Saggio sopra la rima

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SAGGIO

SOPRA LA RIMA




Quantunque moltissime sieno le cose che insieme concorrono a formare il dolce incantesimo della poesia, quello che a’ giorni nostri è di maggior diletto, e piglia sopra ogni altra cosa l’universale, è la rima, o sia il ritorno delle medesime desinenze alla fine del verso. La rima era ignota, come fonte di piacere, agli antichi poeti che cantarono nelle lingue armoniose della Grecia e del Lazio; anzi era da esso loro fuggita con eguale studio, che la è cercata da’ moderni. Ma quando insieme con romano imperio venne a decadere ogni buona cosa, che la lingua latina fu imbastardita da’ Goti, la rima entrò nel mondo insieme col duello e col gius feudale, come un dilettoso contagio, dice il Salvini1, che da’ versi leonini si stese a tutte le lingue volgari2. [p. 378 modifica]

In alcune di loro ella è talmente necessaria al verso, che senza la rima la poesia si viene del tutto a confondere con la prosa, e nulla ritiene di sua maggioranza e dignità. Così affermò tra gli altri il presidente Bouhier avvenire della lingua francese, quando fu tentato per alcuni d’introdurre anche in quella i versi sciolti della rima3; così pure avvisato avea il Fenelono, il quale meglio di ogni altro esaminò e conobbe il genio di una favella tanto da esso nobilitata4: e uno stesso giudizio, atteso la poca armonia, la troppa regolarità, uno andamento sempre uniforme, e altri simili difetti di quella lingua, aveva recato nell’arte sua quel sovrano artefice del Voltaire.5 [p. 379 modifica]

A così fatta necessità non va già sottoposta la lingua italiana figliuola primogenita della latina, e congiunta di qualche affinità con la greca. In essa lingua varia sonorità di parole, una prosodia non muta ma espressa, e libertà di sintassi non picciola; essa riceve volentieri le figure grammaticali, è ricca di vocaboli e di maniere, non manca di ardiri, ha un dizionario tutto poetico:

Omnia transformat se se in miracula rerum6:

[p. 380 modifica]lo fa sì, che ne’ nostri versi, anche senza la rima, senza quella magia di orecchio, le fattezza si ravvisino del poeta. Anzi alcuni l’avrebbero voluta sbandire intieramente da’ versi italiani, dicendo ch’ella è cosa violenta e stomachevole: e non per altra ragione il maggior nostro poeta inventò le terzine, che per nascondere quanto più poteva essa rima; che in assai maggior numero sono i mali che i beni, ond’essa è madre: e mettono in cielo il Trissino, il quale primo fra tutti ne mostrò l’esempio di poterne far senza, e bravamente a purgar ne venne la nostra poesía7.

Certa cosa è, che secondo che le nazioni [p. 381 modifica]ebbero maggior vanto di coltura, e delle isquisitezze della poesia furono più vaghe, non impedirono con soverchie difficoltà il poeta, anzi cercarono quanto fu possibile di liberarnelo, onde meglio potesse tener dietro alla natura ed al vero nella imitazione che avea da farne col verso. I Greci erano astretti bensì nella composizione de’ loro versi alla quantità delle sillabe e al numero de’ piedi; ma oltre che potevano combinare in differenti maniere essi piedi, singolarmente nello esametro o sia eroico, il più usitato e principe de’ loro versi, aveano in loro ajuto una falange di figure grammaticale, il metaplasmo, la prostesi, l’aferesi, la sincope, la epentesi, l’apocope, l’antitesi, la metatesi, la sinalefa, la paragoge, l’anadiplosi8; potevano incastrare qua e là quelle loro particole riempitive di niuna significazione, ma di gran comodo al poeta; era loro lecito di servirsi di varj dialetti, jonico, dorico, eolico, attico, conforme al bisogno; mercè le quali cose tutte venivano a cangiare, secondo che loro tornava, la quantità delle sillabe, mutilavano le parole, le slungavano a loro piacimento, le rendevano di suono più [p. 382 modifica]o meno dolce, davano al verso quello andamento e quella armonia che meglio rendesse le immagini delle cose, e nello sdegnosissimo loro orecchio dovesse meglio suonare. Così avea provveduto quella dilicatissima nazione al comodo de’ loro poeti. I Latini, nazione non tanto dilicata, concedevano loro assai meno di libertà: e da ciò nasce, per avventura, che appariscano più cose in Virgilio che in Omero, dette soltanto in grazia del metro. Le nazioni moderne imbarbarite dai Goti, da cui discendono, si sottomisero nelle loro lingue alla rima, la quale è senza dubbio la più dura catena con cui legare si potessero i poeti9; benchè il suono ch’ella rende, non sia il più disgustoso nè il più aspro: al che fece anche la via l’uso delle simili desinenze fattosi comune appresso i Latini al tempo che declinò la eloquenza, e alla naturale nobiltà dello stile succedette in ogni cosa l’affettazione.

Non è la rima di molto dissimile natura dallo acrostico, per cui conviene incominciare i versi con certe date lettere, e da simili altri barbarismi, o vogliam dire studiati giocolini: e parve che il bello della poesia si riponesse tutto nelle difficoltà che nella composizione dei versi si avessero da vincere. Talchè [p. 383 modifica]non si può recare in dubbio che da molte ragioni fiancheggiata non venga la opinione di coloro che dalla volgar nostra poesia sbandire ne vorrebbero la rima: tra le quali non tiene certamente l’ultimo luogo il vedere che, colpa la rima, uno dice non quello che vuole, ma quello che può10,

Poscentique gravem paersaepe reddit acutum;

il vedere ch’ella trasporta sempre il poeta più là che non gli sarebbe mestieri, che troppo spesso lo guida fuori del retto sentiero,

Sì che molte fiate
Le parole rimate
Ascondon la sentenza,
E mutan l’intendenza;

per non dire col poeta francese:

La raison dit Virgile, et la rime Quinaut.

