Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VII/Capo V
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CAPO QUINTO.
Fugge dall’Elba l’imperatore Napoleone. Gioacchino muove guerra in Italia; vinto da’ Tedeschi abbandona il regno. Ferdinando Borbone ascende al trono di Napoli.
LXXVI. Le feste in corte al cominciar dell’anno 1815 furono di tutte e precedenti più splendide, meno liete, perchè in Gioacchino i sembianti di sicurezza non velavano abbastanza le agitazioni dell’animo, nè l’apparente riverenza de’ ministri stranieri copriva la loro segreta avversione, e fra le allegrezze della reggia trasparivano le incertezze del futuro e le inquietudini. Gli apparecchi di guerra a comune maraviglia crescevano, i moti nella casa erano più grandi e più concitati, lo spedir de’ corrieri continuo, l’arrivo, la partenza de’ forestieri frequente quanto non mai. Ed ecco, dopo alcuni giorni di straordinario commovimento, giunge nuova che l’imperatore Napoleone, imbarcato. il dì 26 di fehbrajo a Porto Ferrajo, con mille soldati veleggiava, verso Francia. Il messo che a Gioacchino recava l’avviso della partenza, perocchè il disegno gli era noto, giunse in Napoli nella sera del 4 di marzo, mentre ne’ privati appartamenti della regina, con pochi cortigiani, ministri ed ambasciatori stranieri, stava il re a diporto. Andò con la moglie, chiamati ad altra stanza, ed indi a poco tornando riferì con allegrezza la ricevuta notizia e sciolse il circolo.
Al dì seguente mandò lettere per solleciti messi alle corti d’Austria e d’Inghilterra, dichiarando che, felici o sventurate le future sorti dell’imperator Napoleone, egli, stabile nella sua politica non mancherebbe alle formate alleanze; le quali dichiarazioni erano inganni, però che sensi contrarii chiudeva in cuore. Sconfidava dell’Austria e del congresso, e ne ricordava i mancamenti e le minacce; riposava nella fortuna di Bonaparte, e già sembravagli di vederlo sul trono, potente e primo in Europa; gli premeva il cuore la memoria delle recenti offese fatte alla Francia per la guerra d’Italia, e sperava di ammendarle per opere che giovassero all’ardita impresa del cognato. Ed in mezzo a questi pensieri spuntava l’ambiziosa voglia d’impadronirsi della Italia; e prendere quel destro a farsi grandissimo, per poi patteggiare dopo gli eventi con l’Austria e con la Francia, qualunque restasse vincitrice. Sorprendeva i Tedeschi, non temeva per lo armistizio gl’Inglesi, nè gli alleati, solamente rivolti alla guerra di Francia. Ciò che mancava a’ suoi disegni lo sperava dalla fortuna, ed a tutte le obbiezioni del proprio senno rispondeva co’ ricordi della sua vita.
Ma trattenevano il proponimento i ministri, i consiglieri, gli amici, la moglie; il qual contrasto lo indusse a convocare un consiglio, non per seguirne le sentenze, ma sperando di sedurre le altrui opinioni, persuader tutti alla guerra, spegnere le contrarietà, muovere all’impresa per unanime sentimento. Palesò allora per la prima volta, e forse amplificò i suoi timori dal congresso, le speranze e i maneggi nell’Italia; rappresentò l’esercito di ottantamila soldati, e quattordici battaglioni di milizie provinciali, quattromila guardie doganiere, duemila forestieri, ed una milizia civile numerosissimi: tutto il regno levato in armi. Disse l’Italia intorno al Po preparata e sommossa in suo favore, citò i nomi de’ partigiani e le forze; un di questi accertava avere assoldati dodici reggimenti, e tener pronti dodicimila archibugi; altro in distanza del primo nutrir quattro reggimenti armati; un terzo, di cui taceva il nome, personaggio allo e potente, trarre seco il maggior nerbo del già esercito italiano ed unirlo a’ Napoletani per la comune causa della indipendenza; soccorsi che i partigiani di Gioacchino, millantando, avevano esagerati; ed erano creduti in parte da lui, nulla o minimamente dal consiglio.
Il re proseguendo diceva, che negli attuali moti di Europa nè si doveva scemare L’esercito nè con le entrate pubbliche di Napoli si poteva mantenerlo; o dunque abbisognavano nuove taglie, o farlo vivere sopra altre terre ed altre genti. Poi ragionando della politica europea rappresentava i pericoli della civiltà, non solo temuti ma sperimentati, e rassegnava in argomento tutti gli stati d’Italia; il retrocedere del Piemonte, la ingannata e oppressa repubblica genovese, il regno italico disciolto, i Lombardi abbiettati, tutta l’antica Romagna minacciata della barbarie papale, ed in Roma la tortura rialzata. Si poteva confederarsi a’ nemici di Bonaparte, sospirando ei diceva, quando accertavano voler la Francia frenata non oppressa, e le sorti de’ popoli migliorate, e gli antichi re ammansiti, e non perduto il frutto de’ travagli di trent’anni, e de’ pensieri di due secoli; ma che oggi, vista scopertamente la politica del congresso, il combattere per quelle parti saria misfatto di offesa civiltà.
Eppure tante ragioni e speranze non lusingavano il consiglio, il quale componendosi di Napoletani e Francesi, vedendo nella guerra pericoli per la Francia, pericoli maggiori per Napoli, ed in Gioacchino passione più che senno ed ambizione, non politica di re italiano, concluse: che si attendessero le risposte da Vienna e Londra alle lettere del 5, si scoprissero dell’Austria (or che il tempo e gli avvenimenti la stringevano) le vere intenzioni sul trono di Napoli; si aspettasse la fine della impresa di Bonaparte; e la decisione del congresso europeo su le cose di Francia. A questo, il consiglio si sciolse; ma nel re non scemò il proponimento di guerra; gli apparecchi incalzavano, le nuove leggi riformatrici del regno cadevano, la speranza di costituzione mancava, tutti gli attesi benefizii pubblici erano spenti o allentati, ed un gran pericolo soprastava. Manifestato il pensiero del re, le opposizioni furono maggiori, pubbliche, vane; già i destini di Murat si compivano: a’ dì 15 marzo 1815 palesò la guerra.
LXXVII. La idea che oggi dicono piano di guerra, tenuta occulta da Gioacchino, si mostrò combattendo. L’esercito destinato all’impresa, benchè per grido di cinquantaduemila soldati, era nel fatto di trentacinquemila, e cinquemila cavalli e sessanta cannoni. Si esagerava il vero per gli usati inganni, e per rassicurare i popoli d’Italia che si speravano partigiani. Nè maggiore poter essere, perchè abbisognavano molte schiere nel regno a difenderlo da’ temuti assalti e maneggi del re di Sicilia; e perchè la milizia napoletana non era veramente così poderosa come Gioacchino affermava, nè tutta buona alla guerra. Il quale esercito attivo era diviso in due parti, guardia e linea; quella componendosi di due legioni, una di fanti, altra di cavalieri (seimila soldati); questa di quattro legioni, una di cavalieri, tre di fanti (ventinovemila combattenti): comandavano le legioni della guardia i generali Pignatelli, Strongoli e Livron; quelle della linea i generali Carascosa, d’Ambrosio, Lecchi e Rossetti; il generale Millet era capo dello stato-maggiore, dirigeva il genio il generale Colletta, l’artiglieria il generale Pedrinelli; teneva il comando supremo il re. L’artiglieria, i zappatori, la cavalleria, armi che richieggono studio d’arte e lungo uso di guerra, erano meno buone della infanteria. De’ fanti tre reggimenti venivano dagli uomini di carceri e di galee; dieci di venticinque generali, tredici di ventisette colonnelli erano Francesi, e le recenti discordie tra stranieri e nazionali avevano lasciato germi scambievoli d’odio e sospetto. La disciplina era debole e varia, le armi scarse, le amministrazioni poco fedeli, nulla il tesoro, aspettando lo fornissero i tributi de’ paesi vinti.
A’ 22 di marzo mossero quelle schiere formate, come ho detto, in due esereiti , de’ quali l’uno (due legioni della guardia) per la via di Roma, e l’altro (quattro legioni) per le Marche. Si chiese al pontefice amichevole passaggio, e lo negò; si ripeterono, e pur vanamente, le inchieste; procedeva intanto l’esercito per le vie di Frascati, Albano, Tivoli e Foligno. Ed allora il papa, o che temesse d’insidie, o che volesse simularne il pericolo, nominò una reggenza al governo, e precipitosamente, come di fuga, passò a Firenze, indi a Genova; molti cardinali lo seguirono, dipoi Carlo IV re di Spagna, ed altri personaggi di fama. Le quali sollecitudini, benchè derivassero da zelo di parte o ambizione, si dicevano da necessità o prudenza. Accresceva pietà il veder Roma deserta, e i sacerdoti fuggiaschi nella settimana santa, dopo cominciate ed interrotte le cerimonie divine. Ma l’esercito napoletano, non toccando la città, rispettando il governo pontificio nelle terre che attraversava, pagando al giusto i viveri, serbò disciplina severissima.
LXXVIII. Il re Gioacchino in quel mezzo, recatosi ad Ancona per meglio provvedere alla guerra, faceva ripetere da’ suoi ministri al congresso, ch’egli, fedele a’ trattati, confermava i patti dell’alleanza con l’Austria; ma che fra tanti moti e nemicizie credeva necessario alla sicurezza dei suoi stati avanzare con l’esercito verso il Po. Vano infingimento, perocchè agli antichi sospetti erano sopraggiunti gli svelati maneggi co’ ribelli della Lombardia, e l’ajutata fuga di Bonaparte, e la gioja per ciò dissimulata invano nella reggia, e gli arditi discorsi, e l’esercito accresciuto e mosso. E quindi l’imperatore d’Austria, ordinate alla guerra e spedite in Italia nuove schiere, ne foce capo il generale Frimont, dal cui cenno dipendevano i generali Bianchi, Mohr, Neipperg e Wied: quarantottomila fanti, settemila soldati di cavalleria e del treno con sessantaquattro cannoni. Di tutta quell’oste il maggior nerbo accampava dietro al Po, e la minor parte sull’altra sponda, avanzando i reggimenti a scaloni sino a Cesena; piccola brigata guidava in Toscana il generale Nugent; quattro ponti sul Po (a Piacenza, Borgoforte, Occhiobello e Lagoscuro) erano per i Tedeschi muniti e guardati; ogni altra parte del fiume custodita ed invalicabile; guernivano di poche schiere la valle di Comacchio ed il ponte di Goro. I campi dietro al Po appoggiavano alla fortezza di Pizzighettone, Mantova e Lignago; e questa fronte o cortina aveva innanzi come bastioni le altre due fortezze di Alessandria e Ferrara. Quello esercito stava dunque in fortissime posizioni, che componevano, per natura di opere, possente linea di difesa; o, se le fortune della guerra mutassero, base di operazione contro l’esercito napoletano.
