città, che festeggiava que’ ritornati, tra’ quali il generale d’Ambrosio ferito nella battaglia di Bautzen, il generale Macdonald in Lutzen, i generali de’ Gennaro e Florestano Pepe feriti in Danzica.
L’Italia intanto, aperta dopo dieci anni a’ viaggiatori, era piena d’Inglesi e di personaggi di altre nazioni, venuti curiosi, o mandati ad esaminare lo stato de’ popoli e de’ governi, e soprattutto di Napoli, a cui gareggiavano due re. Ogni forestiero di fama o grado era ammesso alla reggia, ed ivi per le delizie del luogo e la cortesia de’ principi e le studiate blandizie de’ ministri della corte (comunque vi giungesse indifferente o nemico), pigliava affetto a Gioacchino ed alla sua causa. Ne’ diporti delle cacce e delle ville era prescritto a’ cortigiani abito uniforme, con segni della casa Murat, e però di domestica servit; e frattanto i liberi e superbi Inglesi, i nobili Alemanni, i più caldi sprezzatori de’ re nuovi, io ho visti, e tutti, non costretti, non incitati, ornarsi di quelle vesti e menarne vanto e superbia. La regina d’Inghilterra, allora principessa di Galles, venne in Napoli e fu accolta nella reggia come si conveniva al grado di lei, alle speranze che Gioacchino avea poste nella politica inglese. E colei rendendo le ricevute grazie, mostravasi riverente a’ sovrani del luogo.
LXXIII. Ad una di cotali feste, in Portici, negli appartamenti della regina Murat, giunse da Vienna l’annunzio, che la regina di Sicilia Carolina d’Austria era morta nel castello di Hetzendorf la sera del 7 di settembre di quell’anno 1814, così all’improvviso, che le mancarono gli ajuti dell’arte e gli argomenti di religione; perocchè fu trovata morta, sola, mal seduta sopra seggiola, in posizione sforzata e terribile, con la bocca in atto di profferir parola, e la mano stesa verso il laccio di un campanello a cui non giungeva; e sì che a vederla dicevasi che non le fosse bastata la forza e la voce a chiamar soccorso. Fu creduto che ella morisse di dolore, perchè in quel tempo le sorti di Gioacchino erano, nel congresso, più delle sue fortunate; e ‘l giorno innanzi i ministri di lei rammentando le ragioni della casa Borbonica al trono di Napoli, ne avevano avuto in risposta l’acerbo ricordo delle esercitate crudeltà del 99; ed a lei, poche ore innanzi del morire, indiscreto cortigiano avea riferito (vero o falso, ma in Vienna divolgato) il motto dell’imperatore di Russia: «Non potersi, or che si curava dei popoli, rendere al trono di Napoli un re carnefice (Ferdinando}.» Visse quella regina anni più che sessantadue, de’ quali quarantasei sul trono. Di lei rammenta la istoria atti di grandezza e di crudeltà, avendo per natura animo eccelso e tirannico; onorata nelle reggie straniere, superba nella propria reggia, splendida, ingegnosa, fu ne’ primi anni di regno ammirata da’ soggetti; ma dipoi, per le rivoluzioni di Francia, destati in lei sensi di vendetta e di timore, divenne ingiusta, spietata, persecutrice di virtù, incitatrice e sostegno alle più turpi azioni che giovassero al dispotismo. Ella suscitò nel marito i primi sospetti contro i sudditi; ella compose lo spionaggio, la polizia, i tribunali di stato; per consiglio di lei le ingiuste guerre, le finte paci, giuramenti e spergiuri; da lei gran parte delle crudeltà del 99, da lei traevano principio ed alimento le discordie civili che per otto anni travagliarono il regno; in lei trovavano speranza e adempimento le ambizioni di fra Diavolo, Canosa, Guarriglia ed altri tristi. Perciò di vita colpevole fu la fine non pianta; e poichè morì in mezzo al congresso de’ re, l’imperatore d’Austria, non volendo annebbiare lo splendore e la gioja della città, vietò il bruno, e la fortuna negò alla sua memoria per fino le apparenze del dolore. Ma nella reggia di Murat, la sua dignità non comportando che la sentita allegrezza per la morte della nemica trasparisse, i due sovrani si ritirarono, e la festa si sciolse.
Altri più prosperi annunzii pervennero a Gioacchino. In certe nuove condizioni di alleanza fermate a Troyes prima che Bonaparte cadesse, l’Austria, la Russia, la Prussia e la Inghilterra pattovirono di dare in Italia al re Ferdinando di Sicilia il controcambio dei perduti dominii di Napoli. In altro atto di quei potentati, conchiuso più tardi in Chaumont, erano confermati i patti dell’alleanza dell’Austria con Gioacchino. E poi nel congresso di Vienna, contrastando quei re su la Polonia, stando per una sentenza Russia e Prussia, per l’altra l’Austria, Francia ed Inghilterra; e le due parti lusingando i potentati stranieri per aversegli amici, il re di Napoli chiesto di lega dalla Russia per ambasciata, dall’Austria per lettere di Francesco I, temporeggiando con l’una rispondeva all’altro concordandosi alla sua politica.