In effetto quanti versi superflui o posticci, quante viziose circonlocuzioni, quante espressioni improprie, quanti epiteti inutili o flosci, quante parabole bolse, come disse colui, e di sentenze vote, che ci stanno solamente per riempitura, non si trovano ne’ nostri poeti [p. 384 modifica]e ne’ forestieri, in quelli eziandio che sono tenuti i più favoriti dalle muse, e signori dispotici della rima?

...Usque adeo de fonte leporum
Surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat:

cose tutte cagionate dall’esser necessariamente obbligato il poeta a prendere un assai largo giro, per far entrare nel suo discorso quelle tali parole, onde i versi vengano a terminare per appunto con tali cadenze o rispondenze11. Un verso si fa per il senso, dice un valentuomo, [p. 385 modifica]e un altro in grazia della rima12. Se già uno non si facesse lecito di coniar nuove parole, e anche di mutar la significazione e il valore di quelle che han corso, come dice un antico comentatore, se pure se gli può prestar fede, aver fatto Dante, a cui egli asserisce aver udito dire, che mai la rima nol trasse a dir altro che quello ch’avea in suo proponimento; ma che egli molte e spesse volte facea i vocaboli dire nelle sue rime altro che quello ch’erano appo gli altri dicitori usati di sprimere13; cosa troppo strana e difficile, di cui niuno uomo al mondo, e sia pur egli dotto e tenuto in venerazione dalla moltitudine quanto si vuole, potrà venire a capo giammai. Ciò vuol dire solamente che di grandissime licenze si prese Dante, come ognuno in leggendo la sua Commedia se ne può accorgere tuttavia: nel che noi avremmo il gran torto a volerlo imitare, non essendo altrimenti permesso a’ giorni nostri di far quello che concedere potevasi per avven[p. 386 modifica]tura al padre, al re, al creatore della nostra lingua.

Che se la rima non costringesse il poeta a servirsi delle voci e di espressioni improprie, a slungar di soverchio il sentimento, o cadere nol facesse in simili altre sconvenevolezze, troppo è difficile ch’essa non se ne renda in certo modo tiranna, per quello che si spetta alla retta collocazione delle parole: e da essa collocazione pur dipende in gran parte l’energia, o vogliam dire l’effetto della prosa egualmente che della poesia. Quello che opera in grande la retta disposizione delle differenti parti del discorso, onde l’esordio ha da precedere a cagion d’esempio la narrazione, e così del resto, quel medesimo opera a un dipresso in ciascuna parte del discorso, anzi in ciascun periodo e in ciascun membretto, la retta collocazione delle parole, onde l’animo dell’uditore qua sia come preparato a quello ha da venire dipoi, là sia tenuto sospeso, in altro luogo venga assecondato, e in altro sia come colpito, quando meno si aspetta, e mosso in un subito; e sì venga a ricevere ad ogni istante quella impressione che alla intenzione di chi parla meglio risponda. Ora egli è un grandissimo che, se la misura e l’armonia del verso non costringa il poeta a dispor le parole in quell’ordine che non è di tutti il più acconcio alla intenzione di chi parla e il più naturale; ed è quasi che impossibile che del tutto non lo sconvolga la necessità della rima aggiunta all’obbligazione del metro: talchè chiunque cerca veramente di [p. 387 modifica]scrivere con aggiustatezza e con proprietà, ben può ripetere con lui,

. . . . . . . . . . . . la prima
Tra i tormenti è la colla, e poi la rima

Nè si vuol dissimulare, come la rima ti fa bene spesso presentire i concetti del poeta: il che se talora può esser cagione di diletto, parendo all’uditore di esser egli medesimo l’autore del concetto ch’egli indovina; suole il più delle volte esser anzi cagione di noja, non incontrando certamente così spesso che uno stia ad udir volentieri quello che sa innanzi tratto gli si ha da dire.

Where’ee’er yon find the cooling western breeze,
In the next line it whispers thro’ the trees,
If crystal streams with pleasing murmur creep,
The reader’s threaten’d (not in vain) with sleep14.

Di tali parole affini che nota il Pope nella sua lingua, e colle quali i poeti inglesi si rendono nel rimare stucchevoli, non ne è carestia nelle altre lingue. Tra i Francesi, se il verso è terminato con la parola ame, ci è da scommettere che il susseguente sarà suggellato con flame: e tra noi, se alla fine del verso si trova amore, aspettati pure che nel terzo ti ferisca il cuore, o un qualche aspro ti dia fiero dolore. La rima in tal caso è legittima, dice graziosamente Fontenelle; ma ella è quasi un matrimonio: e le parole sono annojate esse medesime di doversi far sempre compagnia15. Incontra alcuna volta, è vero, che [p. 388 modifica]la obbligazione della rima fa uscire il poeta in qualche peregrina espressione, o in qualche pensiero condito della novità; e che alla fine del verso gli potrà riuscire di accozzare insieme parole che non sogliono tanto spesso trovarsi in compagnia, e sieno, s’è lecito il dirlo, quasi un riscontro di amanti. Ma ciò avviene pur di rado. E di quanti disordini non ha colpa la rima per una espressione felice, per un buon pensiero, di che ella talvolta può aver merito?