LXXIX. La guerra, oramai certa, fu denunziata il 30 marzo per editti e combattimenti. Un decreto di Gioacchino aggregava le province delle Marche e i distretti di Urbino, Pesaro e Gubbio al suo regno, cosicchè n’era il confine non più il Tronto ma il Foglia; e un editto concitava i soldati alla guerra, dicendo nemici gli Austriaci; motivo a combattere la infedeltà del governo d’Austria; obbietto la indipendenza italiana; stimolo all’esercito la gloria, l’onore, le ricompense, i ricordi; e ajuto a lui tutte le armi d’Italia. Altro editto agl’Italiani numerava le loro sventure, rammentava i beni della indipendenza, prometteva libera costituzione, diceva mossi a combattere ottantamila Napoletani, invitava i forti alle armi, i sapienti ai consigli; eccitava l’odio, la vendetta, le speranze, l’ambizione. Ma in questo invito alla italiana indipendenza appresso al nome francese di Murat era sottoscritto Millet francese.
E mentre i fogli si spandevano per tutta Italia, la legione del generale Carascosa, vanguardia dell’esercito, assaltava Cesena dove stavano duemilacinquecento soldati d’Austria, Cesena, benchè cinta di muri, non può resistere alle artiglierie; e perciò, investita per le porte di Rimini e del fiume, fu dopo breve combattere abbandonata dai difensori che per la porta di Cervia ordinatamente si ritirarono a Forlì, e quindi ad Imola e a Bologna. Giunsero i Napoletani ai 2 di aprile incontro a questa città, che novemila Tedeschi, retti dal generale Bianchi guardavano. La seconda legione napoletana era ad Imola, la terza a Forlì, l’una dall’altra distante di molte miglia; e però se Bianchi, più forte, attaccava quella prima legione, le speranze del combattimento erano per lui; ma sia prudenza o ricevuto comando, egli abbandonò la città, dirigendo tremila dei suoi verso Cento, e guidandone seco altri seimila per la via di Modena. I Napoletani entrarono in Bologna nel giorno istesso, e vi si fermarono per attendere l’arrivo e l’avvicinamento delle altre schiere.
LXXX. A dì 4 procederono, la prima legione verso Modena, la seconda verso Cento, la terza giungeva in Bologna. La prima scontrò il nemico ad Anzola, e combattendo lo spinse dietro la Samogia,. quindi dietro al Panaro, fiume che mette in Po, e si valica su di un ponte detto di Santo-Ambrogio, allora munito d’opere e di cannoni e soldati, distesi per lungo tratto della sponda. Giungevano al fiume i Napoletani schierati a battaglia. Il generale Carascosa per sorprendere l’ala diritta del nemico, o per accrescergli cure e pericoli aveva spedito per vie nascoste un battaglione a Spilimberto, dove le acque per larghissimo ghiaroso letto si guadano; prescrivendo al capo che quando sentisse ardente la battaglia marciasse sollecito sopra il nemico: il generale divisava muovere per la stessa parte il maggior nerbo della sua schiera, e battere la linea nemica dal fianco destro.
Ma il re giunse al campo, ed avido di vittoria sospese quei movimenti obliqui, e avanzò di fronte agli assalti: tre volte attaccato il ponte, tornarono perdenti gli assalitori, il general Pepe con due battaglioni, guadato il fiume, incontrando forze maggiori di assalitore assalito, a fatica resiste; il generale Carascosa che ne osservava il pericolo con altra schiera giunse all’opposto lito, ed anch’egli incalzato da nemico più forte non trovò scampo che nel fiume sotto un arco del ponte; il general de Gennaro, correndo al soccorso di entrambo, sostenne appena gli assalti, non vinse; il battaglione mandato a Spilimberto, sentito il romore della battaglia, obbediente al ricevuto comando, marciò sopra al nemico, e fu scemato di molti e molti, morti o prigioni. Tutta la linea combatteva, la fortuna mostravasi contraria ai Napoletani; espugnare il ponte era necessità.
Il re ne diede il carico al general Filangieri, e gli affidò fanti, cavalli, artiglierie che il generale ordinava a colonne, mentre molti cannoni battendo le sbarre del ponte le scomponevano. E visto aperto un varco, comandando che la preparata colonna di cavalleria passasse il ponte, egli il primo seguito da ventiquattro soldati a cavallo prorompe su la sponda nemica da molte schiere difesa, ed inatteso giungendo, disordinandole, vincendole procede. Ma la colonna che dovea secondarlo non muove; perocchè il generale Fontaine che la guida, o per timidezza o per invidia d’onore come francese, non obbedisce al ricevuto comando, I Tedeschi osservando il piccolo numero degli assalitori tirano sopra quelli, pochi ne cadono, retrocedono alcuni, otto soli col generale, certi del vicino soccorso, valorosamente combattono. Alfine non mai ajutati, e colpiti da mille offese, cadono tutti e nove, otto estinti, e ’l Filangieri, come estinto, gravemente ferito.
Accorse il re valicando per il ponte con quanti aveva fanti e cavalli; ed allora il nemico già menomato per morti, e scorato dall’impetuoso come che infelice assalto di piccol numero di cavalieri, sonando a raccolta, imprese a ritirarsi; i battaglioni Napoletani restati lungo tempo a difesa su la sponda del fiume, e ‘l generale Carascosa con altri pochi, ritornati con più vigore ad offendere, uccisero al nemico molti uomini, molti presero; impedirono al generale tedesco Stefanini, già ferito, di unirsi co’ suoi battaglioni al grosso dell’esercito, e ‘l prendevano se avessero avuti cavalli meno stanchi o più giorno a combattere. I Tedeschi, fuggendo, traversarono Modena; i Napoletani vi entrarono e ristettero. In quella battaglia lenta, male ordinata, il nemico perdè mille soldati morti o feriti o prigioni; noi settecento: reggeva i Tedeschi il general Bianchi; i Napoletani, il re. Del generale Filangieri il dubbio di morte ed il non più combattere in quella guerra furono all’esercito napoletano cordoglio e danno.
LXXXI. Nello stesso giorno e ne’ due seguenti, la seconda legione napoletana prese Ferrara, mille Tedeschi che presidiavano la città ripararono nella cittadella; la terza guernì Cento e San Giovanni; la prima occupò senza contrasto Reggio, Carpi e tutto il paese tra il Panaro e la Secchia. A’ di 7, appena chiaro il giorno, la legione seconda investì il ponte di Occhiobello, forte per munimenti e soldati; riuscì vano l’assalto, nè dal combattere di un giorno derivò benefizio a’ Napoletani fuorchè spingere il nemico nella testadiponte. Al dì vegnente fu visto che bisognavano per espugnarla le artiglierie di maggior calibro, non bastando quelle di campo; ma l’indole impetuosa del re ed il bisogno di sollecite vittorie non sofferendo ritardi, e sperando che il nemico mal difendesse quel posto, sei volte la legione assaltò, ed altrettante respinta, perdè non pochi soldati, molti uffiziali furon feriti, il re sempre esposto a’ pericoli; e la fama andò per la Italia divolgando ed amplificando, col nessuno successo, i danni e i rischi di que’ due giorni. La legione accampò dove aveva combattuto, aspettando le più grosse artiglierie, il re tornò a Bologna per gravi cure di guerra e di governo.
LXXXII. Ivi alfin seppe i casi delle due legioni della Guardia mandate in Toscana sotto i generali Pignatelli-Strongoli e Livron, pari di grado, pari di autorità, senza che l’uno avesse impero su l’altro, tal che operarono per accordi non per comando, bizzarra e nuova composizione di esercito. Giunsero quelle schiere (seimila tra fanti e cavalieri) nei dì 7 ed 8 di aprile in Firenze, avendo per fallato cammino perduto un giorno, ritardo grave nelle sollecitudini di quella guerra. Dovevano traversare la Toscana, e con la presenza e i discorsi sommoverla a pro nostro, impegnare le sue milizie ad unirsi a noi per la causa d’Italia, combattere e vincere pochi Tedeschi retti dal general Nugent, e così accresciute di grido e di soldati recarsi per Pistoja e Modena. All’entrare in Firenze de’ primi squadroni napoletani, il gran duca Ferdinando III si riparò a Pisa, ed il generale Nugent a Pistoia con tremila soldati, de’ quali mille e più Toscani, che non di proprio grado ma per obbedienza seguivano i Tedeschi. Frattanto a Livorno erano apparecchiate per ultimo scampo le navi, non sperando il general Nugent di resistere a schiere due volte più forti.
I Napoletani, perduto in Firenze un altro giorno, e mossi il dì 9 verso Pistoja, affrontarono a Campi piccola mano di Tedeschi e la fugarono; numero maggiore ne stava a Prato, che dopo breve resistenza ordinatamente si ritirò: i Napoletani diedero due giorni al piccolo cammino di dieci miglia toscane. La maltina del dì 11 le legioni avanzavano sopra Pistoja. Pistoja è delle antiche città d’Italia cinte di mura, ma. per molti originarii difetti e per lo abbandono che deriva da lunga pace, inabile a resistere; i Tedeschi vi stavano a ricovero non a difesa, presti ad abbandonar la città quando le vedette avvisassero l’appressamento de’ Napoletani. Ma questi, dopo sei miglia di cammino, inopinatamente si arrestarono per aspettare le mosse del nemico e i rapporti delle genti mandate a scoperta. E mentre i Tedeschi non muovono, avendo a felicità quel loro insperato riposo, voci vaghe e bugiarde dicevano che si affaticassero a novelle fortificazioni; e che, lasciato in città bastevole presidio e buona riserva in Pescia, marciassero con due squadre numerose e gagliarde alle spalle de’ nostri, per Poggio a Cajano e Fucecchio. Onde i due generali, creduli a quelle nuove, levato il campo da Prato, si raccolsero a Firenze. Narrerò a suo luogo i loro fatti nel resto della guerra.
