Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VII/Capo III
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CAPO TERZO.
Il re parte per la guerra di Russia, e ne torna. Tenta l’unione d’Italia. Parte per nuova guerra in Germania, e tornatone provvede al regno. Anni 1812 e 1813.
XLI. Era il dì primo dell’anno 1812, e si facevano in corte le usate riverenze al re ed alla regina, seduti al trono. Primi ad essere introdotti erano i ministri de’ re stranieri, e primo de’ primi esser doveva quello di Francia, se avesse avuto titolo di ambasciatore qual convenivasi a re della stessa casa; ma Bonaparte già tenendo a fastidio Gioacchino, e volendo mostrare al mondo che nol riguardava congiunto, avea spedito in Napoli il signor Durant col titolo di plenipotenziario, e perciò il ministro di Russia Dolgorouky voleva precederlo nella cerimonia. Era il Russo grande di persona, fiero di aspetto, l’altro piccolo e sparuto, l’età in entrambo sul primo confine della vecchiezza. Inoltraronsi nella stanza del trono contemporanei; in riga, frettolosi, Dolgorouky e Durant, ma quegli per più disteso passo già precorreva, quando questi, presogli il braccio, il trattenne, e allora il Russo con occhio ed impeto barbaro pose il pugno su l’elsa della spada.
I principi mirarono la sconvenevole briga, ed il re si mosse incontro dicendo ad entrambo che lodava lo zelo di giunger primiero ad offrirgli omaggio, e si parlò che non diede a nessun dei due argomento di preferenza. Succedendo intanto altri ministri e cortigiani, quei primi partirono: finì la contesa per quel giorno. Perocchè al vegnente, scambiati i cartelli, duellarono i due ministri nel tempio di Serapide in Pozzuolo, ed a poca distanza il maresciallo del palazzo Excelmans col segretario di ambasciata russa Benkendorff, quando sopraggiunsero le vigilatrici autorità di polizia che interruppero i cominciati combattimenti, e pregarono i duellanti, per lo impero delle leggi, a ritirarsi; il "Dolgorouky era stato leggermente ferito di spada all’orecchio destro. E sebbene in quel tempo covassero odii secreti i due imperatori di Russia e di Francia, pure a vicenda, simulando modestia e dichiarando privata la contesa, rivocarono i due ministri.
XLII. In quell’anno istesso 1812 vacillando il potere di Bonaparte, mutarono di Gioacchino le arti di regno, ond’io prima narrerò le cose interno brevemente, per quindi fermare il racconto alle esteriori cagioni di futuri avvenimenti. Egli fondò nuovi collegi e licei, e fatte novelle ordinanze per la istruzion pubblica, innagurò con solenne cerimonia la università degli studii. Introdusse per decreto il sistema metrico che desiderato ed applaudito da’ sapienti; mal sofferto dal popolo, poco tempo visse nelle leggi, nulla negli usi, e si restò all’antica barbarie di pesi e misure infinite, farle tra loro e innumerabili. Fra le cagioni del popolare abborrimento erano le denominazioni greche, non intese dall’universale, e per fino difficile a profferire. Ma se alle nuove misure lasciavano i vecchi nomi, il popolo le accoglieva, i grandi benefizii di quel sistema si ottenevano. La perfezione del quale richiederebbe gli stessi nomi per tutto il mondo, ma sempre il bene in idea è impedimento al fatto. Furono il quell’anno ordinate e quasi compiute molte opere pubbliche, teatri nelle città delle province, strade, ponti, edifizii, prosciugamenti di paduli, acquedotti. Ma fra tutte sono più degne di ricordanza la strada di Posilipo, il campo di Marte, la via che vi mena dalla città, la casa de’ matti e l’osservatorio astronomico.
La strada di Posilipo intende a prolungare l’amenissimo cammino di Mergellina e condurre alle terre, per memoria venerate, di Pozzuoli e a, evitando l’oscuro periglioso calle della Grotta. La strada, benchè breve due miglia e mezzo, costava la spesa di ducati duecentomila, così grandi essendo i lavori d’arte per tagli di monte e traversar di balze e di borri. Fu pagato il danaro, non dallo stato, dal re, in dono alla città. L’opera con sollecitudine procedeva, ed oggi accresce le bellezze del luogo e le maraviglie del passeggiero.
Vasto terreno (moggia novecento, metri quadrati 316,759) sul colle di Capodichino, ove nel 1528 Lantrech per assediar la città attendò gran parte di esercito, fu da Gioacchino destinato a campo militare, chiamato di Marte; e perciò, sbarbicate le viti e gli alberi, demolite le case che il cuoprivano, fu ridotto a pianura. Diciottomila fanti, duemila cavalli, le corrispondenti artiglierie vi si movevano ad esercizio, ma ordinati in due linee.
Dalla città menava al campo strada bellissima e magnifica, che dispiegandosi dolcemente nella pendice orientale del colle, costeggiando un lato di quel campo, univasi alla consolare di Capua; per essa (poichè rimane abolita l’antica, alpestre ed avvallata di Capodichina) giungono i forestieri alla città.
Fu eretta in Aversa nuova casa de’ matti; e sì presto crebbe in successi e di fama che appena dopo un anno faceva le maraviglie dell’osservatore. Dappoichè noi, avvezzi negli andati tempi a pratiche crudeli sopra quei miseri, stupivamo a vederli diligenti e tranquilli negli usi ordinarii della vita, far lavori, recitar canzoni, rappresentar commedie; e per vie così dolci (contrapponendo l’esercizio continuo della ragione alle stravaganze temporaece dello sconvolto intelletto) tornar sani e saggi.
Sul colle di Miradois fu fondato l’osservatorio astronomico, con disegno del barone Zach ed istromenti di Reichembach. Eglino stessi, quando già l’opera procedeva, vennero in Napoli ad esaminarla; e furono da’ dotti e dal re onorati qual convenivasi al merito ed al grado dei due personaggi. L’edifizio al cadere di Murat era vicino al termine; ma, compiuto da’ Borboni, diede a maggior parte di gloria.
XLIII. Non altro di memorabile si fece in quell’anno, perocchè in aprile il re, lasciando reggente la regina, si partì. Egli era stato richiesto dall’imperator Napoleone a comandare nella guerra di Russia la poderosa cavalleria dell’esercito; avvegnachè forza di sdegno comunque grande fra i due congiunti non poteva far trasandare a Bonaparte i militari servigi di Murat, o reprimere in questo il focoso istinto di guerra. Io narrerò ciò che di memorabile egli fece nelle battaglie, essendo parte della storia di Napoli la storia del suo re; e paleserò a suo luogo ciò che ei disse a me stesso di quella guerra, acciò sia documento alle cose di Francia variamente raccontate da due scrittori di fama, e contrastata per fin con le armi.