E in tanto non sempre ci accorgiamo delle sconciature ch’ella cagiona, diciam così, ne’ parti poetici, in quanto che non vediamo così per appunto che cosa si avesse proposto di dire, o pure avrebbe dovuto dire il poeta. Ma dove elle si mostrano manifestamente agli occhi di tutti, è nelle traduzioni, colle quali l’interprete non altro certamente si prefigge che di rendere puntualmente il testo, e di ritrarre nella propria lingua quello che altri ha detto nella sua: di modo che le traduzioni chiamare si potrebbono il cimento decisivo, l’experimentum crucis della rima. Paolo Beni ne’ suoi discorsi porta l’esempio di un luogo di Virgilio che viene stirato a un doppio numero di versi, tradotto in rima dal divino Dolce16: e di simili altri esempi se ne potrebbono cavare dal volgarizzamento delle Metamorfosi dell’Anguillara, benchè Ovidio non sia altrimenti ristretto e sugoso, come è Virgilio. Ma perchè poco concludenti dirannosi le prove cavate da’ [p. 389 modifica]poeti mediocri, si paragoni quel famoso luogo dell’Ariosto,

La verginella è simile alla rosa ec.

e singolarmente quel tratto,

La vergine che il fior di che più zelo
Che de’ begli occhi e della vita aver de’
Lascia altrui côrre ecc.

coll’

Ut flos in septis secretus nascitur hortis etc.

di Catullo da cui è tolto; e ben si vedrà quanto la rima abbia sformato le grazie di quel leggiadrissimo originale. Il gran Cornelio recando in francese quel forte passo della Medea di Seneca

Ias. Objicere crimen quod potes tandem mihi?
Med. Quodcumque feci;

lo disforma anch’egli traducendolo con i seguenti versi:

Med. Oui, je te le reproche et de plus. . . .
Jas. . . . . . . . Quels forfaits?
Med. La trahison, le meurtre, et tous ceux que j’ai faits.

Nè più felicemente l’esatto Racine tradsse da Euripide quel tragicissimo luogo della Fedra

φαι. Ος τις πόθ οὗτος ὁ τῆς Ἀμαζόνος?
αιν. Ἰππόλυτον αὐδᾶς; φ. σοῦ ταδ᾽ οὐκ ἐμοῦ κλύσες.

Phedr. . . . . Tu connois le fils de l’Amazone,
          Ce prince si longtems par moi même opprimé.
Æn. Hyppolite, grands dieux!
Phedr. . . . .C’est toi qui l’a nommé:

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dove il verso secondo Ce prince ec. fatto in grazia solamente della rima, non ci fa la figura che di padre compagno, come di somiglianti versi diceva graziosamente Boileau. E che si ha egli da dire di quel lago di parole in cui il La Fontaine ha annacquato un solo tratto di Orazio?

Naturam expellas furca tamen usque recurrit,17

dice il poeta latino, e il francese parlando del naturale che a una certa età ha già preso la sua piega,

En vain de son train ordinaire
On veut le désaccoutumer:
Quelque chose qu’on puisse faire,
On ne sauroit le réformer.
Coups de fourches, mi d’étrivières
Ne lui font changer de manières:
Et fussiez vous embattonez,
Jamais vous n’en serez les maîtres.
Qu’on lui ferme la porte au nez,
Il reviendra par le fenêtres18.

Non altro convien dire, se non che la obbligazione del trovare simili desinenze ha tanto traviato colui, il quale nelle sue favole intendeva di mostrare che delle muse francesi non sono punto nimiche le grazie laconiche.

Γυμνὴν εἶδε Πάρις με, καὶ Ἀγχὶση, καὶ Ἀδώνις,
     Τοὺ τρεῖς οἶδα μόνους. Πραξιτέλης δὲ πόθεν;

è un gentilissimo distico dell’Antologia sopra [p. 391 modifica]la Venere di Prassitele; che, per averlo voluto vestire di rime, fu contraffatto dal celebre Addisono, quasi egli avesse messo una gonnella inglese sulla greca nudità dell’originale:

Anchises Paris, and Adonis too
Have seen me naked, and expos’d to view
All these I frankly own without denying:
But where was this Praxiteles been prying?19

E più ancora egli ha contraffatto nella traduzione quei quattro spiritosissimi versi di Ovidio;

Mars videt hanc, visamque cupit, potiturque cupitâ,
     Et sua divina furta fefellit ope.
Somnus abit: jacet illa gravis, jam scilicet intra
     Viscera romanæ conditor urbis erat.
The god of war beheld the Virgin lye
The God beheld with a lover’s eye,
And by so tempting an occasion press’d
The beauteous Maid, whom he beheld, possess’d:
Conceiving, as she slept, her fruitful womb
Swell’d with the founder of immortal Rome:

i quali versi di Ovidio furono in parte imitati dal Poliziano co’ que’ suoi:

Quasi in un tratto vista, amata, tolta
Dal fiero Pluto Proserpina pure.

Veggasi in quanta moneta, a parlar così, venga scambiato nella tanto celebre versione del Pope quel luogo di Omero espresso da Virgilio coll’

Annuit, et totum nutu tremefecit olympum,

da Ovidio col qui nutu concutit orbem, e da [p. 392 modifica]Orazio col cuncta supercilio moventis20. Il Dryden nel proemio alla versione da lui fatta dell’Eneide paragona la rima con un vento transversale che poco o assai fa sempre deviare dal segno la saetta poetica. Tra i molti esempi che a confermazione di tal suo detto cavare si potríano dalla sua stessa versione, basti quello del quarto:

Naviget, hæc summa est, hic nostri nuntium esto.
Bid him with speed the Tyrian Court forsake,
With this command the slumb’ring warrior Wake.