LXXIV. Ma presto le fortune mutarono. Cessate nel congresso le contese, accusato il re Gioacchino di mancamenti nella guerra d’Italia, sospettato di nuove trame ed ambizioni, perseguito dal ministro di Francia Talleyrand, che ai doveri della sua imbasciata univa lo zelo di purgar con l’odio i prestati servigi a Napoleone ed ai napoleonici, e sentiva cupidigia di ricevere dal re Ferdinando un milione di franchi per pattovito premio del trono di Napoli: Gioacchino, in tanti modi travagliato, non più confidava nella alleanza austriaca; udiva i suoi ministri a Vienna male accetti, i ministri del re contrario ammessi alle conferenze del congresso; il principe di Metternich accennare le compensazioni, per dare a lui non più come innanzi al suo rivale; il re di Francia preparare armi in sostegno del legittimo re delle Sicilie; i principi italiani esagerare il timore di un vicino come Murat, potente, ambizioso, usato alla guerra ed a rivolgimenti. Ridotto perciò a confidare nelle proprie forze, volle accrescerle, e diè cagione a nuovi sospetti e querele. E frattanto la Francia e la Italia, semprepiù scontente dei novelli reggitori, per moti e minacce davano apprensione al congresso. L’imperatore d’Austria chiese a Gioacchino di restituire al papa le Marche, e quegli rispondendo rammentò i patti segreti della lega, afforzò di maggiori presidii quelle province, ed attese ad accrescere le fortificazioni di Ancona. L’imperatore nei suoi stati di Milano e Venezia puniva i cospiratori o i contumaci, e il re accoglieva i fuggiaschi e i disertori, gli ordinava a reggimento. Il papa dolevasi dei segreti maneggi di un console napoletano, cavaliere Zuccheri, che il re scusava; e quando, palesàte le trame, il papa minacciò il console, venne di peggio minacciato dal re, che mosse altre schiere verso la frontiera romana e spedì nelle Marche un Maghella suo ministro a concitare, coi segreti modi della polizia o delle sette, i popoli contro il pontefice. E dall’isola d’Elba Bonaparte, deposta l’ira, comunicava amichevolmente col cognato e con la sorella; e la principessa Paolina Borghese veniva in Napoli e quindi tornava all’Elba, ed altri men chiari ma più arditi personaggi giungevano da Langone e Parigi alla reggia di Murat trasfigurati, ma sospetti agli ambasciatori dei re alleati: essi non credendo a’ ministri di Napoli, che in varii modi male onestavano quelle pratiche. Perciò il congresso di Vienna, informato di ogni cosa, semprepiù diffidava di Gioacchino, e Gioacchino del congresso.
LXXV. Così nella reggia, lieto in viso, agitato nell’animo, infaticabilmente operoso, passò Gioacchino alcuni mesi, nel mezzo de’ quali si udì che Ferdinando di Sicilia avea tolta per moglie una sua soggetta Lucia Migliaccio, vedova del principe di Partanna, madre di molti figli; di nobiie stirpe, di volgare ingegno, e per antiche libidini famosa. Ella moglie di altrui piacque a Ferdinando di altra donna marito, ed oggi, per fortuna vedovi entrambo, placar vollero i rimorsi della coscienza con matrimonio tardivo. Lo sacrarono privatamente come in segreto nella cappella della reggia, cinquanta giorni poi che fu nota la morte di Carolina d’Austria, duranti ancora nelle chiese dell’isola ed in qualcuna della città per la defunta regina gli ufficii funerei.
Ed altre cose sapevansi della Sicilia. Il re Ferdinando avea ripigliato il governo de’ popoli, giurata la costituzione dell’anno XII, aperto, disciolto, riaperto il parlamento, ragionando da re benigno, risoluto ad osservare e sostenere quel novello politico reggimento. Delle quali cose rallegravasi la Sicilia, e la fama narrando ed esagerando viepiù accendeva i nostri desiderii e la speranza di governo migliore. I carbonari tumultuavano, e Gioacchino temendo che opinioni così numerose, a lui contrarie, distruggessero la immagine della unanimità ostentata con gl’indirizzi, ammollì o finse di ammollire lo sdegno, propose accomodamenti alla setta, la inanimì, la fece audace. Lo stato morale delle due Sicilie nuoceva in doppio modo a Murat, che qui decadeva la sua potenza e ’l suo credito, là il credito e la potenza del nemico cresceva. Perciò egli che un mese avanti aveva bandito libero il commercio con quell’isola, ora, vedendo le sperate insidie convertirsi in pericoli, per novelli decreti lo impedì. Il re Ferdinando imitò l’esempio, i due stati tornarono come nemici.