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116 LIBRO SETTIMO — 1813.

patteggiare (facil cosa se foste insieme) la indipendenza d’Italia. Ma il principe Eugenio, nè per pace nè per guerra si legherà col re Murat, vorrà singolar merito di fedeltà cieca, non di politica, e fama da scena non da istoria. Se l’abbia. Ma, o sire, quanto grande esser debbe il dolore di ogni uomo nato in Italia al vedere in questo istante soldati prodi italiani negli eserciti francesi, ed altri nello esercito del vicerè, ed altri con V. M., ed altri con gl’Inglesi, altri col re di Sicilia; duecentomila almeno dalle Alpi a Capo Noto, parlando l’idioma istesso d’Italia, combattere per cause varie e di altrui; disperdere inutilmente il valore e la vita, e mentre nel braccio e nel senno proprio starebbe la italiana sicurezza, andarla pregando, non esauditi? Non è dunque inerme o pigra la Italia, ma cagion vera delle miserie sue è la divisione delle sue genti e de’ suoi reggitori.

Però che tale è voluta dal fato, V. M, abbandonando le generali speranze, provvegga almeno a questa ultima non infima nè ignobil parte della penisola, e le dia certezza di civiltà e di avvenire, Il potrà fermando pace ed alleanza coi re di Europa, tenendo unito l’esercito in Italia, dando al suo popolo commercio libero con la Inghilterra, migliorando le instituzioni civili, rivocando le persecuzioni di polizia, riducendo in uno le parti divise dello stato; e non sofferendo che un vecchio re, nato re, usato agli errori di assoluta potenza, superi in civiltà un re nuovo, surto da libera rivoluzione per militare grandezza.

Ed infine, io da’ ragionamenti passando alle preghiere, la supplico di prendere sollecita immutabile sentenza, non cedendo al consiglio di chi vago dell’antica politica italiana chiama vittoria il guadagnar tempo, ed arti di governo simulare e dissimulare co’ nemici e gli amici. E soprattutto la prego a non prendersi di falsa specie di gloria, ma credere che vi ha un sol mezzo da serbar la sua fama; serbando il trono.»

LVI. E mentre l’oratore parlava, Gioacchino, che pure usava di rompere il discorso, attentamente l’udiva. Mostrò talora disdegno, ma subito lo frenò perchè i liberi detti uscivano di labbro amico e devoto; due volte fu commosso, quando si figurò scudo alla vita di Bonaparte; e quando invitato a distruggere un libro delle sue istorie, pareva che dovesse distruggere quello de’ proprii affetti. Accomiatò l’oratore, e gli rese grazie: altri generali avevano parlato o dipoi parlarono nei sensi stessi: le cose di Francia peggioravano; la neutralità della Svizzera presso che violata, gli eserciti tedeschi su l’Adige, Venezia bloccata; cresceva nel suo reame la scontentezza; nell’esercito la contumacia; alle lettere di lui e della regina, espositrici de’ pericoli del regno, l’imperator Napoleone per superbia o sospetto non rispondeva. Incalzavano