Quanto mai la lungaggine del senso causata dall’obbedienza della rima non fa perdere di dignità al comando di Giove tanto risoluto e vibrato nell’originale? La quale lungagine affatto contraria allo spirito della Eneide domina generalmente in tutta la versione; non ostante i monosillabi e le ellissi di che abbonda la lingua inglese, e non ostante quella sua lincenza di mutilar le parole. E forse con non meno di verità che di modestia il Dryden ha posto in fronte a tale sua opera quella epigrafe cavata dallo stesso Virgilio:

. . . Sequiturque patrem non passibus æquis,

che staría pur bene in fronte a tutte le versioni, massimamente alle rimate. [p. 393 modifica]

Quello che detto si è delle traduzioni, appropriare si può egualmente alle commedie e alle tragedie, se astrette sieno dalle rime. Che altro finalmente sono le varie scene delle tragedie e delle commedie, se non versioni, dirò così, dei sentimenti del cuore dell’uomo, quando egli è preso da terrore o misericordia, da invidia, da avarizia, da vanagloria, che si espongono nelle luce del teatro? Anche quivi vengono ad esser manifesti i torti che fa la rima (cosa che quasi sempre apparisce studiata) alla giusta espressione del sentimento, alla verisimiglianza e naturalezza, che è l’anima di tali composizioni. Nè da simile tassa vanno esenti i primarj ingegni; non lo stesso Dryden, a cui fu rimproverato di aver snervato con la rima e ridotto al niente la tragica poesia21; non il gran Cornelio che fa talora non lieve torto alla sublimità de’ pensieri, allungando, colpa la rima, il sentimento; non Molière, più grande ancora, che a luogo a luogo è costretto diluire per la medesima ragione in molti versi il frizzante e il vivo del naturale22. Delle quali [p. 394 modifica]cose ne possono essere giudici gl’indotti egualmente che i dotti; perchè nelle composizioni teatrali la imitazione del vero, se giusta o no, si fa agevolmente da ognuno sentire, non parlando quivi la poesia il linguaggio degli Dei, del quale non si ha che uno assai vago e confuso concetto, ma parlando il linguaggio degli uomini, del quale ognuno ha una giusta idea; e i sentimenti dovendo venire a seconda di ciò che dettano le passioni e gli affetti dell’animo.

Da tanti mali che siamo andati divisando, de’ quali è cagione la rima, pare che si dovesse pur conchiudere che di quel dilettoso contagio fosse da purgare in tutto la nostra poesia: al che fare ne dee aggiugnere animo anche la nostra lingua, la quale per la bellezza sua fa che i nostri versi, come abbiam detto, possano stare e sostenersi con dignità senza il puntello della rima. Ma si dovrà ella sbandire e proscrivere da ogni sorta di componimento? La [p. 395 modifica]nostra lingua può ella comportarlo? Ciò mi sembra meritare una qualche maggior considerazione: e intanto che altri sopra di ciò componga un volume, io mi farò ad esprimere in brevi parole i miei pensamenti.

E incominciando dal sonetto e dalla canzone, antiche e solite armi del nostro esercito poetico, da tali componimenti pare non sia da sbandire per niun conto la rima. Nelle canzoni anche più libere o irregolari, come sarebbono quelle del Guidi, ella può se non altro contribuire a fermar la mente in qualche passo forte o sentenzioso: e dal sonetto non si vuol levare qualunque sia difficoltà; stando appunto la bellezza di quello nello aver chiuso felicemente il pensiero in un dato numero di versi corrispondentisi tra loro, siccome prescrisse Fra Guittone d’Arezzo, con tal numero e posizione di rime; nello aver vinte le grandissime difficoltà onde è stretto; quasi come la maggior bellezza della rosa sta nello esser uscita d’in mezzo alle spine che la circondano. E già disse piacevolmente Boileau, avere un tratto il Dio dei versi inventato il sonetto per fare un mal gioco ai poeti, perchè si dessero veramente alla disperazione.

Ma più generalmente parlando, nei componimenti fatti di piccioli versi non può cader dubbio, a mio credere, che non ci abbia da aver luogo la rima. E la ragione parmi essere questa: per quanti vantaggi possa avere la nostra lingua sopra alcuna delle moderne, non è stato però possibile di rinovare nè meno in essa l’antico metro, e di ridurre i versi [p. 396 modifica]volgari sotto alla misura dei latini e dei greci. Di lunghe e di brevi, di dattili e di spondei non è certamente scarsa la italiana favella: e nei componimenti detti endecasillabi ci è dato di rendere assai bene una immagine degli endecasillabi latini:

Cui dono il lepido nuovo libretto
pur or di porpora coperto e d’oro?

Ma la prosodía non essendo tra noi ridotta sotto a regole certe e stabili, poco più là si può procedere: e tutte quelle imitazioni che nella nostra lingua si vorranno da noi fare dei metri antichi, non d’altro avranno sembianza che di un eco imperfetto e confuso. Il dotto Leonbatista Alberti che tanto cooperò a far risorgere la antica architettura, tentò altresì di far quasi lo stesso colla poesia. Provò con quella sua epistola che incomincia:

Questa pur estrema miserabile pistola mando
A te, che spregi miseramente noi,

di emulare i versi esametri e pentametri; ma vani, come ognun sa, furono gli forzi di lui e del Tolomei che tentò di poi la medesima via; ed ebbero quasi una fortuna con quelli che furono dipoi fatti nella lingua francese dal Desportes, e dal Sidney nella inglese23. [p. 397 modifica]

Dee adunque conchiudersi che la misura de’ nostri versi sia determinata non dalla quantità, o sia dal ritmo, ma dal numero delle sillabe e dalla posizione degli accenti. Ora, quantunque grato all’orecchio, mercè di simili artifizj, riesca il suono de’ nostri piccioli versi, non si può per conto niuno mettere in confronto con la regolata musica che dalla quantità risultava delle sillabe, e dalla combinazion varia de’ piedi usati negli asclepiadei, nei gliconj, negli adonj e in altri simili metri degli antichi: tanto più che la cesura de’ piccioli versi dee precisamente cadere in un dato luogo, e non può generare per sè diversità alcuna di suono. Tutto ciò conviene ingenuamente confessare, per rendere al vero quell’omaggio che se gli deve; lasciando a quel bravo gentiluomo di S. Evremont il francamente asserire, come le lingue moderne nulla hanno da invidiare alle antiche; e segnatamente che i versi francesi sono più armoniosi dei latini24.