LXXXIII. Tali cose in Bologna seppe Gioacchino, e vide che al maggior uopo gli mancava la guardia, riserva dell’esercito. Pochi giorni avanti, quando stava sul Po assaltando Occhiobello, avea ricevuto un foglio di lord Bentinck, scritto da Torino il 5 aprile, nel quale l’altiero Inglese diceva: «Che per i patti della confederazione europea e per la guerra mossa dal re all’Austria, senza motivo, senza cartello, egli, tenendo rotto l’armistizio tra Napoli e la Inghilterra, con tutte le sue forze di terra e di mare ajuterebbe l’Austria.» Minacce terribili a Gioacchino, pensando allo stato interno del regno ed agli apparecchi ostili del re di Sicilia. Le speranze ne’ rivolgimenti d’Iitalia erano anch’esse svanite, perocchè gli editti e i discorsi del re non altro avean prodotto che voti, applausi, rime pubblicate, orazioni al popolo, ma non armi e non opere; ossia motti per lo avvenire, cimenti di polizia, nessuno di guerra. I dodici e i quattro reggimenti promessi, erano per vanto, non veri; sì aprì registro di volontarii e restò quasi vuoto; i tenuti in prigione da’ Tedeschi per colpe o sospetti di stato, fatti liberi da noi, tornavano quieti alle case, ammaestrati non irritati dal carcere; la fidanza che le milizie italiane si unissero alle nostre era affatto perduta, da che un reggimento modenese afforzava i Tedeschi di Bianchi, e due di Toscana i Tedeschi di Nugent; nè quelle alleanze, nè la nemicizia per i Napoletani erano volontarie, ma le sforzava condizione de’ tempi e calcolata misura de’ pericoli e de’ successi: consigliatrici benevole di vivere modesto e riposato, ma contrarie alle imprese ed a’ rivolgimenti. Perciò i tumulti italiani del 1814, che per lo passato avevano servito a precipitare i consigli di Gioacchino, nel presente operavano scandalo e danno comune. Sì che meno infelici sarebbero le nostre genti, se avessero il cuore libero come il labbro, o servo il labbro, ed il cuore.
Considerazioni sì gravi ed inattese indussero il re a radunare in consiglio i suoi ministri ed i primi de’ generali: essendo antico fallo nelle avversità di fortuna dimandare consiglio a’ minori; ossia attenuare in questi le persuasioni e l’obbedienza, quando si vorrebbero e maggiori e più cieca; ed eccitare in parecchi, per la inevitabile varietà delle sentenze, il desiderio quasi direi di alcun danno, per poi menar vanto del proprio ingegno a biasimo de’ contradditori. Espose il re al consiglio i primi disegni, rammentò le prime venture, e dipoi la mancata spedizione della Toscana, la tregua rotta dall’Inghilterra, e le tradite promesse de’ popoli e partigiani d’Italia; proseguì discorrendo il numero e le posizioni del proprio esercito, ciò che sapeva de’ Tedeschi, gli apparecchi ostili del re di Sicilia, ed i moti interni del regno; dimandò libero consiglio: e i consiglieri osservando l’esercito spicciolato tra Reggio, Carpi e Ravenna (cento miglia italiane), senza seconda linea, senza riserva, di modo che un impeto ed una fortuna potea decidere della guerra, e vedendo le forze e le posizioni nemiche assai più potenti delle proprie, deliberarono di tenere i luoghi attualmente occupati, solo per aver tempo da mandare indietro gli ospedali e i bagagli; e che, non deposta la prima speranza, si cercassero altri campi e terreno più adatto a combattere schiere maggiori.
Allo sciogliere dell’adunanza il re ordinò: che le tre legioni fortificandosi ne’ campi, ristessero dall’assaltare il nemico, o, assalite, il trattenessero volteggiando, non combattendo; che fosse di Toscana richiamata la inoperosa guardia per le vie più brevi di Arezzo e San Sepolcro; si scegliessero nuovi campi dove i monti Apennini, accostando al mare Adriatico, con le ultime pendici toccano il lido; e si raccogliessero in Ancona tutti gl’impedimenti dell’esercito.
LXXXIV. 1 Tedeschi su la riva sinistra del Po crescevano di nuove cchiere spedite con gran celerità dall’Alemagna, sì che i ventiquattro mila combattenti del cominciar della guerra in tre settimane doppiarono; aumentarono i presidii e i provvedimenti di tutte le fortezze transpadane. Venezia si affaticava alle difese; e di tante sollecitudini erano motivo la troppo temuta dall’Austria, come già troppo sperata da Gioacchino, italiana rivoluzione. Quindi maravigliava della nostra lentezza l’esercito tedesco; ma dipoi, sapute le ragioni, assaltò Carpi guernito da tremila Napoletani che il generale Guglielmo Pepe reggeva. Il primo impeto andato a vuoto, i Tedeschi accresciuti di numero e tornati alla città, la espugnarono; fecero prigioni quattrocento de’ nostri, altri cento ne uccisero; perderono de’ suoi quasi altrettanti, ed inseguirono per lungo spazio il general Pepe che disordinatamente si ridusse a Modena. Il campo napoletano di Reggio per la caduta di Carpi stava in pericolo; ma il re facendo muovere sopra Mirandola la legione ch’era in Cento, il nemico, minacciato sul fianco, si arrestò; e le schiere di Reggio unite alle altre di Modena, insieme ritirandosi accamparono dietro al Panaro. La legione terza, abbandonata Mirandola, tornò alle antiche stanze; e il nemico rincorato dal riacquisto di molte terre, attendendo ad ordinarsi a guerra offensiva, passarono cinque giorni senza combattere.
Ma il 15 di aprile un reggimento napoletano e piccolo squadrone di cavalleria, accampati a Spilimperto con mala guardia, furono attaccati così all’impensata che mancando tempo al consiglio di resistere o trarsi addietro, fuggendo e lasciando pochi prigioni, ripararono confusamente dietro alla prima legione a Sant’Ambrogio. Col cadere di Spilimperto venendo in dominio del nemico le due sponde del Panaro, non più quel fiume era difesa per l’esercito napoletano; e frattanto finiti i movimenti ordinati per il consiglio di Bologna, vuotati gli ospedali e i magazzini, e indietro apparecchiati viveri e campi, il re prescrisse che la prima legione accampasse dietro al Reno, la seconda marciasse per Budrio e Lugo sopra Ravenna, la terza per Cotignola sopra Forlì. E d’altra parte i Tedeschi, baldanzosi per i facili successi del mattino, assaltarono nel mezzo giorno la prima legione sul Reno. Di questa facendo parte i soldati fugati a Spilimperto, dimandarono tumultuosamente di combattere; e ’l general Carascosa, viepiù concitando il generoso rossore, gli mosse contro il nemico, e lo vinsero. Ma quello indi a poco venne più forte, sì che metà delle legione schierò a battaglia tra ’l nemico ed il fiume, e metà come in riserva nell’altra sponda. Tre volte i fanti Tedeschi assaltarono, tre volte respinti, una quarta più impetuosamente i cavalli ungheresi, e furono ancor essi trattenuti e fugati. Dopo tre ore di combattimento, i Napoletani mantennero il campo, i Tedeschi se ne scostarono di alcune miglia: cinquanta de’ primi, duecento e più de’ secondi vi furono morti. La notte il re andò ad Imola; e tutto l’esercito, abbandonata Bologna, marciò in ritirata, senza che il nimico disturbasse il cammino.
LXXXV. Il re fermatosi un giorno ad Imola, intese che l’oste intera tedesca destinata alla guerra offensiva contro noi, e se felice, alla conquista del regno, componevasi di quarantaseimila soldati in due eserciti, l’un de quali trentamila uomini) guidava il general Bianchi per la via di Firenze, l’altro (sedicimila) sotto al comando del general Neipperg seguiva il nostro cammino per la strada Emilia, e che reggitore supremo di quella guerra era non più Frimont ma Bianchi. Questi avvisi bastavano a palesare la mente del nemico; il quale, credendo che Gioacchino ritirasse l’esercito e disperato cercasse non più combattimenti ma salvezza, disegnava di ritardarlo con le schiere di Neipperg, precederlo sul Tronto con quelle di Bianchi, stringerlo nel mezzo, ed averlo prigione o romperlo combattendo.
Ma dall’opposta parte il re si rallegrò, vedendo separati i due eserciti nemici dalla catena degli Apennini, e sè poco men forte di Bianchi, assai più forte di Neipperg, e quei due raggirarsi fra linee esteriori, stando nel mezzo l’esercito napoletano intero e libero di affrontare or l’uno or l’altro. Ma per farsi maggior profitto di quegli errori del nemico, bisognava combattere i due eserciti quando erano tra loro a maggior distanza; e venire a giornata prima con Bianchi che con Neipperg. Le quali condizioni si avveravano a’ dintorni di Macerata, allora Bianchi trovandosi allo scender de’ monti verso Tolentino, Neipperg alle opposte pianure del Cesano, e noi nelle forti posizioni del mezzo, con Ancona nostra sul fianco. Si trascuravano i monti, gagliardi alle difese, di Colfiorito e Camerino, perchè il disegno di quella guerra consisteva non già nel trattenere il nemico, ma vincerlo, essendo l’indugio contrario a noi; e perchè, se quei monti erano presi da noi, tornava intero l’esercito tedesco, e rimaneva lontana ed inabile a soccorrerci Ancona.