La guerra era inevitabile. Bonaparte, benchè impegnato ne’ travagli della Spagna, e pervenuto ad altissima potenza, marito, padre, necessitato a stabilire le acquistate fortune, non trasandava le nuove ambizioni di dominio e di gloria sì che avea trasgredito i recenti patti di Tilsit. E l’imperatore Alessandro, già gravato da quei patti, e peggio dalle trasgressioni, spronato dall’Inghilterra, confidando nella Prussia scontenta, e nell’Austria facilmente infedele, potente anch’egli ed amante di gloria, si apprestava al cimento. Che Bonaparte aspirasse ad universale monarchia (sospetto antico più accreditato per quella guerra) fu voce nemica e credenza plebea, dappoichè, se il pensava, non avrebbe rilasciate, dopo prese, la Prussia e tre volte l’Austria; nè fatto un parentado ed un’alleanza che gl’impedivano di estendere i confini dell’impero. E se dopo impresa felice ingrandiva sè ed i suoi, era premio di fatica, guadagno di fortuna, desiderio di maggior potenza, e dirò pure avidità o insazietà ma non mai stultizia di universale impero.
Vista inevitabile la guerra, fu l’imperatore Bonaparte il primo a muoverla per lo avvantaggio che si ha nello assalire, e per contenere la infedeltà dell’Austria, la scontentezza della Prussia. E difatti que’ due potentati, benchè tentati dall’Inghilterra, e contrarii per odio antico alla Francia, temendo la presenza di quelle squadre e di quel duce, fermarono con esso trattati di alleanza. Era immnensa l’oste di Bonaparte, Polacchi, Prussiani, Tedeschi di tutta Germania, Annoveresi, Italiani, Spagnuoli andavano con Francia; e stava dall’opposta parte la Russia, il verno e la barbarie. Si ordinarono i due eserciti: il moscovita accampava su la estrema frontiera occidentale; l’altro gli andava incontro, ed era primo reggitore dell’avanguardia il re di Napoli. Si avvicinarono così che un fiume li separava; sdegno, superbia, sentimento della propria forza spingeva gli uni e gli altri a combattere; non mancava che il segno, e fu dato da Bonaparte su la sponda del Niemen il 22 di giugno del 1812. E però Gioacchino con la potente sua schiera, valicato il fiume, pose primiero il piede su la terra de’ Russi.
Prese indi a poco senza contrasto la città di Vilna; i Russi, bruciando le copiose vettovaglie provvedute con gravi spese, la abbandonarono. I Francesi avanzavano e gli altri lentamente ritiravansi, lasciando regioni per natura deserte, o per opera desertate, visto il disegno de’ Russi di evitare i combattimenti, e però il combattere vieppiù divenendo interesse e desiderio di Bonaparte, ordinò a Gioacchino di oltre spingere; e quegli trascurando ogni prudenza, e la consueta misura di tempo e di fatica, raggiungeva il nemico, lo sforzava alla guerra. Così, due giornate onorevoli al re di Napoli per audacia e per arte dettero alle armi francesi entrare in Vitepsko.
Indi Smolensko fu espugnata. I Russi combatterono innanzi alla città per aver tempo da trasportare gli ospedali, le artiglierie quante potevano, munizioni e mezzi di guerra; ed ardere magazzini, quartieri e case della città. Perciò nella notte, mentre l’esercito francese preparavasi a nuova battaglia, l’altro abbandonava il campo; a’ primi albori entrando i Francesi a Smolensko desertato salvarono a fatica dall’incendio pochi resti della vinta città. Era oltre il mezzo di agosto, bisognava un mese di cammino e di fortuna per giungere a Mosca o a Pietroburgo; ed era palese che i Russi si difenderebbero, a modo barbaro ritirandosi e distruggendo. Perciò Gioacchino (egli stesso mel disse più volte nel 1813, tuttora Bonaparte imperatore de’ Francesi e potente) propose di fermare in Smolensko la guerra del 1812, ordinare il governo de’ Polacchi, avanzare la base di operazione, prepararsi per lo aprile del 13 a nuove imprese; e poichè le legioni di Francia erano state in ogni scontro vincitrici, e le russe vinte e fugate, potevasi agevolmente prender le stanze più convenienti al disegno. I mezzi che la Russia adunerebbe in sette mesi sarieno certamente minori di quelli che fornirebbe la Francia, la Germania intera e la Polonia a pro dei Francesi ribellata. Non sa la Russia, soggiungeva Gioacchino, la vastità delle sue perdite; diasi tempo alla fama di raccontarle; ne deriverà scoramento, scontentezza, e forse, come usano nelle sventure le corti barbare, ribellione. Bonaparte fu dubbioso, o apparve, per alcuni giorni; ma infine avido di battaglie perchè mezzi di pace, comandò che l’esercito procedesse, e quel muovere da Smolensko fu ingrato a Gioacchino ed ai più veggenti generali.
XLIV. Avanzando, ricominciarono i combattimenti: Saint-Cyr vinse in Polotsk, il duca di Elchingen in Valontina, il re di Napoli in Viazma. E questo istesso, sempre alle prese col retroguardo russo e respingendolo, venne alla sponda della Moskowa dove tutto l’esercito si adunò; e visti su l’altra sponda i moti e i preparamenti de’ Russi, sperò Bonaparte la desiderata battaglia. Il di 7 di settembre ne diede il segno, e fu suo scopo, benchè in ordinanza parallela, rompere l’ala sinistra del nemico afforzata con opere e con potenti batterie di cannoni. Ivi combatteva il re di Napoli, ivi prima si vinse; là furono le infinite morti dei Russi, là suonò a ritirata il loro esercito. E dopo la battaglia i vinti, sempre incalzati, traversarono Mosca prendendo il cammino pria di Kolomna, poi di Kaluga, ed il re non trattenuto dal bisogno di riposo nè dall’aspetto di grande, nuova e quasi magica città, caldo di guerra, incurioso e spensierato di ogni altra cosa, inseguì il nemico fin sulla Nura, a venti leghe da Mosca. E poichè surse speranza e voce di pace, concordò tregua, per la quale i due avanguardi si posero a campo l’uno all’altro d’incontro, vigili e su le armi, perocchè unico patto era lo avvisarsi della cessata tregua tre ore innanzi dell’assalto. Ma pure le armi restarono sospese tredici giorni, l’imperator dei Francesi aspettando la pace, l’imperator dei Russi l’inverno.