Un’altra sorgente di diletto nella nostra lingua, e sopra tutto nella nostra versificazione, è il non esserer noi astretti nella dizione a seguir passo passo l’ordine grammaticale, e il potere con bel disordine traspor le parole. Di tal privilegio che fa il pellegrino della [p. 398 modifica]espressione, e grazia le acquista non picciola, godiamo, non ha dubbio, noi altri Italiani, che è negato ai Francesi; ma per non essere varie appo noi le desinenze de’ casi che terminano tutti allo stesso modo, e soltanto sono tra loro distinti dal segnacaso, è ristretto tal privilegio a certi confini. E però la nostra lingua non si modifica per questo conto in quella tanta varietà che da essa trasposizione delle parole ricevono la greca e la latina. Dal che ne nasce che le cose più semplici e comuni, solito argomento de’ piccioli componimenti, ella non può atteggiarle colla trasposizione, come non può colorirle coll’armonía in tanti modi, nè tanto nobilmente e graziosamente esprimerle, quanto potean fare i Greci e i Romani, ai quali diedero le muse di parlare con bocca più rotonda. I componimenti adunque fatti di simili versi, se non sono rimati, danno troppo facilmente nel prosaico, quanto all’atteggiamento ed al numero, come potrà ognuno conoscere nella tradizione che ha tentato il Salvini di Anacreonte in versi sciolti; e la rima è tanto necessaria a tali composizioni, quanto l’acconciatura e i nei sono necessarj a distinguer quelle donne che per la loro aria e per il loro portamento verrebbono ad esser confuse con le plebee.

A tutto questo si potrebbe ancora aggiugnere, che, il carattere proprio di tali composizioni essendo il più delle volte quello della leggiadria, anche da questo lato male non si confà loro il ritorno di quella barbarità della rima, [p. 399 modifica]come la chiamò un Inglese25. Quanto di grazia non si torrebbe alla seguente composizione del Chiabrera:

Del mio sol son ricciutegli
I capegli,
Non biondetti, ma brunetti;
Son due rose vermigliuzze
Le gotuzze,
Le due labbra rubinetti ec.;

a quella del Rolli:

E. Sai tu dirmi, o fanciullino,
     In qual pasco gita sia
     La vezzosa Egeria mia,
     Ch’io pur cerco dal mattino?
P. Il suo gregge è qui vicino;
     Ma pur dianzi a quella via
     Già l’ho vista, e la seguía
     quel suo candido agnellino.
E. Nè v’er’altri che l’agnello?
P. sovraggiunsela un pastore.
E. Ahi fu Silvio.
P.Appunto quello:
     Ma tu cangi di colore?
E. Te felice, o pastorello,
     Che non sai che cosa è amore:

quanto di grazia, dissi non si torrebbe a somiglianti composizioni, e alle canzonette sovra tutto di quel felice ingegno del Metastasio chi ne togliesse via la rima? Oltre di che i [p. 400 modifica]quadretti che presentano simili composizioni, sono assai bene circoscritti dal chiudere che fa la rima il sentimento ogni pajo o due di versetti.

Non così procede la cosa nei lunghi componimenti fatti con versi maggiori o endecasillabi. Grandissima è la varietà che nasce negli endecasillabi dal cader della cesura ora in un luogo ed ora in un altro: e la maggiore loro estensione fa sì ch’essi possano ricevere molte parole di varia misura e di varia sonorità, la cui differente combinazione, unita alla differente cesura del verso, risponda in certo modo alla differente mescolanza de’ dattili e degli spondei nello esametro, o almeno metta nel suono de’ nostri versi una notabilissima diversità. Non corre certamente più divario tra que’ due versi di Virgilio:

Ferte citi ferrum, date tela, scandite muros.
Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit,

che corra tra que’ due di Dante, che da lui tolse lo bello stile:

Surgono innumerabili faville,
E caddi come corpo morto cade.

E chiunque ha studiato quel nostro poeta, in molte cose veramente sovrano, ben conosce quanto egli ha saputo variare il numero del verso, e in quante differenti forme si può ben dire, non ci essere tipo di verso, di cui non si trovi l’archetipo in quel suo tanto elaborato poema sacro,

Che per più anni lo avea reso macro.
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La gravità in oltre che è propria de’ componimenti, per esempio eroici, sdegna la rima, la quale in essi diviene quasi che una puerilità; come quella che è una bellezza soltanto relativa, un giocolino di parole di simile terminazione, che non fa bello il verso in sè, e di cui altri non si avvede che alla finale de’ susseguenti; e i quadri grandiosi che ci presentano i poemi, male possono esser contenuti e campeggiare dentro al ristretto giro delle terzine ed anche delle ottave.