Era dunque in Macerata il fine della guerra; ma per giungervi facean d’uopo a’ Napoletani venti giorni di cammino e di travagli. Il re tenne chiusi quei pensieri; fuorchè (comandato prima il segreto) al general del genio; del quale abbisognava per riconoscere i campi opportuni al combattere, ed il terreno da percorrere; condizioni necessarie a governare il cammino dell’esercito, così da farlo giugnere a Macerata, quando Bianchi appena era in Tolentino, ed appena Neipperg al Cesano; chè il più tardi come il più presto distruggeva la pianezza de’ suoi disegni. Volevasi in quelle mosse geometrica misura, e tal si tenne di modo che la ritirata dal Po, oggi oscura o schernita, si citerebbe ad esempio di strategia se fosse stata fortunata quanto saggia.
LXXXVI. Marciò l’esercito da Imola a Faenza, indi a Forlì, indi a Cesena, senza fatti di guerra, perchè Neipperg osservava quei movimenti e gli seguiva in distanza. Della guardia sapevasi che viaggiava verso Foligno, dappoichè i suoi generali sempre più creduli alle false voci ed alle apparenze di guerra, che il general Nugent scortamente simulava, abbandonarono Firenze; e ’l precipitoso partire fu cagione che lettere del re ed un uffiziale della sua casa che le recava cadessero in mano al nemico. Ritornavano quelle due legioni per Arezzo e Perugia, a gran giornate, senza l’onor di alcun fatto d’arme, o di fortuna o di sventure, e dell’onta de’ capi vergognose. Per attenderle, e per dare al general Bianchi tempo convenevole al suo lungo cammino, il re fermò l’esercito dietro al Ronco, accampando l’avanguardo a Forlimpopoli, il centro tra Bertinoro ed il Savio, la riserva in Cesena e Cesenatico.
Così per due giorni. Al mattino del terzo, Neipperg smascherò dodici cannoni messi in batteria su la sponda del Ronco, e fece guadare il fiume da due battaglioni di fanti ed uno squadrone di cavalleria; che tosto assalito da schiere maggiori, lasciando sulla nostra sponda quaranta morti o feriti, trenta prigioni, si ritirarono. Poi a notte bruna, o in ora tarda, ed a poca distanza del campo napoletano, guadavano lentamente sette battaglioni tedeschi e due squadroni di cavalli; il primo battaglione che giunse al lido si ordinò in quadrato, gli altri sei lo seguivano: i cavalieri arrivando spiegavansi a battaglia. Una pattuglia del campo gli scoprì; ed allora il comandante de’ Napoletani, maggiore Malchevski, polacco a’ nostri stipendii, animoso ed esperto alla guerra, fece disegno d’ingannare nelle tenebre il nemico venuto ad ingannarlo; condusse un de’ suoi battaglioni chetamente sul fianco diretto de’ Tedeschi, e lo schierò a martello nel fiume; con un secondo battaglione e trecento cavalli, e grida, spari e batter d’armi gli assaltò nella fronte trovandoli in parte ordinati e parte in cammino. Eglino benchè sorpresi combattevano; ma non vedendo per la oscurità nè la nostra linea nè la propria, ed avendo perduta la forma e la idea delle ordinanze, sentivano il combattimento così di fronte come alle spalle e da’ fianchi, e parevano colpi del nemico i colpi proprii. Si ruppero infine, e disordinatamente rivalicarono il fiume; ma poichè combattendo e perdendo eransi arrestati, s’imbatterono sotto la linea del battaglione napoletano messo ad agguato nell’acqua; al quale, creduto amico, confidentemente avvicinandosi e dando voce di riconoscimento, scoperti tedeschi, ebbero in risposta più offese, più morti, più danni. Cinquecento morirono, e appena cinquanta dalla nostra parte; erano quattromila i perdenti, mille e quattrocento i vincitori: del maraviglioso successo cagioni la notte, e l’ardita pruova del Malchevski.
Il re avvisato di quello ardire, nuovo alla prudenza di Neipperg, immaginando che necessità lo spingesse a combattere, sperò battaglia per il dì vegnente. Egli non poteva cercare il nemico ne’ suoi campi, perocchè quello ritirandosi, lo avrebbe menato lontano dalla frontiera del regno, e dato tempo ed agevolezza alle opere di Bianchi, degl’Inglesi e del re di Sicilia, ma desiderava di essere attaccato dal Neipperg, confidando, mercè il maggior numero di combattenti e la maggior arte, di vincerlo. Perciò nella notte stessa levò il campo della sponda del Ronco, sguarnì Forlimpopoli, retrocedè e sebbene ordinato a battaglia, parte delle sue schiere mostrò, parte nascose. Dalle quali apparenze non adescato il Tedesco, fece passare quietamente l’intero giorno della sperata guerra. Al dechinare del sole il re mandò a Neipperg un suo uffiziale, che, sotto specie di chieder pace o tregua, espiasse ne campi la cagione delle ardite mosse della notte e del troppo senno del giorno. L’ uffiziale subito accolto e trattenuto negli alloggiamenti del generale tedesco, nulla scoprì e recò a Gioacchino risposte cortesi ma contrarie agli accordi.
LXXXVII. L’esercito napoletano, già impoverita Cesena di vettovaglie, passò a Rimini. Gli ordini furono mutati: la legione prima andò in retroguardia, la terza al centro, però che il capo di questa, general Lecchi, si mostrava scorato, e, come avviene, trasfondeva ne’ soggetti il mal concepito terrore; era il Lecchi bresciano, chiaro nelle guerre d’Italia e di Spagna, ma col mutar di età e di fortuna mutò di animo. La retroguardia dovea sola trattenere tutto l’esercito del Neipperg quando il resto delle schiere napoletane si affronterebbe con Bianchi; e perciò abbisognavano squadre obbedienti a buon reggitore. Restammo a Rimini due giorni; nel qual tempo il general Napoletani lasciato a Cesenatico con mille e ottocento soldati tra fanti e cavalieri, sorpreso da forze minori e cacciato dagli alloggiamenti, riordinò i fuggitivi a distanza del nemico; e, ritornando agli assalti, ripigliò le perdute posizioni, con perdita di non pochi morti o feriti e trecento prigioni. Il generale senz’abito, ma che aveva del suo grado le armi e ’l cappello, incontratosi nelle anguste vie del villaggio ad un capitano di cavalleria ungherese, l’un l’altro, scoperti appena, s’intimarono di arrendersi; passarono dalle voci al combattere: e il generale a piede uccise il nemico a cavallo. Le sue schiere nella notte sloggiarono; e ritirandosi dietro al Rubicone, accamparono presso Rimini.
Tutto l’esercito di Napoli, marciando o arrestandosi, come esigevano le strettezze del vivere o l’avvicinarsi del general Bianchi, passò da Rimini a Pesaro, indi a Fano, a Sinigaglia, ed il 29 aprile ad Ancona: il re, il 30 andò a Macerata dov’erano arrivate il giorno innanzi le due legioni della guardia, le quali da lunge per le sue fogge scoprendolo, si posero a mostra, e con voci festive Lo accolsero; sperando, lui capo, riscattare le vergogne de’ non proprii falli in Toscana. Lo atteso in sin da Imola giorno di Macerata essendo giunto, era vicina la battaglia; ma prima di rappresentarla, uopo è che io descriva i campi, e rassegni le schiere combattenti, e dica delle due parti le ragionevoli speranze e i timori.
LXXXVIII. L’esercito del general Bianchi era così diviso: sedicimila soldati accampavano in Camerino e Tolentino; quattromila correvano Matelica, Fabriano e tutto il paese che dagli Apennini scende a Monte-Milone; altri cinquemila in tre squadre, sotto il comando del general Nugent, mostravansi a Rieti, a Ceperano ed a Terracina, lungo la frontiera del regno, per imprese non di guerra ma civili, sperando nella incostanza dei popoli e nella debolezza de’ governi nuovi.
Il generale Neipperg con tredicimila uomini guardava il corso del Metauro, occupava Pergola poderosamente, correva la pendice de monti, spingeva i suoi posti sino al Cesano. I resti del Bianchi e del Neipperg, mossi dal Po, stavano per le comunicazioni 0 agli ospedali.
Quegli eserciti alemanni avevano basi divergenti: i due quartieri-generali a Tolentino ed a Fano distavano fra quattro giorni di faticoso cammino; i concerti si praticavano per Sasso-Ferrato, sopra strade alpestri; punto obbiettivo di Bianchi era Macerata, di Neipperg Iesi: speranza comune chiudere nel mezzo l’esercito napoletano, ed averlo prigione o romperlo. La disciplina in tutte quelle schiere ammirabile, l’obbedienza cieca, il sentimento ancora incerto ne’ capi, ma certo di vittoria ne’ minori.
LXXXIX. L’esercito napoletano campeggiava liberamente tra ’l Cesano ed il Chienti: la prima legione tratteneva Neipperg; altre quattro erano a Macerata; aveva Ancona pochi presidii; tutta l’oste era forte di ventiquattromila soldati. La disciplina debole, necessario effetto de’ passati disordini e del comandar molle del re; l’animo abbattuto, non essendo bastato a sollevarlo l’arringa scritta del dì 29, nella quale il re diceva che la desiderata battaglia era vicina; che insino allora le mosse dell’esercito, benchè apparissero di ritirata, erano state a disegno; che il nemico più forte di numero sul Po era menomato camminando, così che il vincerlo era certo e facile. Gran parte rivelava de’ proponimenti e delle speranze, ma senza frutto perchè non creduto.
Incontro alle partite di Nugent stavano il generale Montigny con tremila soldati negli Abruzzi, ed i generali Manhes e Pignatelli-Cerchiara con la quarta legione, di cinquemila uomini, nel resto della frontiera: le fortezze del regno erano, sebben debolmente, presidiate; le milizie civili ordinate; le intenzioni del popolo non ben salde, ma, poichè incerte, prudenti. Del re e de’ primi dell’esercito non erano gli animi abbattuti, nè temerarie le speranze: il re disegnava con quattro legioni (sedicimila soldati) affrontare Bianchi e romperlo; dietro alle vinte schiere spingere due legioni; unire le altre due a quella del Carascosa, attaccare Neipperg e disfarlo; avviluppare le colonne vaganti nella pendice degli Apennini; e dagli eventi prendere consiglio per il resto della guerra: nel primo combattimento con Bianchi egli era di egual forza, in tutti gli altri maggiore. Quale oggi intorno a Macerata, tali un dì furono le ordinanze dell’esercito austriaco e del piemontese, rotti in Millesimo; e de’ due eserciti di Vurmser disfatti intorno a Mantova; e de’ quattro, sì famosi nella storia, contrastati e vinti dal solo esercito del Gran Federico in Boemia. Ma diversi dai nostri erano i fatti.