Quella differita a disegno, questo oramai vicino, Mosca incene rita non dando ricovero all’esercito vincitore, Bonaparte imprese a ritirarsi verso Smolensko. Si è biasimato in questo secolo di molle civiltà l’animo feroce del governatore Rostpochin macchinatore dell’incendio della città; ma pure a quell’animo è dovuta la rigettata pace con la Francia, la ritirata, la rovina dell’esercito nemico, e la serbata indipendenza della Russia. E però io penso che la mezzana civiltà dei nostri tempi sia la cagione vera della servitù volontaria dei popoli, e che il vivere sarà onorevole quando il concetto del chiamato barbaro Rostpochin venga in mente del miglior cittadino di un paese vinto, ossia quando la civiltà sarà bastante agli sforzi della barbarie.
Cominciata la ritirata da Mosca; l’esercito russo ch’era incontro a Gioacchino, non già impaziente di guerra ma con fraude, in dispregio del patto, assaltò all’impensata i Francesi; ma dopo i vantaggi del sorprendere fu trattenuto, e s’impegnò vasta battaglia in tutta la linea. Obbietto la stretta di Voronoswo, che restò ai Francesi: morì fra molti il general Dery, ajutante di campo e tenero amico del re, marito di giovine nobile napoletana. Bonaparte, benchè parco lodatore, nè benevolo a Gioacchino, riportando que’ fatti nei bullettini dell’esercito, scrisse «Il re di Napoli in questa battaglia ha provato quanto possano la prudenza, il valore, l’uso di guerra. In tutta la guerra di Russia questo principe si è mostrato degno del supremo grado di re.»
La ritirata dei Francesi proseguiva: le schiere ordinate dei Russi, e i Cosacchi a sciami infestavano la linea francese, che non però trattenevasi perchè in ogni scontro vincitrice. Ma indi a poco il verno inacerbiva sino a 18 gradi di Reaumur, bastò ad uccidere molti cavalli ed alcuni uomini, e più infermarne: così crescendo di giorno in giorno il bisogno di difendersi, i mezzi alla difesa scemavano. Nè il freddo si fermò a quel grado ma più crebbe; in due notti, potendo anche più del gelo la nudità e ’l digiuno, perirono trentamila cavalli, ed uomini in gran mumero: la cavalleria dell’esercito scomparve, i già cavalieri andavano a piedi, i carri, le artiglierie, il tesoro furono abbandonati. Alle miserevoli e spesso immaginose descrizioni della ritirata di Mosca niente aggiungerò, perchè è storia di Francia, e il poco che ne ho detto basta per dimostrare che scomposti gli ordini militari, distratta la cavalleria, non avea Gioacchino schiere da reggere, ma combatteva per occasioni e quasi per venatura. In tanta calamità serbò animo sereno, come il serbarono gli altri capi dell’esercito, la guardia imperiale, gli uffiziali e i soldati in gran numero; ma sopra tutti, che che ne dicesse la malevolenza, l’imperatore Napoleone, vieppiù che nelle fortune, previdente, operoso, instancabile.
XLV. Ridotto l’esercito sul Niemen, Bonaparte movendo per Parigi lasciò luogotenente il re di Napoli. Continuava la ritirata e la guerra, ma il verno decadeva, e l’esercito giunto dietro all’Oder ristoravasi con le immense provviste ivi adunate, quando il general Yorck con le squadre di Prussia disertò i campi francesi, e abbisognarono abili provvedimenti del duca di Reggio e nuovi fatti d’armi per dar riparo allo inatteso abbandono. Ma infine, condotto l’esercito francese a stanze comode e sicure, fermati i Russi, terminò la guerra del 1812; e Gioacchino, deponendo in mano del vicerè d’italia il comando supremo, celeremente ritornò in Napoli, movendo dietro di lui il contingente napoletano; che sebbene non guerreggiasse ne’ luoghi più aspri della Russia, ebbe assai morti di gelo, o moncati delle dita delle mani e de’ piedi. L’abbandono che fece Gioacchino dell’ esercito francese gli fu danno ed onta: il suo regno riposava perchè già spente le discordie civili, e la Sicilia travagliata da’ proprii destini, e la Inghilterra intesa alle guerre di Germania e di Spagna; la reggente con animo e senno virile provvedeva e bastava a’ bisogni dello stato. Egli era sull’Oder non re, ma capitano, nè cittadino di Napoli, ma Francese; là stava ed afflitta la sua patria, là stavano in pericolo quelle schiere che gli avevano data e fama e trono.
Bonaparte, intesa la partenza di Murat dal campo, fece divolgarla nel Monitore (gazzetta di Francia) aggiungendo biasimi per Gioacchino, e lodi, che più a Gioacchino pungevano, del vicerè; avvegnachè quei due principi, l’uno più caro alla fortuna, l’altro all’imperatore, sentivano da lunga pezza gelosia tra loro e nemicizia. Nè per quelle pubbliche vendette ancor sazio lo sdegno di Bonaparte, scrisse alla sorella regina di Napoli ingiurie per Gioacchino, chiamandolo mancatore, ingrato, inetto alla politica, indegno del suo parentado, degno per le sue macchinazioni di pubblico e severo castigo. Ed il re a quel foglio direttamente rispose, e tra l’altro disse: «La ferita al mio onore è già fatta, e non è in potere di vostra maestà il medicarla. Voi avete ingiuriato un antico compagno d’armi, fedele a voi nei vostri pericoli, non piccolo mezzo delle vostre vittorie, sostegno della vostra grandezza, rianimatore del vostro smarrito coraggio al diciotto brumaire.
Quando si ha l’onore, ella dice, di appartenere alla sua illustre famiglia, nulla debbe farsi che ne arrischi l’interesse o ne adombri lo splendore. Ed io, sire, le dico in risposta che la sua famiglia ha ricevuto da me tanto onore quanto me ne ha dato collegandomi in matrimonio alla Carolina.
Mille volle, benchè re, sospiro i tempi nei quali, semplice ufficiale, io aveva superiori e non padrone. Divenuto re, ma in questo grado supremo tiranneggiato da vostra maestà, dominato in famiglia, ho sentito più che non mai bisogno d’indipendenza, sete di libertà. Così voi affliggete, così sacrificate al vostro sospetto gli uomini più fidi a voi, e che meglio vi han servito nello stupendo cammino della vostra fortuna; così Fouchè fu immolato a Savary, Talleyrand a Champagny, Champagny stesso a Bassano, e Murat a Beauharnais, a Beauharnais che appresso voi ha il merito della muta obbedienza, e l’altro (più gradito perchè più servile) di aver lietamente annunziato al senato di Francia il ripudio di sua madre.
Io più non posso negare al mio popolo un qualche ristoro di commercio a’ danni gravissimi che la guerra marittima gli arreca.
Da quanto ho detto di vostra maestà e di me, deriva che la scambievole antica fiducia è alterata. Ella farà ciò che più le aggrada, ma qualunque sieno i suoi torti, io sono ancora suo fratello e fedel cognato.
Gioacchino.»