Leggesi a tal proposito una assai strana diceria degli eruditi zibaldoni di un critico del secolo decimosesto, i quali furono novellamente dati in luce così alla rinfusa; e tal loro pubblicazione è forse uno degli infiniti abusi che sonosi fatti dalla stampa. La rima, dic’egli, fa più bello il verso volgare del greco; perchè la rima non è ornamento o forma del verso in sè solo considerato, ma comparato e proporzionato ad altri versi; la qual proporzione non ha il verso greco e latino. La rima incatena ed unisce il poema volgare, come l’armonia e il ritmo delle sillabe fatta con proporzione unisce ed incatena i versi particolari; donde finalmente conchiude, esser la rima il più nobile e migliore ornamento che ricever possa la poesia26. Con le quali ragioni si verrebbe forse anche a provare, qualmente i versi leonini, aborto [p. 402 modifica]poetico dei secoli più barbari, sono meglio formati e più belli che i versi non sono della Georgica e della Eneide. L’unire e il concatenare che fa la rima il poema volgare, ha in sè troppo di simmetria, degenera nella monotonia. Le figure dei quadri del poeta vengono, per dire così, ad avere quella uniformità negli atteggiamenti e nella disposizione, che avevano le figure dei maestri, i quali dipinsero appunto in quell tempo che fu meglio coltivata la rima. Essa non permette al parlare il suo libero corso, nè quello intralciamento d’uno in altro verso che produce nella poesia un così bello effetto, e si può bene rassomigliare a quello che dalle linee che s’incrocicchiano inseieme e dalle serpeggianti vien nella pittura prodotto. In tal modo avvisano non coloro che freddamente considerano le regole della versificazione, ma quelli che sanno far versi con calore di spirito. Il Chiabrera asserisce che allora solamente la nostra poesia eroica sarebbe giunta alla perfezion sua, ch’ella fosse trattata col verso sciolto che è il suo proprio. Nella medesima opinione, egli aggiugne, ch’era venuto il Tasso, dopo conosciutoi per prova gl’inconvenienti delle ottave e della rima: ed afferma in oltre come gli avea detto quel gran poeta, di volere scrivere un poema in versi sciolti, lo che nelle Sette Giornate egli mandò ad effetto dipoi27: [p. 403 modifica]e ciò perchè l’endecasillabo sciolto non istorpia o snerva le idee come il legato dalla rima; perchè non impedisce, ma agevola la loro concatenazione, e quell’ondeggiamento sì vario che rende il verso così dilettevole, e nella grandezza e maestà lo rende pari alla prosa. Finalmente nel trattato del Poema eroico ne dice egli medesimo che l’armonia delle rime conviene più tosto alla piacevolezza degli affetti amorosi, che allo strepito dell’armi28. Ma molto più a lungo sopra tale materia ragiona il padre di lui Bernardo Tasso. Non era punto sua volontà, egli scrive al sig. don Luigi d’Avila29, di fare in stanze il poema dell’Amadigi, parendo a lui, come a molti eziandio pareva, che non fosse rima degna, nè atta a ricevere la grandezza e dignità eroica. Delle tre qualità, egli séguita a dire, che all’eroico si convengono, gravità, continuazione e licenza, la stanza ne è totalmente privata: nè può il poeta, avendo di due in due versi a rispondere alla rima, esser grave, impedito dalla vicinità della rima, la qual piuttosto causa dolcezza che gravità: nè può a sua voglia, come Virgilio, Omero e gli altri buoni scrittori hanno fatto, con la clausola or lunga or breve, come meglio gli torna comodo, andar vagando: anzi gli è necessario, se possibil [p. 404 modifica]fosse, di due in due versi la sentenza terminare: nè può medesimamente, il suo cominciato viaggio continuando, quanto gli aggrada camminare; anzi gli è necessario d’otto in otto versi, a guisa di affaticato peregrino, riposarsi. E più apertamente ancora nel proemio alle sue poesie dichiara egli al guerra alla rima. Impugna quivi la opinione di coloro che tenevano la rima esser tale al verso volgare, quali sino i piedi al latino; mostra gl’inconvenienti di che essa è sorgente; la chiama un ornamento puerile, e finalmente la qualifica di prosuntuosa, dandosi a credere che in lei sola tutta la speranza si debba riporre, e tutta la fortuna della italiana poesia30. Così Bernardo Tasso, uomo di gran valore, alla cui maggior fama niente è di più nemico, che il maggior ingegno del figliuolo.

Che se volessimo cercare autorità ed esempj anche fuori d’Italia, potremmo allegare il giudizio di un sensatissimo critico francese, il quale non fa paragone alcuno del diletto che nasce dall’armonía, al diletto che nasce dalla rima, qualificando l’una di splendor durevole, l’altra di lampo subitaneo e passeggiero31. [p. 405 modifica]Un altro grandissimo critico ancora e scrittore della medesima nazione non tratta niente più favorevolmente la rima, a sostenere la poesia francese per altro tanto necessaria, quanto l’antitesi a sostenere la prosa32. Fra gl’Inglesi potremmo allegare il Dryden33 e il conte di Roscommon34, i quali, benchè maneggiatori della rima felicissimi, convennero con Gravina, con amendue i Tassi e con Chiabrera, ch’ella è un’affettazione puerile che i gravi poeti hanno da lasciare da banda. E un altro valentuomo loro compatriota non ha difficoltà di paragonarla alla gruccia, che ajuta [p. 406 modifica]e regge il debole, al forte è d’impaccio35. Ma per tutte le autorità forestiere quella pur bastare ci dee dello inglese Omero. Credette egli che la rima non fosse altrimenti nè un necessario aggiunto, nè un ornamento della poesía, ne’ lunghi componimenti specialmente; ma cosa atta soltanto ad inverniciar cose triviali, a sostenere una zoppa versificazione: dalla consuetudine aver essa la voga, ed esser fatta, più che altro, per recare impedimento e noja a’ veri poeti. Non nel suono stucchevole di somiglianti finali pensò egli che consistesse la musica della poesia, ma nella conveniente quantità delle sillabe, e nel saper variamente condurre d’uno in altro verso il sentimento: e però dietro alle tracce di poeti italiani e spagnuoli di grandissimo conto si gloria di aver dato un esempio della libertà antica, affrancando il poema eroico dalla schiavitù della rima36. In verso sciolto, come a [p. 407 modifica]tutti è noto, egli prese a cantar la disubbidienza e la caduta del primo uomo, e dettò quel poema, al quale se altri forse ricusa, dice l’Addisono, il nome di epico, gli sarà forza accordare il titolo di divino.