XC. Passò il 1°. di maggio in riconoscimento e provvidenze. A’ 2, le legioni d’Ambrosio e Livron mossero da Macerata verso il nemico; la legione Pignatelli-Strongoli restò di riserva in città; la legione Lecchi vi arrivava da Filottrano; Carascosa fronteggiava Neipperg sul Cesano. Alcuni Tedeschi di Bianchi allo sbocco delle nostre legioni si ripararono da’ dintorni di Macerata nei campi di Monte-Milone, tra ’l Potenza e ‘l Chienti; e di là furono, dopo non poca zuffa, discacciati. Ma, ordinati a scaloni, retrocedendo ingrossavano; sì che i Napoletani, avanzando, incontravano maggior pericolo e fatica. Uno de’ nostri reggimenti, il terzo-leggero, assalì di fronte una posizione forte, fortemente guernita, e fu respinto; vi accorre il re, incoraggia i soldati, dietro di lui gli riconduce al nemico; e, perditore, si arretra: il generale d’Ambrosio è ferito; il posto non espugnato di fronte, è subito raggirato, e preso. Procederono le schiere napoletane per nuovi felici fatti d’armi sino a vista di Tolentino; ma poichè il giorno mancava, posero il campo dov’era stata la guerra. I Tedeschi, che avevano combattuto validamente nelle prime ore, debolmente nel resto della giornata, perderono seicento uomini, metà morti o feriti, metà prigioni; ebbero i Napoletani cento feriti o morti: le forze combattenti erano eguali, ottomila soldati da ogni parte. Parve augurio felice: andarono corrieri a Napoli per dar quelle nuove amplificandole, ed al generale Carascosa per dirgli di tenersi in punto di attaccar Neipperg. Il qual Neipperg, ignorando per le distanze i fatti di Macerata, nulla operava per ajutare l’esercito compagno.
Fu lunga L’alba del 3, coperta da nebbia densissima che nascondeva i due eserciti. Nella notte nuove schiere tedesche vennero a Tolentino; e per la opposta parte la legion Strongoli giunse al campo, quella di Lecchi restò in Macerata per la speranza di volgerla contro Neipperg, bastando tre legioni, nella mente del re, a vincer Bianchi. Ma, diradata la caligine, fu visto fortissimo il nemico (sedicimila uomini almeno) schierati sopra i colli che fan cortina alla città, poggiando il fianco destro al Chienti, il sinistro ad un monte aspro e difficile, ed avendo innanzi al centro due poggi, quasi sporgenti nelle nostre linee. Le quali, obliquamente ordinate dirimpetto al nemico, appoggiavano anch’esse la sinistra al fiume, la diritta al monte; dodicimila soldati. E frattanto il re, non perduta speranza di vincere il nemico più forte, lasciò in Macerata la terza legione; ed egli primo cominciò l offese.
Comandò che da’ poggi più vicini fosse cacciato il nemico. e la guardia speditamente lo discacciò. Le due ale della nostra linea mossero per meglio ordinarsi col centro, e Bianchi a quelle viste chiamò dall’ala diritta parecchi battaglioni a rinforzare il suo fianco sinistro minacciato e men forte, il quale passaggio fu creduto da Gioacchino principio di ritirata, ma presto conobbe ch’era novella ordinanza minaccevole a noi. Le formazioni de’ Tedeschi erano più a difesa che ad offendere, e le nostre in contrario; ma Gioacchino, indebolita la presunzione del mattino, non osava di affrontar la pugna e per due ore i due eserciti rimasero guardinghi e inoperosi. Alfine mosse il Tedesco ed assaltò quei poggi medesimi debolmente difesi poco innanzi: l’ala destra secondò vigorosamente gli assalti, la sinistra, perno di forze, restò ferma: poichè il nemico disegnava cambiar fronte, gettar noi nelle valli del Potenza, impadronirsi della grande strada, tagliarci da Macerata, da Ancona, dagli Abruzzi. Ma i nostri battaglioni della guardia combattevano valorosamente, e sì che tre volte si rifecero le colonne degli assalitori, tre volte de’ nostri. Guerreggiavano nella sottoposta pianura con prodezza eguale e con fortuna poco varia e vicendevole, ed ivi tra’ molti Napoletani fu ferito il generale Campana, che in quel giorno e nel precedente avea bravamente combattuto. Le condizioni de’ due eserciti erano mutate da che i Tedeschi, deposto il pensiero e ’l bisogno di difendersi, assalivano.
In mezzo al combattimento il re spedì ordine al generale Lecchi in Macerata di far marciare metà della sua legione per la sponda diritta del Chienti onde afforzare il nostro fianco sinistro, minacciare il destro al nemico ed occupar Tolentino; ma Lecchi ritardò il partire, e ’l generale Majo, capo delle schiere che alfine mossero, timido ed inesperto, lento al cammino, con lo sperato soccorso non giungeva. Il generale di Aquino, che dopo la ferita del prode in guerra generale d’Ambrosio guidava la seconda legione, diffidando della impresa, o contumace per indole, disobbediva al comando di avanzare i suoi reggimenti, sino a che minacciato ubbidì; e benchè andasse in terreno montuoso, difficile a’ fanti, impossibile a’ cavalli, formò le sue genti a quadrati, e distaccò spicciolate su la fronte del campo tre compagnie leggere; le quali avanzando fino al piano, non richiamate, nè sostenute, oppresse da’ cavalieri nemici, furono senza contrasto prigioni. Vide il re quelle perdite, e corse con più impeto che senno alla vendetta; mentre ai precedenti disordini, che avea pur visti, era stato paziente e trascurato. Ordinò che la legione di Aquino assaltasse il fortissimo fianco sinistro del nemico; ed Aquino, marciando in quadrati per quei terreni alpestri ed impediti, giunse al piano con le sue genti disordinate e confuse. Lo conobbe il nemico ed andò ad assaltare, lo conobbero le assalite schiere, e trepidarono; il primo quadrato dopo breve contrasto si scompose, e, senza comando di ritirarsi, sparpagliato e ribelle tornò alla collina; un secondo quadrato seguì l’esempio, gli altri due ch’erano a mezza costa furono con ordine richiamati. Tutte quelle schiere sostenute da poderosa batteria di cannoni si ricomposero, il nemico ritornò intero al suo campo, noi perdemmo di morti e feriti pochi uomini, tra’ quali ucciso il duca Caspoli ordinanza del re, adulto appena, bello della persona, animoso in guerra, caro alle squadre. Ma nostro danno maggiore fu l’esempio a’ due eserciti della temenza e contumacia di una legione, tal che il nemico se inseguiva i fuggiaschi avrebbe presa o dispersa l’ala diritta della nostra linea, disfatto il resto, e per arti ed armi finita in quel giorno la guerra. Ma il destino negava ogni gloria a’ Tedeschi e serbava a’ Napoletani altri dolori e vergogne.
Gli Alemanni irresoluti, i nostri discorati, sanguinoso il combattere ma inutile, due mila delle due parti giacenti sul campo morti o moribondi, cadente il giorno, stanchi i soldati, cessarono senza accordo ma per comune bisogno, le offese, e i due capitani ordivano per il dì vegnente nuova guerra, Quando il re, scoperta su le alture di Petriola la mezza legione del general Majo, andandole incontro per disegnare il campo, vide in lontananza due corrieri frettolosi. Gli aspettò, e seppe che gl’inviava, l’uno dagli Abruzzi il general Montigny, l’altro da Napoli il ministro della guerra, portatori di lettere da consegnare nelle sue mani. Monligny riferiva le sventure di Abruzzo, presa Antrodoco da dodicimila Tedeschi, datasi l’Aquila, ceduta a patti la cittadella, sciolte le milizie civili, sommossi i popoli per la parte de’ Borboni, voltato de’ magistrati lo zelo ed il giuramento, e lui con pochi respinto a Popoli. Riferiva il ministro la comparsa del nemico sul Liri, lo sbigottimento de’ popoli, i tumulti di alcuni paesi della Calabria. Alle quali nuove Gioacchino smarrì il senno; e credendo il regno vicino a perdersi, stabilì di accorrere al maggior pericolo, e (con improvvido, ma suo consiglio) ritirar l’esercito nelle proprie terre.
Dispose la ritirata. Il generale Millet scrisse al general Pignatelli di subito ridurre la sua legione a Monte-Olmo, ed indi a poco, riconosciuto l’errore del subito, lo avvertì a voce per altro messo dì non muovere innanzi della notte. Ma volendo il Pignatelli seguire l’ordine scritto e primo, il capo del suo stato-maggiore, un colonnello della guardia, altri uffiziali di grado e di esperienza, lo pregavano a non dicaampare scopertamente, a fronte di nemico più forte e felice; pensasse che la sua legione era il perno del campo, riguardasse le altre star ferme, ed il re colà presso, che richiesto, direbbe quale de’ due comandi fosse il vero. Ma quei consigli, quei prieghi, la ragion militare e la prudenza, nulla poterono; e di chiaro giorno, a tamburi battenti, la fortissima posizione mal difesa allo spuntare del sole, disputata al meriggio, cagione di morte a tanti prodi, fu, al tramontare abbandonata da poi, occupata dal nemico senza guerra. Divennero allora i nostri pericoli gravi ed urgenti: la linea divisa nel centro, ogni ala presa di fianco, la ritirata delle altre legioni non preparata, la prigionia dell’esercito certa e vicina se il nemico andasse celere agli assalti, o lento il re ai rimedii. Ma questi, animato dalla grandezza del caso, spedì molti ordini, comparve in tutti i luoghi, capitano e soldato infaticabile, comandò, eseguì, ed in brevissimo tempo tutte le sue squadre ordinate a scacchiera, combattendo, riconduceva. Egli, ultimo sbarrò di sue mani, con alberi tagliati, l’entrata di una stretta, mentre uno squadrone di cavalleria nemica facea sopra lui e di pochi suoi seguaci fuoco vivissimo. E fu così vicino il pericolo e così visto, che il generale Bianchi punì il capo dello squadrone di non aver preso il re. Era già notte, riposarono i Tedeschi ne’ felici campi della vittoria, andavano i Napoletani i Macerata.