Spedito nel boltore dello sdegno, ed irrevocabile quel foglio, Gioacchino supponendo immensa ed intemperabile l’ira del cognato; si apprestò alle difese; ma d’altra parte la regina, per la saputa natura di lui, e per voci che gli sfuggivano dal facile adirato labbro, indovinando i sensi dello scritto, interponevasi e molciva quelle nemicizie. Qui è il luogo di riferire un avvenimento ignoto fuorchè ad alcuni, cominciandone il racconto da’ suoi principi nel 1810.
XLVI. Conosciuta in quel tempo da’ Napoletani l’indole di Gioacchino, audace, ambiziosa, facile a’ consigli, avida di ogni gloria; osservando che l’impero francese, capo e sostegno degli stati nuovi, non aveva per anco la saldezza che vien dal tempo, e che l’obbedienza dell’esercito, il rispetto del popolo, il timore delle esterne nazioni, perciò la possanza francese risedeva nella vita di Bonaparte esposta, oltracchè al fato comune, a’ pericoli di guerra continua ed a’ precipizii delle proprie imprese; vedendo tanta mole sopra fondamento sì fragile, pochi Napoletani, ed uno di altra parte d’Italia, non potenti, ma vicini a’ potenti, pensarono che unica salvezza nostra sarebbe stata la unione d’Italia. Il maggior intoppo (la varietà e l’avversione tra popoli italiani) era tolto, da che tutta Italia aveva in comune i codici, la finanza, i bisogni, il comporre, l’ordinare, il comandare delie milizie; e però erano uguali dall’Alpi al Faro le armi, le ricchezze, i desiderii, elementi di vita e di forza di un popolo.
La unione potea quindi credersi operata, perchè le cose pubbliche stavano unite, e non altro abbisognava a legittimarla che una opportunità ed un uomo; quella tenevasi certa fra tanti moti di guerra e di politica, questo si sperava in Gioacchino; nè già per carità d’italia, ma per propria ambizione. Palesato a lui quel disegno, lo gradì; ma temendo il sospettoso ingegno di Bonaparte, ne fece il maggior segreto dello stato, e sì che lo ignoravano i suoi ministri e la moglie. A lui, ricco di gloria militare, scarso di fama civile e di esperienza di regno, si conveniva, per acquistar l’animo degl’Italiani, reggere Napoli con modestia e senno, fondare opere utili, onorare gli scienziati di tutta Italia, dare al suo popolo costituzione politica dicevole a’ tempi ed a’ costumi; e nell’esterno essere fedele ma non soggetto all’imperator de’ Francesi, e nemico a’ nemici della Francia per alleanza fra i due stati non come per proprio sdegno. Erano queste le armi oneste che si adoperavano alla conquista d’Italia, ma non libere perchè trattavansi nascostamente, col segreto e quasi con le arti del delitto.
Gl’instigatori di Gioacchino a quella impresa, i medesimi che li avevano secondato nelle prime querele coll’imperator de’ Francesi ed accesagli brama d’indipendenza e lusingato con la fiducia ch’ei potesse ogni cosa nel regno e nella Italia, appena tornato licenziosamente da Russia, ingiuriato dal cognato, ed avido perciò di vendetta, gli si offerirono, rappresentando L’Italia vuota d’armi francesi o tedesche, tutta Europa guerriera adunata ed immobile su le sponde dell’Elba, Bonaparte percosso, inabile a tornar signore del mondo, ma tuttavia minaccioso e spaventevole, così che il mettersi contro lui non aveva pericoli, e trovava premio ed ajuto da re nemici. Dopo rappresentanze sì calde, fra condizioni sì prospere, gli proponevano pregando, di trattar pace con la Inghilterra, ed occupata la Italia, ordinarla una ed indipendente. La quale impresa allettava tutti gli affetti di Gioacchino, ambizione antica, ira novella, ed amor di fama e di gloria.
XLVII. Spedì messo in Sicilia a lord Bentinck richiedendo passaporto per un legato napoletano il quale conferisse con lui sopra gravi materie di governo; ma pregando il secreto, Bentinck, sentita la importanza del caso, disegnò per le conferenze l’isola di Ponza, ed immantinenti vi si recò simulando altro viaggio; imperciocchè del comune mistero erano cagione due donne del nome istesso, regine che si chiamavano delle due Sicilie, Carolina Borbone e Carolina Murat, nemiche di genio e d’interesse, alle quali per vario fine era egualmente infesto quel disegno. Roberto Jones, nato Inglese, divenuto per lunga dimora tra noi Napoletano, facile alla favella, semplice di costumi e di portamento, fu il legato che in Ponza espose a Bentinck per Gioacchino l’offerta di occupar l’Italia, da nemico di Bonaparte, a patto ch’ei ne fosse conosciuto re da’ re alleati, e che avesse ajuto di danaro dalla Inghilterra. Bentinck, solamente inteso ad indebolire la potenza del gran nemico, aderì; ma escludendo dalla proposta unione la Sicilia, mantenuta per recenti trattati al re Ferdinando Borbone; e volendo che venticinquemila soldati inglesi, uniti a’ Napoletani, sotto al comando di Gioacchino, operassero in Italia; e fosse agl’Inglesi consegnata sino al termine della impresa, in pegno della fede del re, la fortezza di Gaeta.
Spiacquero a Gioacchino la Sicilia esclusa, il troppo gagliardo ajuto dell’esercito inglese, e la cessione, per vergognosa malleveria, della maggior guardia del regno. Non pertanto, consultati gli stessi che lo spingevano alle azioni, si persuase a rispedire il legato; con mandato di ottenere per argomenti o preghiere che Bentinck rinunziasse alle condizioni di Gaeta e di Sicilia, tacendo per prudenza sul troppo nerbo dell’esercito inglese; ma che ne’ casi estremi concordasse l’alleanza come era proposta dall’ostinato Inglese. Chiamò al secreto il ministro di polizia duca di Campochiaro, al quale amor di patria e d’Italia non scaldava il petto; e per voto di lui aggiunse altro legato, un tal Nicolas, ignoto, se il liscio e le mondizie femminili non gli avessero attirato lo sguardo e ’l riso del pubblico. S’ingrandì e bruttò il numero de’ consapevoli,
Nelle nuove conferenze, Bentinck rimasto saldo a’ primi patti, concordò in quei termini co’ due legati; spedì in Inghilterra nave da corso, Avvisos, per chiedere al suo governo la conferma del trattato: e, certo di ottenerla, proponeva a legati napoletani di spedire in Italia (se piaceva al re di operar presto) le pattovite schiere inglesi, ch’egli avrebbe tratte da Sicilia, Malta e Gibilterra.