Sembra però assai naturale, siccome abbiamo per lo addietro ragionato, che la rima si abbia a ritenere ne’ componimenti composti massimamente di piccioli versi, la essenza dei quali sta nella leggiadría; e si debba al contrario sbandire dai componimenti composti di versi endecasillabi, e dai poemi eroici, a’ quali è consecrata la gravità della tuba.

Per non dissimili ragioni da quelle che abbiamo sino ad ora esposto, si dovrà medesimamente sbandirla dai poemi didattici, dalle [p. 408 modifica]epistole e da’ sermoni che già noi siam soliti scrivere in verso sciolto, e che dagli antichi erano trattati col medesimo genere di verso che la poesía eroica.

La naturalezza poi che esigono grandissima le composizioni teatrali, di cui come si è detto, giudice competentissimo è il popolo, vuole ella altresì che da esse venga esclusa la rima, come noi appunto siamo usati di fare; se non che nelle opere non ci si vuol guardare tanto per la sottile: e la rima incastrata a luogo a luogo ne’ recitativi e con disinvoltura, come fa quell’ingegno armonico del Metastasio, viene a dare un certo maggior condimento alla musica.

Molti ci saranno per avventura, i quali dalle cose sino ad ora discorse rimarranno convinti, e nulla avranno da opporvi; ma parrà loro che, tolta da un qualche poetico componimento la difficoltà della rima, troppo si venga a rendere agevole il comporre in versi, e si venga a fare troppo familiare e comune il sacro linguaggio delle Muse. Ora questi come bene zelanti e teneri dell’ordine de’ buoni studj ben meritano di essere da un così fatto timore assicurati. Pochi saranno sempremai, sia che altri prenda a scrivere in verso rimato, ovvero in sciolto, i buoni poeti: e una tal verità viene ad essere comprovata, come ad ognuno può esser manifesti, dalla giornaliera esperienza. ma a pochissimi è dato, direm noi con eguale verità, di aver tanta lena che basti da salire sulle cime del Parnaso senza l’ajuto del [p. 409 modifica]Ruscelli37. Il vero paragone di un poeta, asserisce uno accreditatissimo scrittore, pare esser dovessero i versi puri e spogliati dalla maschera della rima38. In effetto, dove essa copre o la bassezza o la improprietà della espressione, o non ci lascia avvertire i tanti altri difetti di che ella ha colpa39, e impetratum est a consuetudine, ut suavitatis caussa peccare liceret, nella poesia in verso sciolto noi restiamo offesi da ogni benchè minimo difettuzzo,

E un sol punto, un sol neo la può far brutta.

Si domanda quivi a tutto rigore necessità di espressione, quel calore di stile che manca al Trissino e al Rucellai, che non sono altro che languidissimi parelj, l’uno di Omero, l’altro di Virgilio; e si domanda quella somma [p. 410 modifica]finitezza, per cui l’andamento del verso cammini sempre del pari con le immagini della fantasia, e l’armonia e il numero sieno quasi un eco del sentimento40. In fine nel verso sciolto il poeta ha tanto plus oneris quanto veniae minus, come ha un ballerino a paragone di un saltatore di corda.

Note

  1. Discorso II, tom. II
  2. Then all the Muses in one ruin lye,
    And Rhyme began t’enervate Poetry.
    Thus in a stupid military state
    The pen, and pencil find an equal fate.

    Dryden, To Sir Godfrey Kneller.


    Till barb’rous nations and more barb’rous times
    Debas’d the majesty of verse to rhimes.

    Id. to the Earl of Roscommon on his
    Excellent Essay on Translated verse.

  3. Dans la préface du Recueil de traductions en vers françois etc.
    Nos vers afranchis de la rime ne paroissent différer en rien de la prose. La cadence du vers françois est peu sensible par le grand nombre de nos e muets.

    M. Prevot, Pour et contr N. xxix.

  4. Je n’ai garde neanmois de vouloir abolir les rimes. Sans elles notre versification tomberoit.

    Lettre à l’Académie françoise, art. v.

  5. Les Italiens et les Anglais peuvent se passer de rime, parceque leur langue a des inversions, et leur poésie mille libertés qui nous manquent. Chaque langue a son génie déterminé par la nature de la costruction des ses phrases, par la fréquence de ses voyelles ou de ses consonnes, ses inversions, ses verbes auxiliaires etc. Le génie de notre langue est la clarté et l’élégance; nous ne permettons nulle licence a notre poésie, qui doit marcher comme notre prose dans l’ordre précis de nos idées. Nous avons donc un besoin essentiel du retour des mêmes sons pour que notre poésie ne soit pas confondue avec la prose.

    Dans la préface de l’Oedipe.

    Malgré toutes ces reflexions et toutes ces plaintes, nous ne pourrons jamais sécouer le joug de la rime; elle est essentielle a la poésie françoise. Notre langue ne comporte point d’inversions, nos vers ne souffrent point d’enjambement; nos sillabes ne peuvent produire une harmonie sensible par leurs mesures longues ou breves: nos césures, et un certain nombre de pieds ne suffiroient pas pour distinguer la prose d’avec la versification: la rime est donc nécessaire aux vers françois.