XCI. Superato il più imminente pericolo, disegnati i campi per la notte e le mosse del vegnente giorno, Gioacchino alloggiò in Macerata. E mentre stava pensieroso ed afflitto, un ajutante di campo del generale Aquino in quel punto arrivato, ansio di parlare al re, gli disse ch’egli veniva nunzio della morte o prigionia del suo generale, e del general Medici, non che del disfacimento dell’intiera legione seconda nel combattimento poco innanzi accaduto. Era un nuovo scontro co’ Tedeschi inatteso, e per le posizioni di quelle schiere non credibile, sicchè il re maravigliato dimandava le particolarità del successo; allorchè giunsero i generali Aquino e Medici che fingendo aver per la notte smarrita la diritta via, imbattutisi nel campo nemico avevano perduti molti soldati morti o feriti, più prigioni, disperso il resto. Nè quel racconto era compiuto, che giunsero Pignatelli e Lecchi, e l’uno disse che la sua legione era sbandata, l’altro che il general Majo tornava disordinatamente, avendo abbandonato il prefissogli campo di Petriola, perocchè della intera terza legione era l’animo abbattuto e contrario. Pareva ribalderia concertata, ma era comune indisciplina, palesata nel pericolo, fatta sicura dalle avversità e da’ disordini.
Il re adunò consiglio. Esaminate le particolarità di quei racconti, apparve chiaro che i soldati affaticati e male usati all’obbedienza, sparsi per le campagne e i villaggi, andavano in cerca di vitto, di ricovero e di guadagno; e che i generali, scontenti e stanchi di quella guerra, mentivano il proprio difetto nel guidarli. Era frattanto verissimo che, disertati i campi e confuse le ordinanze, i destini di quella moltitudine stavano in potestà della fortuna. Si sperava col giorno adunare gli sbandati, ricomporli e menarli al Tronto; e per lo abbandono di Petriola si volea nella notte spedire a Mont-Olmo la metà della terza legione; ma il capo di lei, general Lecchi, diffidava che ella obbedisse, e se il re volgeva il pensiero alle legioni seconda o della guardia, i due generali rammentavano di esserne stati abbandonati, e che pochi soldati che a stento adunerebbero nella notte andrieno disuguali e svogliati alla guerra. Allora il re, fastidito di quelle tristizie, comandò che la brigata Caraffa della terza legione subitamente marciasse, e quella (a mentita e scorno de’ detrattori) tacita ed obbediente si partì.
Col giorno, che indi a poco spuntò, palesati della notte i mendaci racconti e i timori, fu visto che la seconda legione non aveva smarrita la strada, non incontrato il nemico; che la guardia era stata spicciolata, confusa, non fuggitiva; che la terza legione si teneva unita, che la cavalleria era rimasta all’assegnato campo, che gli artiglieri e gli zappatori serbavano piena ordinanza; e che infine il nemico, riposato ne’ campi di Tolentino, veniva, formato a colonne, sopra Macerata. In vero del nostro esercito era perduto l’ordine, l’animo, le speranze, e fra tanti esempii di ribalderia impunita, sì vedevano rotti gli ultimi freni della obbedienza. Ma (dicasi la verità tutta intera) la corruzione scendeva da’ capi agl’infimi.
XCII. Tali quali erano quelle schiere si formarono in due colonne, che per la sponda sinistra del Chienti, sopra due strade parallele al fiume, marciar dovessero per Civita e Fermo; mentre la brigata Caraffa anderebbe sull’altra sponda per Mont-Olmo e Santa Giusta. Al general Carascosa erasi scritto il giorno innanzi, fra gl’infortunii di Tolentino, di lasciare un reggimento in presidio della fortezza di Ancona, e col resto della legione accelerare il cammino così che giungesse nella sera del 4 a porto di Civita. Qui l’esercito si unirebbe, e fisserebbonsi gli ordini di ritirata per la frontiera del regno. Cominciò il movimento da Macerata: era il re nella colonna del centro, che, giunta al piano, trovò impedita la strada da ottocento fanti tedeschi, con tre cannoni e seicento cavalli disposti a battaglia, mentre che squadre più numerose assaltavano la città per le vie di Monte-Milone e Tolentino. Il re per disgombrare il cammino fece due volte caricare il nemico dalla cavalleria della guardia, che fu respinta, i Tedeschi di ogn’intorno avanzavano; la brigata Caraffa, che accampata a Mont-Olmo dominava alle spalle del nemico, tenevasi questa invisibile, non desta dal vicino romore di guerra, e come incuriosa de’ successi; il tempo stringeva, era per noi necessità aprire un varco, o ceder l’armi. Il re pose incontro a’ Tedeschi un battaglione del sesto reggimento (fra le indiscipline della terza legione disciplinato), ed alcuni cavalli della guardia, con lui stesso a sostenere le offese del nemico; e dietro quella linea fece sboccare la intera colonna, e l’altra che da Macerata incalzata di fronte appena usciva. Furono morti alcun de’ nostri, e più feriti, tra quali il colonnello Russo prode in guerra: l’esercito fu salvo.
Andavamo sicuri quando fu visto con maraviglia uscir di Mont-Olmo, a guerra finita, il generale Caraffa con la sua brigata di tremila uomini; ed allora il re con fogli e per nunzii gli prescrisse di fermare in Santa Giusta dove troverebbe viveri e campi. Le altre due colonne giunsero a porto di Civita, e s’incontrarono alla legione Carascosa, che ordinatamente veniva di Ancona. In Macerata alloggiò l’esercito di Bianchi. Neipperg, non più trattenuto gli si congiunse per Iesi e Filotrano. Quei due generali tornali sopra una stessa base, mutato obbietto, geometrizzavano nuove linee, e davano, loro mal grado, tempo a noi di ristorare i danni ed afforzarci, se non avessimo avute in noi stessi le cagioni ognora crescenti della ruina. La guardia, che dovea per comando accampare a porto di Civita, scomposta proseguì verso Fermo e si disperse; la seconda e terza legione alloggiarono confusamente e ribellanti; la brigata del general Caraffa, per timidezza di lui, non arrestatasi a Santa Giusta, andò inattesa a Fermo; mancò di viveri e di campo; le mormorazioni, sino allora sommesse di alcuni capi, divennero più forti e più estese. Si voleva in tanta estremità di casi e di pericolo estrema rigidezza d’impero e di pene; ma cento falli vecchi e nuovi, e gli usi, l’animo, il cuore di Gioacchino, sopprimevano i concetti arditi, o ne impedivano l’adempimento.
A’ descritti mali si aggiunse notte, per copiosa pioggia ed aspro gelo, sì cruda, che non pareva di primavera e d’Itatia, ma dell’orrido verno della Svizzera: le diserzioni furono assai; i torrenti, fatti inguadabili, trattennero per alcune ore l’esercito; e l’impedimento fu pretesto a scompigli e fughe maggiori. La cavalleria, gli artiglieri, i zappatori peccarono ancor essi d’indisciplina; la stessi prima legione vacillò, si tenne per sola virtù del capo all’obbedienza. Andavamo per bande a Pescara, dove confidavamo rincorare gli animi dietro i ripari della fortezza; ma i danni furono maggiori per naturale incremento del male, e perchè la facilità a’ soldati di tornare alle proprie case inanimiva te diserzioni.
XCIII. Il re giungendo in Abruzzo chiarì i fatti del general Montigny. Egli che doveva difendere con mille e seicento soldati le fortissime strette di Antrodoco, il dì 1°. maggio, all’avviso che il nemico avanzava, le abbandonò riparandosi all’Aquila. La inattesa fuga del generale ingrandì la comune idea del pericolo e la prudenza inseparabile dei magistrati civili; la qual prudenza, chiamata da lui tradimento al governo di Murat, accrebbe i suoi timori; così che all’avvicinare del nemico abbandonò la città, e solamente piccola non debole cittadella fu preparata all’assedio. Il Tedesco maravigliando credeva che il favore del popolo gli spianasse il cammino, spedì al comandante del forte ambasciate di cedere; e quegli a’ nemici non visti, e certamente privi di mezzi di assedio, perocchè le strade che percorrevano sono impossibili alle artiglierie, diede la cittadella provvista d’uomini, d’armi e di viveri, a solo patto di vita e di alcune ridicole pompe, che sotto il nome di militari onori sono vergogne. Montigny, sul cammino di Popoli informato di quei casi, scrisse al re il foglio del 2 maggio, che al cadere del 3 giunse intempestivo a Tolentino. I Tedeschi entrati negli Abruzzi erano intorno a mille.
Tante sapute viltà, tante vergogne, scossero l’animo inacerbito di Gioacchino, e pose in giudizio Montigny, il maggiore Patrizio comandante del forte. Ma fu tardo il rigore, perciocchè i subiti cambiamenti politici impedirono gli effetti: restò il maggiore impunito, e l’altro, avendo bruttata del suo nome la lista de’ forestieri ch’erano a’ nostri stipendii, si partì dal regno con Pheil, Malchevski, Michel, Dreuse, Palma, Lajaille ed altri prodi de’ quali vorrei celebrare le geste se il tolto stile lo comportasse, ed io, cacciato dal lungo tema, non dovessi sovente trasandare alcuni fatti non importanti alla storia, sebben cari al mio cuore. Ma se a’ disegni basterà la vita, registrerò in altre carte, a maggiore chiarezza e documento de’ miei dieci libri, le particolarità della napoletana milizia di Carlo III a Francesco I; e trarrò, Dio concedente, dalla universale meritata vergogna non pochi nomi degni di buona fama e di gloria; i quali frattanto confusi a’ tristi, creduti rei, sbattuti iv vita, oltraggiati nella memoria, patiscono il supplicio di tempi ed eserciti corrotti. Fo rilorno a’ racconti.