XLVIII. Fra le discordie delle conferenze e le accidentali traversie di mare tardava il ritorno da Ponza de’ legati; e Gioacchino pendeva fra pensieri opposti, credendosi ora traditore, ora tradito; e sentendo ad un tempo le lusinghe del diadema d’Italia, e i timori dell’ira di Bonaparte. Mentre la scorta e sospettosa regina, esperta ad ammollire gl’impeti del marito e gli odii del fratello, parlava all’uno, scriveva all’altro in amichevoli sensi. E Bonaparte, o che cedesse per amor di lei, o che vedesse i pericoli del tradimento, rispose lettere di domestico affetto, pegni di pace, per Gioacchino. E nel tempo stesso scrissero al re il maresciallo Ney ed il ministro Fouchè; dei quali il primo diceva che l’esercito impazientava non vedendo ancora tra le file il re di Napoli, che la cavalleria apertamente lo appellava, che forse il destino di Francia stava nel suo braccio: corresse su l’Elba. Erano prieghi e laudi accettissime, perchè di prode a prode. E Fouchè scriveva che amicizia e riverenza lo spingevano a palesargli che il veder Gioacchino sicuro e lontano da’ pericoli della guerra e della Francia, portava all’universale dell’esercito scoramento e scandalo; che un congresso di pace adunavasi, ed il re di Napoli, se presente in campo, vi era ammesso; ma se assente, obliato: che dunque debito, onore, interesse lo chiamavano a Dresda.
Eppure Gioacchino, in tanti modi assalito, resisteva. Nella notte che succedè all’arrivo de’ mentovati fogli, il ministro Agar e la regina per molte ore il pregarono; ed egli, stretto dagli argomenti e scongiuri, palesò il vero motivo del suo ritegno: la facile conquista d’Italia, le conferenze di Ponza, l’atteso ritorno de’ legati. E la regina, come che in cuore lo biasimasse, applaudì col sembiante; e disse che il suo debito natale verso la Francia lo chiamava al campo di Dresda; che il suo debito di re verso il regno e la Italia gl’imponeva di proseguire i trattati con la Inghilterra: che dunque il principe della casa francese combattesse su l’Elba; ed in nome del re la reggente fermasse gli accordi con Bentinck, e facesse prorompere in Italia gli eserciti congiunti napoletano ed inglese.
Concetti tanto strani bastarono a persuader Gioacchino della facilità di eseguirli; la sua mente, per lungo tempo travagliata, abbisognava di calma; il cuore e l’abito pendevano per la Francia: egli debol politico, debol re, scelse il partire, e si partì l’indomane; rivelando alla moglie i pochi nomi de’ congiurati, che ancora per l’acerbità dei tempi io nascondo; ma lor prego da più giusta fortuna, nello avvenir della Italia, celebrità e gratitudine. Ritornò d’Inghilterra, dopo un mese, l’Avvisos, e riportò il consentimento di quel governo agli accordi di Ponza. Tardi: che in quel mezzo Bentinck, saputa la partenza di Gioacchino, era tornato da nemico in Sicilia; Gioacchino ne’ campi di Alemagna acquistava nuove ma inutili glorie, e la servitù d’Italia, decretata dai destini, maturava.
XLIX. Egli giunse a Dresda quasi al mezzo di agosto, dopo casi gravissimi di guerra che in breve accennerò per legamento d’istoria. L’esercito francese, guidato dal vicerè d’Italia, erasi ritirato dall’Oder all’Elba; l’Elba contrastata e presa da’ Russi; la Prussia, di alleata, dichiarata nemica della Francia; il principe di Svezia, francese, debitore del diadema alle fortune di Francia, ottenuta l’alteanza de’ Russi, mostravasi zeloso qual suole ogni uomo di mutata fede; i popoli alemanni concitati da’ Prussiani e Russi tumultuavano; l’Austria, dopo ritardi ed inganni, alleata di Francia, mediatrice di pace, e subito nemica, moveva in Boemia poderosi eserciti. La Francia dall’opposta parte, e l’uomo smisurato che la reggeva, levate molte schiere, rifatte le artiglierie, minaccioso quanto ogni altra volta andava incontro al nemico. Furono asprissime le battaglie di Lutzen, Bautzen e Wurtchen; nelle quali più combatterono e più perirono, trattando le armi per la prima volta, giovani appena adulti, Prussiani e Francesi, che avevano desertato per la guerra i licei e le università; e sì che tra i Prussi vedeva il mondo con maraviglia i maestri delle scuole guidare al combattimento i discepoli, ordinati a compagnie volontarie. Moveva i Francesi nobile sentimento di grandezza mostrandosi maggiore nelle sventure, moveva i Prussiani ardore di vendetta e di libertà; vinsero i Franchi, ma per troppe morti mesta vittoria; e frattanto espugnata Dresda fortemente munita procedevano insino all’Oder.
Fatto armistizio in Plesswitz il dì 5 di giugno, intrapresi e poi rotti i maneggi di pace, ricominciò a dì 16 di agosto la guerra; avendo nella tregua ambe le parti maturato i disegni. De’ Francesi era base di operazione il Reno; scala di operazioni le fortezze tra quel finme e l’Elba; globo di operazioni la Sassonia; campi da operare la Prussia, la Slesia e la Boemia; elementi ed ajuti di strategia le fortezze ancora occupate sull’Oder e sulla Vistola; obbietto di guerra le battaglie, e speranza la pace alle condizioni di Tilsit. Degli alleati erano basi la Boemia, la Slesia, la Prussia, punto obbiettivo fa Sassonia; mezzi di guerra travagliare il nemico, respingerle. serrarlo; speranza, confinare l’impero di Francia fra l’Oceano, i Pirenei, l’Alpi ed il Reno. Avevano i primi il benefizio delle linee interne; avevano i secondi la superiorità del numero, perocchè cinquecento mila di loro combattevano trecentomila Francesi; ma di questi era unico l’esercito, una la mente, andavano tutti con un solo volere; e di quelli gli eserciti, le menti e gl’interessi erano varii.
Il re Gioacchino, in quei giorni di vicina guerra, offertosi all’imperatore con riverenza e contegno, n’era stato lietamente accolto ed abbracciato; avvegnachè gli usitati affetti ed il comune pericolo sopivano gli odii e la memoria delle recenti discordie. Il re, nella ordinanza dell’esercito non aveva proprio uffizio; stava a fianco di Bonaparte, lo seguiva ne’ combattimenti della Slesia e della Boemia; aspettava (impaziente a prorompere) il comando dell’imperatore; e se fosse permessa una immagine a’ severi discorsi della storia, era fulmine trattenuto in man di Giove.
