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LIBRO SETTIMO — 1814. 133

patria che da nemici abbandonarono, nè stima pubblica, nè la stessa misera quiete dell’oscurità, giacchè troppo noti per fama ed opere. Or io vi dimando per essi la cittadinanza; il concederla a fia premio a’ servigi che han reso alla nostra patria, pietà del loro stato, condiscendenza alle mie promesse.» E ciò con amorevole gesto proferito, più altieramente soggiunse. «È libero ad ognuno il rispondere.»

Il qual discorso avrebbe ottenuto pieno e sollecito effetto, se il continuo simulare del re non avesse scemata fede a’ suoi detti, e se la quistione di cittadinanza non legavasi all’altra maggiore della costituzione, che aveva tra’ consiglieri non pochi sostenitori, e contrarii i Francesi amici del re, i nomi dei quali non dubitavasi che fossero nel novero de’ ventisei. Due consiglieri più animosi sommessamente risposero, che, non essendo in facoltà del consiglio mutare lo statuto di Bajona, si tratterebbe della cittadinanza de’ ventisei per le vie di legge; che intanto pregavano il re con figliale rispetto ed amore a riflettere ch’egli aveva non solamente promesso ma giurato a cinque milioni di soggetti il mantenimento dello statuto; che in quei tempi di politica difficilissima rivocare i giuramenti e le promesse era troppa fidanza nella rassegnazione dei popoli, e che dopo dolori tanto vivi al suo cuore quanto profittevoli al regno, non volesse perderne il frutto, e adombrarne il merito per fievoli cagioni. Uno dei ministri perla opposta parte, in sostegno de’ voleri del re, lungamente parlò, ed ebbe vivaci risposte; l’accesa disputa si prolungava, ma il re la interruppe, dicendo: «Oramai le varie sentenze sono manifeste; si dicano i voti.» Di ventotto consiglieri, ventitrè furono per la sentenza del re, gli altri cinque per la opposta; e questi, mal veduti dal principe, erano dal pubblico laudati.

Vittorioso il re, propose di concedere cittadinanza ad ogni straniero che avesse militato nel nostro esercito; ed un suo ministro aggiungeva che per merito d’armi ogni stato diviene patria a’ guerrieri. I due consiglieri, sfortunati nel primo arringo, opponevano che passato il tempo della sgherreria militare, e le armi stesse divenute civili, il più onorevole officio era servir la patria combattendo; ma il più vergognoso vendere altrui, o per oro o per falsa gloria, la vita. Eppure in quell’adunanza di cittadini e di onesti, non per sentimento ma per servitù, il voto del re fu secondato da’ ventitrè medesimi della prima sentenza. E passando a’ nomi degli ammessi, la lista de’ ventisei fu trovata di trentotto, e quindi estesa i piacimento; l’altra de’ militari, lunghissima; non partirono che i volontarii e i più miseri: il re, che in consiglio era entrato modesto, ne uscì altiero; e que’ fatti, divolgati, accrescevano desiderio di porre alcun modo al supremo potere.

LXX. Le riforme proposte per lo esercito non furono seguite,