XCIV. Il generale Manhes con la quarta legione (cinquemila soldati) difendeva la frontiera del Liri. Avuta notizia sul finire di aprile che il nemico per la valle del Sacco avanzava verso il regno, condusse a’ 2 maggio le sue schiere a Ceperano, e poichè alcuni sbirri del papa, chiuse le porte, tirarono poche archibugiate contro i nostri, la città fu mal trattata, messe a sacco molte case, e tre più grandi e più belle bruciate: asprezze del Manhes. Quelle squadre divise in due brigate occuparono Veroli e Frosinone: ed a’ 6, sapute le sventure di Tolentino, furono sollecitamente ritratte a Ceperano, e dipoi senza respiro (bruciando il ponte) a Roccasecca, Arce, Isola e San Germano; il corso del Liri e parte del Garigliano, linea difensiva del regno, perduta senza aver visto il nemico, Portella e Fondi abbandonati; Itri era ben guardato dal dodicesimo reggimento. Pochi soldati di Nugent campeggiavano tutta la frontiera dall’Aquila a Fondi; le schiere e di Bianchi e di Neipperg ordinate ad esercito avanzavano contro il Tronto ed il Liri. Gl’Inglesi, operando da nemici, predarono una nostra nave caricata di attrezzi per Gaeta. Poderosa armata con soldati da sbarco stava in Sicilia sul punto di levar l’ancore. Nello interno, la carboneria audacissima, i popoli ribellati, i partigiani del governo timorosi o cauti, nello esterno cadute le speranze di pace, rifiutata ogni offerta, ogni corriere impedito. Il principe di Cariati ambasciatore del re nel congresso, arrivato allora di Vienna, gli riferì lo sdegno de’ re alleati, ed il proponimento di nessuno accordo; lo stesso imperatore de’ Francesi biasimava la sconsigliata guerra, e per lettere la indicava principio e forse cagione alla rovina dell’impero. Queste cose si schierarono alla mente del re, stando egli in Pescara.
XCV. Allora volgendosi alte civili istituzioni, mandò in Napoli per essere pubblicata una costituzione politica, delle fogge comuni. Re, due camere, consiglio di ministri, consiglio di stato; le leggi proposte dal re, esaminate dalle camere; le magistrature indipendenti; le amministrazioni dello stato certe per leggi; le amministrazioni provinciali e comunali rette da magistrature delle province e delle comunità; la stampa libera; le persone, le proprietà sicure; le tante altre libertà e guarentige usate in quelle carte. Il gran difetto era nella elezione de’ deputati comunali, chiamati notabili; un gran pregio nella leva de’ soldati, non potendo farsene alcuna senza il voto del parlamento. La costituzione portava la finta data di Rimini 30 marzo, benchè mandata il 12 maggio, pubblicata il 18, tardo e ridevole sostegno di cadente trono. Quella legge un anno innanzi avrebbe salvato il regno ed il re, perchè le camere impedivano la guerra d’Italia; ma nel tempo in cui fu data, qualunque parlamento avrebbe operato a danno, essendo natura delle adunanze mettersi con la fortuna; ed i pochi (che la storia rammenta in disperati casi) eroici proponimenti si partono da popoli sollevati a tumulto, e non mai dal maturo consiglio de’ sapienti.
XCVI. In quei giorni il commodoro inglese Campbell, con due vascelli e due fregate scorrendo da nemico il golfo di Napoli, spedì ambasciatore alla reggente per dirle che avrebbe tirati a migliaja razzi sulla città se non gli fossero date, a riscatto di guerra, le navi e tutti gli attrezzi di marina ch’erano negli arsenali regii. La reggente chiamò a consiglio i ministri ed alcuni di maggior grido consiglieri di stato e magistrati, espose il caso. Il ministro di polizia denunziava che già sparse nella città le minacce del commodoro e per timore e malizia amplificati i pericoli, a’ primi assalti sarebbe certo, e forse irreparabile un tumulto di popolo; l’intendente pregava pace. Uno de’ consiglieri, generale allora allora venuto dall’esercito, dimostrò la superiorità de’ nostri mezzi di guerra; soggiunse che il Campbell o non avrebbe osato di avvicinarsi, o sarebbe stato offeso a dieci doppii dalle batterie della costa; e che la temeraria dimanda essendo fidata al nostro timore, a noi importava rigettarla. Altri seguivano l’animosa sentenza; ma la reggente disse:
«che sebben vano il pericolo, era vero il timore della città; che bisognava non accrescere il numero de’ nemici, e togliere a Napoli occasione di agitarsi; che Campbell ed il suo rno (se questi approvasse le offese) si avessero in faccia al mondo, dopo la taccia di aver mancato alla giurata tregua, l’altra di abusare dei terrori di un popolo per frodargli navi ed attrezzi, e che solo ed ultimo ricovero contro la ingiustizia potente è la istoria.» Così ella disse; ma nascose il desiderio di patteggiare col commodoro il ritorno in Francia di lei, e della sua famiglia sopra vascello inglese.
Diede carico dell’accordo al principe di Cariati, che seguace nel consiglio dell’avviso più forte, andò a mal grado a trattar pace coll’insolente Inglese; ma buon per noi ch’egli andasse, perocchè al primo incontro rivelò il parere del consiglio, e l’avversario in quei detti riconoscendo il vero, fu ne’ patti cauto e discreto. Fermarono:
Che fossero consegnati al commodoro i legni da guerra napoletani: e tenuto ne’ magazzini regii in deposito ogni attrezzo di marina; che sì degli uni come degli altri si disponesse da’ due governi napoletano ed inglese, finita la guerra d’Italia:
Che la regina con la famiglia, persone e robe di sua scelta, avesse imbarco e sicurezza sopra un vascello di Campbell:
Ch’ella potesse mandar messo o negoziatore in Inghilterra a trattar pace:
Che la guerra tra l’armata inglese e Napoli cessasse alle ratifiche dell’accordo.
Le quali subito date, rassicurarono la città; potè la regina attendere alle estreme cure dello stato.
XCVII. Ella consigliera non gradita di pace, lasciata reggente, fu sollecita per le cose di guerra; provvide all’esercito che combatteva nelle Marche, provide alle fortezze interne, afforzò lo impaurito Montigny de’ numerosi e prodi corazzieri della guardia; afforzò Manhes de’ granatieri; spedì alla frontiera i gendarmi; le poche schiere di deposito, le stesse guardie della reggia. E fra le milizie urbane conversando con assai maggior animo che di donna, ne accresceva lo zelo, ci sedava del popolo i timori e i sospetti facili e frequenti tra guerre di terra e mare, in città popolosa e molle. Stavano nella reggia la sorella Paulina, lo zio cardinal Fesch, e la madre Letizia, a’ quali allo approssimar de’ pericoli la regina apprestava imbarco per Francia; e a’ quattro teneri figlioli di lei per Gaeta, già vinto ed inseguito Gioacchino, rotto e disperso l’esercito, le fortune del regno infime ed irreparabili, caduta ogni speranza, ogni lusinga svanita. E quando (presenti me ed il principe di Cariati) l’afflitta famiglia venne a lei per congedo, ella mesta sì ma serena, gli racconsolava di consigli e di speranze simulate a conforto loro. Partirono, Ella dopo silenzio brevissimo tornò alle faccende di governo; e trattandosi di surrogare a Manhes altro generale di maggior senno e valore, che respingendo i Tedeschi oltre il Liri, lasciasse al re libera ritirata dagli Abruzzi, ella scelse il generale Macdonald napoletano, e ministro in quel tempo della guerra. Ed ecco in quel mezzo presentarsi a lei il duca di Santa Teodora, che assistente alla partenza dei principi, riferendone le particolarità, di tenerezza piangeva; e la regina: « O trattenete il pianto, gli disse, o andate, vi prego, a sfogare il dolore in altro luogo; che il mio stato non abbisogna di pietosi spettacoli.» Sensi ed opere degni del grado e del sangue.
XCVIII. Il Macdonald giunto al comando della quarta legione, mosse contro il nemico; e per piccoli fatti d’armi lo cacciò oltre la Melfa; avvegnachè i Tedeschi in quella guerra, cauti ad assalire, solleciti al ritirarsi, manifestavano di aspettar vittoria meno dalla propria virtù che da’ falli del nostro esercito e dalle scontentezze de popoli. Ed intanto il re proseguiva a ritirarsi per la via di Abruzzo, avendo messe contro il nemico in retroguardia le schiere meglio ordinate della prima legione, accresciute di pochi resti del decimo reggimento, e di un battaglione italiano di nuova leva. Il qual battaglione, quattrocento uomini, fu il solo ajuto che per la indipendenza d’Italia dessero gl’Italiani all’esercito di Napoli: lo comandava il general Negri, nato sul basso Po, presentatosi al re in Ferrara da colonnello del già regno Italico, accolto e fatto generale; prode in guerra, partigiano zelosissimo di libertà, millantatore di seguaci che non aveva. La retroguardia, guidata dal general Carascosa, si arrestò alle rive del Sangro per aspettare l’esito de’ movimenti di Macdonald; ed in quel tempo, assalita, volteggiò abilmente, e sì che uccise molti de’ nemici, altri prese: gli spinse confusamente nella città di Castel di Sangro; e più faceva se per novello comando non avesse dovuto sospendere il combattimento, e ritirarsi. Quelli furono gli ultimi favori della sorte alle bandiere di Napoli.