Gli eserciti alleati sboccando dalla Boemia, marciavano contro il campo di Dresda, perno de’ movimenti strategici de Francesi; due imperatori russo ed austriaco, il re di Prussia, le schiere più agguerrite, i generali più prodi e più esperti erano fra quelle linee. Vi stavano pure, più per consiglio che combattenti, i generali Moreau e Jomini: dell’uno i casi sono assai noti per le istorie di Francia; l’altro nato Svizzero, impegnato agli stipendii francesi, capo in quella guerra dello stato-maggiore del maresciallo Ney, avea giorni avanti disertate le bandiere, e prese le parti e il soldo del nemico russo. Incontraronsi que’ due colpevoli nella tenda dell’imperator Alessandro, l’un l’altro guatandosi biecamente, Moreau dimandava: «Quali offese vendica Jomini col tradimento?» E Jomini, di Moreau: «Se fossi nato in Francia non sarei nelle tende dei Russi.» Moreau ne’ seguenti giorni percosso da palla francese morì miseramente; a Jomini, non la scienza di guerra, non meritata fama di sommo autore, e ’l favor di Alessandro, e la causa vinta bastarono a cancellar la macchia di quella colpa.
Il maggior nerbo degli eserciti alleati assaltava Dresda, difesa da quindicimila appena giovani Francesi o malsicuri confederati, ma vi accorsero celeremente dalla Slesia con nuove schiere Bonaparte e Murat, e sì che resistendo a fatica nei primi giorni, si adunarono in città centocinquemila Francesi, avendo intorno duecentomila nemici. In quello esercito di Francia, ordinato a battaglia, reggeva il tutto e guidava il centro Bonaparte, l’ala sinistra Ney, la diritta Murat. A’ 26 di agosto fu assaltata la città, entro la quale, dietro alle chiuse porte, stavano schierati e stretti i difensori; ma ad un cenno del capo, aperte le barriere, ne uscirono come torrenti di guerra le preparate colonne; Gioacchino, primo e reggitore di trentamila soldati a cavallo, attaccando sul fianco l’esercito nemico, lo rompeva, spingeva i fuggenti su le schiere ordinate, e così a tutti, affollati e confusi, toglieva o scemava facoltà di combattere. E poco meno felici furono il centro e l’ala sinistra de’ Francesi, per lo che Russi, Alemanni e Prussiani tornavano frettolosi e disordinati verso Boemia. Tre giorni durò la battaglia, ventimila de’ perditori restarono morti o feriti, e il vincitore raccolse trentamila prigioni, bandiere, artiglierie, innumerabili attrezzi di guerra, Il mancamento di Gioacchino su l’Oder fu riscattato su l’Elba, ed egli tornò caro a Bonaparte ed a’ Francesi.
L. Tre eserciti perseguitavano i fuggitivi nella Boemia, un quarto accennava a Breslavia, un quinto a Berlino; Bonaparte in Dresda ordinava nuove battaglie, mentre i contrarii altre sventure temevano. Ma in un tratto cangiò fortuna: il duca di Reggio prima trattenuto, poi respinto da’ Prussiani e Svedesi guidati da Bernadotte, combattè in Gros-Boeren, e perditore si ritirò in Interborg. Il duca di Taranto dà in Islesia la giornata di Kalzbach, e vinto da Blucher prussiano, riduce le sue legioni dietro al Bober. Il general Vandamme, bramoso di gloria, s’interna nella Boemia e spera di cogliere il maggior frutto della vittoria di Dresda; ma dalle troppe schiere nemiche, benchè fuggenti, accerchiato, egli con la più parte dell’esercito è preso. Il maresciallo Saint-Cyr a stento si sa difendere, ha poca fortuna il re di Napoli. Gli enumerati disastri si fanno maggiori per le abbondanti piogge cadute in quei giorni di agosto e sì che ingrossarono i fiumi, guastarono le strade, rovinarono i ponti, impacci comuni a’ due eserciti, solamente dannosi a’ perdenti. Il principe della Moskowa succeduto nel comando al duca di Reggio, combatte in Denneviz, e perdè; Blucher è sulla Sprea, Schwartzemberg di nuovo a Pyrna: Bonaparte respinge or l’uno or l’altro, ma le forze nemiche si affollano intorno a Dresda, e tanto che i Francesi, non avendo spazio alle arti di guerra, abbandonano la città.
Pareva all’universale che quello esercito più vinto che vincitore dovesse ripiegare sopra Lipsia verso la sua base, ma l’aspetto offensivo si perdeva, non più in potestà di Bonaparte era il dar battaglia o evitarla, le speranze di quella guerra svanivano. Ed egli perciò disegnando nuove basi e nuove linee, incamminò l’esercito verso Torgavia e Magdeburgo. Dell’impreveduto movimento furono maravigliati i nemici e gli stessi generali di Bonaparte: quegli, dubbiosi, fermaronsi o volteggiavano; questi, scorati, biasimando in secreto l’imperatore, pregandolo in aperto a mutar consiglio, palesarono diffidanza ed opposizione a’ voleri del capo, la maggiore sventura fra le sventure degli eserciti. E quegli tollerava da imperatore ciò che ne’ suoi primi anni avea disdegnato da capitano, tanto negli altri ed in lui era mutato co’ tempi e con le fortune il genio severo di Arcole e San Giovanni d’Acri. Ma il re di Napoli non era fra detrattori: lasciato con poca schiera, quarantamila soldati, contro gl’immensi eserciti di Schwartzemberg e di Vittgenstein, valorosamente combattendo, abilmente volteggiando, dava tempo a’ nuovi concetti di Bonaparte ed a’ ritardi che produceva la malnata discordia de’ capi. Se Lipsia fu serbata, se poi l’esercito potè ritirarsi per la più breve linea sul Reno, se n’ebbe il debito a Gioacchino.
Adunato in Lipsia l’esercito e la guerra divenuta difensiva, mutarono in timor le speranze di Francia. Lipsia nel seguente giorno fu assalita per gran battaglia, gloriosa e infelicissima all’esercito francese, la quale non è mio debito il descrivere, come neppure altri fatti d’armi contemporanei e succedenti, ne’ quali Bonaparte, o vincitore o vinto, era di non altro sollecito che di ridurre le schiere dietro al Reno. Ma è mio debito rammentare che il re di Napoli nelle universali sventure e disperazioni fu prode, infaticabile, ansioso di bella fama, come se ne fosse ne’ suoi stato bisognoso; e che in Erfurt, finiti gl’intoppi e i pericoli della ritirata, prese commiato dall’imperatore tra scambievoli fraterni abbracciamenti, ultimo commiato e ultimi segni di amicizia e di affetto. Giunse in Napoli al finire dell’anno 1813, quando negli stati di Europa, dopo il genio riformatore del passato secolo, e la tumultuosa mal sentita libertà di Francia, e la politica eguaglianza più goduta e più radicata, cominciò ne’ popoli e ne’ governi nuova tendenza, primo punto di altro circolo di sconvolgimenti e di miserie. E poichè la tendenza della quale io parlo agitò il resto del regno di Gioacchino, e dura e durerà lunga pezza, io ne dirò partitamente l’indole, le origini, l’incremento.
LI. La facoltà di consultare armati gli affari pubblici era libertà o necessità delle prime o rozze tribù, ma i tempi progredendo, la forza cedè alla ragione, e fatti i popoli più civili furono meno deliberativi gli eserciti. E quindi in Europa sotto governi mezzo barbari, mezzo civili, la potenza morale delle armi era frenata dal domma che la milizia obbedisce al suo capo, egli al sovrano. Così nella disciplina (che è verità, sustanza, necessità di ogni milizia) fu radicata la massima salutare: la natura degli eserciti essere passiva.
E frattanto in quell’anno, 1813, avvennero in contrario i seguenti casi. I generali York e Massenbach da’ campi dell’alleato esercito francese disertando con le loro genti, si accordarono coi Russi. Il re di Prussia, timoroso ancora della Francia, riprovo l’accordo, rivocò i due generali disertori, gli minacciò di pena, ma indi a poco tornarono premiati agli stipendii, e la tregua fermata per tradimento videsi legittimata e slargata in alleanza. Due reggimenti di Vesfalia che stavano co’ Francesi alle difese di Dresda, viste le bandiere d’Austria e l’opportunità di fuggire, andarono ai nemico, ed assaltarono il campo che avevano debito di guardare, furono accolti ed onorati del nome di veri Alemanni. L’esempio si diffuse, tutto il contingente vesfalico a battaglioni disertò. Su le rive dell’Inn, i Bavari e gli Austriaci nemici per legge, stavano umili e spensierati come suole ne’ campi di comune esercizio. E poco appresso il generale bavaro de Wrede, capo di quelle schiere, stringe alleanza coll’Austria, disobbedisce a’ desiderii aperti del suo re, e frattanto n’è lodato, e in premio e memoria di tradimento e d’ingratitudine ottiene la conferma di ricchissimo dono in terre fattogli anni addietro dall’imperatore Napoleone. Raduna schiere maggiori, e dopo alcuni di spera in Hanau chiudere il passo all’esercito francese che ritiravasi al Reno, la quale sollecitudine di opere e di sdegno fu ammirata a chiamata eroica da’ principi alleati. Disertarono i battaglioni di Baden e di Wurtemberg, per unirsi al nemico. A tante ribellioni mancava la suprema e si avverò in Lipsia: le sopraddette erano seguite più spesso nella notte, mentre gli eserciti riposavano, la guerra era sospesa, e le tenebre nascondevano la prima infamia del misfatto. Ma in Lipsia l’esercito sassone stava in ordinanza al centro della prima linea francese, e solamente pochi battaglioni nella seconda o in riserva; il vecchio re di Sassonia, costante alla giurata fede, amico a Bonaparte, attendeva con la famiglia nel quartier generale francese; combattevano le due parti con fortuna incerta, quando furono visti i Sassoni a pieno giorno, seguendo schierati in battaglia il generale Normann, avanzare con istraordinaria celerità verso il nemico, non a combatterlo, ma ad ingrossarlo; e giunti, e girandosi, trovarsi in avanguardia degli eserciti russo e svedese, e venir con essi per occupare nemichevolmente il terreno lasciato vuoto per lo abbandono, se con maggior impeto non lo avesse innanzi occupato Murat, e quei traditori combattere audacemente il resto della battaglia, non rattenuti dal pensiero che ogni colpo poteva uccidere un Sassone de’ battaglioni rimasti fidi, o l’istesso re di Sassonia. Il capo dell’artiglieria offrendosi disertore a Bernadotte, gli disse: «Ho consumato metà a delle munizioni contro i vostri, or voi fate che io consunti il resto contro i Francesi.» E dal Bernadotte fu applaudita l’azione e l’argutezza di quel colpevole sfrontato; come l’anno appresso i sovrani congregati a Vienna encomiarono la ribellione dell’esercito sassone, ed un sol uomo punirono della Sassonia, il solo fido a’ giuramenti, il re.
Così negli eserciti, mentre tutti i governi dell’Alemagna, scopertamente o in animo erano nemici (benchè per patto alleati) a’ Francesi; i re antichi, impotenti per proprio ingegno o per la cadente regia potestà, a radunare mezzi di guerra contro la Francia, dissimulando | insita superbia, si volsero a’ popoli con lusinghiere promesse di civile libertà. Le costituzioni, le rappresentanze nazionali, il voto de’ cittadini alle spese dello stato, essendo formali assicurazioni ne’ loro editti, e promessa mercede agli sforzi de’ popoli, divennero il nuovo patto di società tra re e soggetti. E più si fece da que’ governi. L’Alemagna, per la natura pensosa e tacita delle sue genti, più atta alle società segrete, ne aveva di ogni rito, di ogni voto, di nome vario, ma tutte libere, ed al bisogno feroci ed operose. A queste istesse, abborrite innanzi, si unirono i re, mossi in quel tempo dall’interesse più grande di opprimere in Bonaparte (in un sol uomo) le monarchie militari, la civiltà moderna, tutto il nuovo del secolo; ma serbando in animo il proponimento d’ingannare, dopo il successo, settarii e popoli.
E cotesti popoli alemanni, inabili, come sono le moltitudini, a veder gli effetti lontani delle sociali instituzioni; stando da venti anni sotto il peso della guerra e dei tributi; travagliati, se amici a Bonaparte, dai pericoli e dalle fatiche delle non proprie conquiste; e, se nemici, vinti, oppressi, depredati più volte; ora gloriosi dell’esser cercati dai re e credersi strumento di vicina nazionale felicità, erano giustamente contrarii della Francia. I settarii, superbi del setteggiare coi monarchi; i dottrinarii politici (perturbatori di ogni bene civile), oramai vicini alla desiderata caduta di quell’uomo, oppressore della libertà; la plebe fra le speranze di novità di stato. Fu dunque nelle genti germane in quell’anno tanto moto e furore contro la Francia, che alla foga di guerra non bastavano l’armi; e vedevansi fanti stranamente vestiti colle fogge e i colori delle sette, combattere con picca o mazza, e numerosi cavalieri, a modo barbaro, con arco e frecce.