Il re sperava congiungere le schiere che seco menava dalle Marche alle altre del general Macdonald, riordinarle in Capua, trarre dalle province nuovi armati, e lasciando presidiate Ancona, Pescara, Gaeta e Capua, radunare quindicimila soldati dietro la linea difensiva del Volturno, muoverli, combattere, temporeggiare, e se ai cicli piacesse, ripigliare animo e fortuna. Perciò cautamente ritiravasi, evitando gli scontri, e tenendo le schiere sempre in linea onde giungessero contemporanee per le vie del Garigliano, di San Germano e degli Abruzzi. E difatti a’ dì 16 il reggimento de’ granatieri della guardia accampava in Sessa, la quarta legione in Mignano, la prima a Venafro, le altre squadre spicciolate entravano nella fortezza. Ma in quella notte è assalito il campo di Mignano, dove la quarta legione, mal guardandosi, aveva le ordinanze più di cammino che di battaglia. Di fianco investita da sopra i monti di San Pietro, infine il retroguardo si scompigliò, e disordinatamente ritiravasi. Il generale lo soccorse di un reggimento di cavalleria, che offeso dall’alto, dove i cavalli non giungevano, retrocedè a briglia sciolta, e le schiere accampate in Mignano, al calpestìo crescente e vicino, sbalordite dalla notte, da’ fuggiaschi e dalle passate avversità, travedendo nemici nei compagni, tirarono ciecamente sopra loro. E quegli alle offese rendevano offese non per inganno nè per vendetta, ma perchè, raddoppiato il pericolo, volevano far libera la fuga. Confusione orrenda, irreparabile: la voce de’ capi non intesa, non viste le bandiere, non obbedito il comando. Chi si crede sorpreso e chi tradito, s’intrigano le schiere, ogni ordine si scompone, abbandonano il campo e fuggono. Il reggimento ch’era in retroguardia, incalzato alle spalle dal nemico, sentendo innanzi romor di guerra, camminava sospettoso e guardingo, e però giunto dove già stava il campo, vistolo deserto e con segni di recente guerra e di fuga, si scompose anch’esso e fuggì. Della intera legione (seimila uomini) pochi restarono, e così alla notte del Ronco contrappose la notte di Mignano la fortuna, che ogni parzialità o conforto negava alle armi di Napoli.
Saputa nel mattino del 17 la rotta di Mignano, il general Carascosa che veniva di Abruzzo accelerò il cammino, ma quella rapidità fu cagione di novelle diserzioni. Il re si recò a San Leucio, regia villa presso Caserta, ed ivi attese le rassegne de’ soldati, e i rapporti sullo stato del regno. Intese che cinquemila fanti e duemila cavalieri, gli uni e gli altri sbalorditi e svogliati, erano in Capua; molte artiglierie per abbandono perdute; ogni disciplina sciolta. D’altra parte i Tedeschi, in numero e in fortuna, intorno a Capua; il principe reale don Leopoldo Borbone andar con essi, pubblicando sentenze di giustizia e di modestia; sei province (tre Abruzzi, Molise, Capitanata e Terra di Lavoro) già obbedire a’ Borboni, le altre non contrarie a questi nè dubbiose, ma espettatrici; gl’Inglesi aver doppiate le forze navali nel golfo di Napoli, ed il re di Sicilia starsi a Messina sul punto di passare il Faro con poderose armate di mare e terra. Ne’ popoli, ne’ magistrati, ne’ cortigiani, ne’ ministri, in se’ stesso, le speranze cadute, l’impero dechinante, il ritorno dei Borboni certo e vicino. E perciò deponendo le cure di capitano e di re, pensò alla salvezza sua e della famiglia: sapeva il trattato con Campbell, e di scontentissimo che n’era innanzi ne divenne lieto; credeva che i Borboni e i Tedeschi lo volessero prigioniero, gli uni a vendetta, gli altri per impedire gli ultimi temuti sforzi ne’ Principati e nelle Calabrie, o per togliere a Bonaparte, imperatore in Francia, sperimentato e grande istromento di guerra; temeva inganni e tradimenti nella città e nella reggia. Ed a tanti bisogni e sospetti cautamente provvide.
Delegato il comando dell’esercito al general Carascosa, venne in Napoli privatamente e sul cadere del giorno, ma dal popolo scoperto e salutato come re e come ancora felice. Andò alla reggia negli appartamenti della regina, e giunto a lei, l’abbracciò, e con voce ferma disse: «La fortuna ci ha tradito, tutto è perduto.» «Ma non tutto (ella replicò) se conserveremo l’onore e la costanza.» Prepararono insieme segretamente la partenza; furono ammessi a strettissimo circolo di corte i più fidi e i più cari, e dopo breve discorso congedati. Egli provvide co’ ministri a molte cose di regno, ultime, benefiche, ricordevoli; fu sereno, discreto, confortatore della mestizia de’ circostanti, ed a’ Francesi che partivano ad ai servi che lasciava liberale così come principe che ascende al trono.
XCIX, Fissate le sue sorti, volle dar termine conta pace a’ travagli del già suo regno, ed elesse negoziatori i generali Carascosa e Colletta. Disse al primo, trattassero per lo interesse non più di lui, ma dello stato e dell’esercito, e patteggiassero il mantenimento delle vendite, e dei doni, di tutto ciò che lasciavagli fama di buon re ed affettuosa memoria ne’ Napoletani. Al Colletta che richiedevagli quali cose concederebbe al nemico, rispose: tutto fuorchè l’onore dell’esercito e la quiete de’ popoli; della fortuna contraria io voglio sopra di me tutto il peso. A’ 20 di maggio i negoziatori sopraddetti co’ generali Bianchi e Neipperg, e, per le parti dell’Inghilterra, lord Burghersh, convennero in una piccola casa, tre miglia lontano da Capua, del proprietario Lanza, e di là il trattato che poi si conchiuse prese data e nome di Casalanza. Dopo lunghe, agitate e talora vicine a rompersi conferenze, fermarono i seguenti patti:
Pace fra i due eserciti. La fortezza di Capua cedersi nel dì 21, la città di Napoli co’ suoi castelli nel 23, quindi il resto del regno, ma non comprese le tre fortezze di Gaeta, Pescara ed Ancona; i presidii napoletani che uscivano dai luoghi forti avere gli onori convenuti.
E dipoi il debito pubblico garentito, mantenute le vendite de’ beni dello stato, conservata la nuova nobiltà con l’antica, confermati ne’ gradi, onori e pensioni i militari che, giurata fedeltà a Ferdinando IV, passassero volontarii a suoi stipendii.
Qui finiva il trattato, ma il Tedesco vi aggiunse che il re Ferdinando concedeva perdono ad ogni opera politica de’ passati tempi, comunque fatta a pro de’ nemici , o contro i Borboni; e che, obliate le trascorse vicende, ogni Napoletano aspirar potesse agli offizii civili o militari del regno. Le quali cose i negoziatori napoletani non ricercavano per non trasformare in concessione e favore i titoli della giustizia, e dare sospetto ch’ei credessero colpa ne’ soggetti l’aver servito a governo necessario, riconosciuto, e per diritto pubblico di quei tempi legittimo.
«L’imperatore d’Austria (stava scritto) avvalorava il trattato con la sua formale garanzia.» Il qual nuovo pegno di fede si bramava da’ Napoletani, essendo ancor viva e dolorosa la memoria de’ mancati giuramenti del 99.
C. Nella sera dello stesso giorno, dopo che il re ebbe contezza del trattato, partì sconosciuto verso Pozzuoli; e di là, sopra piccola nave passò ad Ischia, ove rimase un giorno venerato da re; ed il dì 22 sopra legno più grande con poco seguito di cortigiani e di servi, senza pompa, senza lusso, senza le stesse comodità della vita, sì parti per Francia, Ed intanto fatte note in Napoli, le concordie di Casalanza, la città mandò ambasciatori al principe Borbone, ch’era in Teano, precursore dell’allegrezza ed obbedienza publica; il qual atto, benchè segreto, fu a caso rivelato alla regina Murat, che stava ancora nella reggia, reggente del regno. In Capua, all’uscire della prima legione napoletana per dar comode stanze al Tedesco, la plebe non vedendo soldati che alle porte, si alzò a tumulto, ruppe le prigioni, e prorompeva in peggiori disordini se da pochi generali ed uffiziali non fosse stata repressa. La stessa prima legione, sino a quel punto, disciplinata e ubbidiente, fuori appena della fortezza, sorda agl’inviti ed alle minacce de’ capi, per molte vie si disperse.
In Napoli la plebaglia sotto pretesto di allegrezza tumultuava, e sebbene la guardia di sicurezza trattenesse que’ primi moti, chiaro appariva che in breve non basterebbe. Cosicchè la regina pregando per lettere l’ammiraglio inglese a spedire in città qualche schiera a sostegno degli ordini civili, n’ebbe trecento Inglesi, per li quali sbigottirono i tumultuanti, tornò la quiete. Ed ella in quel mezzo imbarcò sopra vascello inglese con alcuni della sua corte; e tre già ministri, Agar, Zurlo, Macdonald, e pochi altri personaggi, che, non confidando nelle promesse di Casalanza, fuggivanono la temuta vendetta de’ Borboni.
Non più re, non reggente, non reggenza, la plebe accresciuta de’ fuggitivi di Capua, che, sperando prede, arrivavano a torme nella città, i prigioni di Napoli tumultuosi, e le porte delle carceri non ancora abbattute ma scosse; la guardia di sicurezza già stanca; gl’Inglesi pochi, i disordini maggiori, e, ciò che accresceva pericolo, vicina la notte. Si era sul punto che la plebaglia prevalesse, quando esortati da messi e lettere della municipalità, giunsero al dechinare del giorno alcuni squadroni austriaci, che uniti alle guardie urbane, girando per la città, e gasligando quegli che avessero di ribelli armi o segni, soppressero i tumulti e le inique speranze. Fu così grande ma necessario il rigore che cento, almeno, di quell’infimo volgo perirono; ed altri mille, feriti, andarono agli ospedali o si nascosero.
In quella notte e nel seguente giorno furono in città luminarie, tripudii, e grida di popolo; e nel porto tutte le navi, lo stesso vascello che albergava la regina, ornalo a festa. A’ 23, com’era prescritto, fecero ingresso le schiere tedesche, le quali con suoni e segni di vittoria seguivano il principe reale don Leopoldo Borbone, che a cavallo, con ricca, numerosa corte, allegro rendeva i popolari saluti. E poichè per corrieri, per telegrafi, per fama, gli avvenimenti di Casalanza e di Napoli furono in quei giorni medesimi divolgati, ed il mutato governo in ogni luogo riconosciuto e festeggiato, tutte le apparenze scomparvero del regno di Gioacchino, nomi, immagini, insegne; solamente la regina prigioniera sul vascello stava ancora nel porto, spettacolo e spettatrice delle sue miserie.