Stringerò in poco le cose dette. In men di un anno si videro spezzate le più formali alleanze, sciolti i patti e i giuramenti, tradite le amicizie e le fedi, premiate le rebellioni, qualche rara virtù castigata, niente di santo, di sacro, di rispettato innanzi, mantenuto. E tutto ciò dalla maggiore, prima nel mondo, adunanza di re, per non altri motivi che di dominio e vendetta, e L’alta disonestà coronata dalla fortuna ed applaudita dalle opinioni. Un grande esempio diviene principio e genio del secolo, al quale esempio, dopo il successo, si dà nome di virtù; lo ammira il mondo, diviene persuasione delle menti comuni, e sino a che per uso e disinganno non cade, si fa cagione o pretesto alle novità di stato. Così la congerie dei fatti obbrobriosi che ho narrato si chiamò amore d’indipendenza ed ogni mancamento pubblico o privato, carità e zelo di patria. Noi vedremo nel progresso di queste istorie come quella indipendenza legavasi alla legittimità, come dall’innesto derivava la voglia nei popoli e il bisogno delle moderne costituzioni e come opprimere sforzatamente le costituzioni e la indipendenza è trionfo fallace, nocevole ai popoli ed ai re. Imperciocchè la forza se impiegata per giustizie vere o credute dai popoli, conserva i governi; ma le distrugge se adoprasi per credute o vere ingiustizie.
Un essere nuovo nelle nazioni spuntò nel 1813 in Alemagna; debolmente operò nel 1820 in Cadice, in Napoli, nel Piemonte; oggi avanza muto e pensoso. Se diverrà maturo, e se avrà fortune, o se morrà innanzi tempo di natural morbo come le recenti repubbliche, o di guerra come i re nuovi, sono le doppiezze del presente che gli avveniri chiariranno.
LII. Le sventure dell’impero di Francia erano sentite da tutti i governi d’Italia, come i moti dell’Alemagna da tutti i popoli italiani, e maggior pericolo, maggiore esempio si ebbe in Napoli dalle vicine e fortunate rivoluzioni della Sicilia. Ho riferito in altro luogo di questo libro la nemicizia per gl’Inglesi della irrequieta regina Carolina Borbone, e le sospettate pratiche di lei con Bonaparte e la tentata spedizione di Murat; ora soggiungo che, rivelate quelle trame a lord Bentinck, reggitore del presidio inglese, e puniti per fin con la morte i più intimi nella congiura seguaci della regina, il governo inglese disegnò di mutare il reggimento politico della Sicilia. Nell’anno 1811 Bentinck preparava i mutamenti; la regina le opposizioni, la vendetta, Bentinck prevalse: il governo dispotico fu abbattuto e si diede a questo stato novella costituzione, mercedì al popolo, freno al sovrano, sicurezza ai presidii inglesi, esempio ed incitamento all’Italia. Nel 1812 l’atto fu composto, e nell’anno 1813 praticato. Quella che prese nome di costituzione siciliana era la inglese, migliorata nel modo di elezione e nel numero e proporzione de’ diputati delle comuni. Un difetto, forse a disegno, era nella simulata abolizione della feudalità, che cessando nei diritti ed usi feudali, rimaneva nei possessi. Tutte le altre basi della civiltà moderna quanto ai poteri, ai tributi, alla stampa, erano nello statuto.
LIII. Le buone sorti di quell’isola si magnificavano in Napoli al cadere dell’anno 1813, quando la setta dei carbonari, da tre anni venuta nel regno, erasi distesa in ogni luogo, in ogni ceto, nei disegni degli audaci, nelle credenze del volgo, ed era suo voto una costituzione come la inglese, sola che in quel tempo le moltitudini tenessero in concetto di libertà. Il governo di Sicilia ad esempio dei governi alemanni, e lord Bentinck per proprio ingegno, ordirono segrete corrispondenze coi settarii di Napoli, mandarono i libri delle nuove leggi siciliane, esaltavano la mutata politica del re, promettevano egual costituzione al regno quando reggessoro i Borboni; confronto vergognoso a Gioacchino, che aveva impedito per fino il vano statuto di Bajona. E perciò, scoperti i maneggi tra i carbonari e il nemico, il governo napoletano doppiò vigilanza e rigori, proscrisse la setta, fece decreti minaccevoli di asprissime punizioni.
Maggior nerbo di carboneria e corrispondenza. più facile con la Sicilia era in Calabria, indi più grande la severità; pur questa volta affidata al general Manhès. Per molte cure della polizia, molte macchinazioni disvelate, formati i processi, ordinati i giudizii, le commissioni militari risorte punivano di morte i settarii. Primo della setta o dei primi era un tal Capobianco, giovine potente, audace capitano delle milizie urbane nella sua terra edificata come rocca sopra monti asprissimi della prima Calabria; e perciò essendo dfflicile arrestarlo, si faceva sembiante di non crederlo reo, mentre egli sospettoso e scaltro, sfuggiva le secrete insidie. Ma un giorno il general Iannelli simulandogli amicizia, lo invitò per lettere a convito ch’egli ad occasione di pubblica cerimonia dava in Cosenza, capo della provincia, dicendogli che avrebbe compagni altri uffiziali delle milizie e le maggiori autorità civili ed ecclesiastiche. Dubitò da prima il Capobianco: di poi non temendo inganni nei viaggio per vie inusitate con buona guardia; nè temendo in Cosenza, perchè proponevasi di giugnere all’ora appunto del convito, ed appena compiuto partirne; nè in casa del generale, perocchè in presenza di tutte le autorità della provincia depositarie e generanti sì del potere, sì della morale del governo, rendendo grazie al generale, accettò l’invito.
Vi si recò, fu accolto, desinò lietamente, e partiva; ma uscendo della stanza trattenuto dai gendarmi, condotto in carcere, e nel dì seguente giudicato dalla commissione militare, e dannato a morte, fu nella pubblica piazza di Cosenza, sotto gli occhi delle genti inorridite, decapitato. E dopo ciò, alcuni (tanto la politica avea mutato la natura delle cose) fuggivano i pericoli e la servitù del regno di Murat per andare in Sicilia a respirar libertà sotto i Borboni. Certo è che nella universale credenza molti vizii, che le istorie e la memoria degli uomini rammentavano di Ferdinando, sembravano corretti; e molte qualità di Gioacchino (la bontà, la clemenza), per i suoi recenti errori, scomparse. Le violenze e le asprezze poco innanzi adoperate contro il brigantaggio, non si poteva riadoperarle contro la setta de’ carbonari, perocchè il brigantaggio esercitava misfatti, la setta chiedeva leggi; ed erano briganti i più tristi della società, carbonari gli onesti: la carboneria si depravò col crescere, ma in quel tempo era innocente; venne richiesta o approvata dal governo, avea riti e voti benefici e civili. I più amici di Gioacchino, i più legati alla sua fortuna, non settarii, non torbidi, lo pregavano a disarmare la carboneria con gli usati modi di pubblicità e di lusinghe, come già in Francia e tra noi erasi praticato per la massoneria; ma lo sdegno, potente in lui, lo tenne saldo nel mal consiglio.