    Dans le discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke.

  6. Or s’il y a en Europe une langue propre à la musique, c’est certainement l’italienne; car cette langue est douce, sonore, harmonieuse, et accentuée plus qu’aucune autre etc.

    M. Rousseau, lettre sur la musique françoise.

    La principale chose, à laquelle je me suis appliqué, a été de conserver la précision, la noblesse et la briéveté de l’original, autant que me l’a permis mon peu de talent, pour lutter contre un écrivain tel que Tacite, et le foible secours d’une langue aussi difficile à manier que la notre, aussi ingrate, aussi trainante et aussi sujette aux equivoques.
    De toutes les langues cultivées par les gens de lettres l’italienne est la plus variée, la plus flexible, la plus susceptible des formes différentes qu’on vent lui donner. Aussi n’est-elle pas moins riche en bonnes traductions qu’en excellente musique vocale, qui n’est elle même qu’une espéce de traduction. Notre langue au contraire est la plus sévère de toutes dans ses lois, la plus uniforme dans sa construction, la plus gênée dans sa marche. Faut-il s’étonner qu’elle soit l’écueil des traducteurs, comme elle est celui des poétes?

    M. d’AlembertMélanges de litterature,
    T. III; Observations sur l’art de traduire.

  7. Gravina, nella Ragione poetica lib. II, art. 2 e art. 17.
  8. Metaplasmo, quaevis mutatio per poëticam licentiam; prostesi σμικρὸς pro μικρὸς; aferesi, ὀρτὴ pro ἑορτὴ; sincope, ἐγέννατο pro ἐγεννήσατο; epentesi ἔλλαβε pro ἔλαβε; apocope, δῶ pro δῶμα; antitesi, θάλαττα pro θἀλασσα; metatesi, κἀρτος pro κράτος; sinalefa τοὔνομα pro τὸ ὄνομα; paragoge, ἦσθα pro ἦς; anadiplosi, κεκάμωσι pro κάμωσι.
  9. Leur versification (des Grecs et des Latins) étoit sans comparaison mois gênante que la nôtre. La rime est plus difficile elle seule, que toutes leurs règles ensemble.

    Fénelon, Lettre à l’Académie françoise, art. v.

  10. Un poéte anglais, disais-je, est un homme libre qui asservit la langue à son génie; le Français est un esclave de la rime, obligé de faire quelquefois quatre vers pour exprimer une pensée qu’un Anglais peut rendre en une seule ligne. L’Anglais dit tout ce qu’il veut; le Français ne dit que ce qu’il peut.

    Voltaire dans le discours sur la tragédie a mylord Bolingbroke.

  11. And Dryden oft’in Rhyme his Weakness bides,

    Smith, in a Poem to the memory of M. Philips

    Nos plus grands poétes ont fait beaucoup de vers foibles . . . Ils sont pleis d’épithétes forcées pour attratraper la rime. En retranchant certains vers, on ne retrancheroit aucune beauté . . . Souvent la rime, qu’un poéte va chercher bien loin, le reduit à allonger et faire languir son discours. Il lui faut deux ou trois vers postiches, pur en améner un dont il a besoin.

    Fénelon, lettre à l’Acad. franç. art. v.

    En effet nous n’appercevons guères dans les poétes latins les plus mediocres des épithètes oiseuses, et mises en oeuvre uniquement pour finir les verses; mais combien en voyons nous dans nos meilleurs poésies, que la seule nécessité de rimer y a introduites?

    Du Bos, Reflexions critiques sur la poésie
    et sur la peinture
    , première partie, sect. 35.

  12. But those that write in rhyme stil make
    The one verse for other’s sake
    For one for sense, and one for rhyme.
    I think’s sufficient for a time.

    Buttler Hudibras P. II, C. I, e nella P. I. C. I, egli dice:

    For Rhime the rudder is of verses,
    With which, like ships, they steer their courses.

  13. Com. ant. Dant. Inf. 10, cod. 26, banc. 40 della libreria Medico-laurenziana citato nella pref. della Parte seconda vol. iv delle Prose fiorentine.
  14. Essay on Criticism.
  15. Discours lû dans l’assemblée publique de l’Académie françoise du 25 aoust 1749.
  16. Comparazione di Omero, Virgilio e Torquato, Discorso quarto.
  17. Lib. I, ep. 10.
  18. T. I, lib. II, Fable 18 e Préf.
  19. Addison, Viaggio d’Italia, Florence.
  20. Io mi sono grandemente compiaciuto di avere dipoi trovato il medesimo luogo del Pope allegato come un fortissimo argomento contro alla rima dal signor Daniello Webb nelle sue Remarks on the beauties of Poetry, libretto uscito in luce l’anno 1762.
  21. Les tragédies rimées de Dryden sont la plus forte démonstration que l’on puisse donner de son peu de génie pour la tragique. La rime fait beaucoup perdre à la poésie épique de sa bauté et de son énergie, elle énerve entiérement, elle anéantit la poésie tragique.

    Conject. sur la composition original trad. de l’anglois.

  22. Notre versification trop gênante engage souvent les meilleurs poétes tragiques à faire des vers chargés d’épithètes pour attraper la rime. Pour faire un bon vers, on l’accompagne d’un autre vers foible qui le gâte. Par exemple je suis charmé quand je lis ces mots:
    . . . qu’il mourut,
    (Corn. dans les Horaces);
    mais je ne puis souffrir le vers, que la rime amène aussi-tôt:
    Et qu’un beau désespoir alors ne secourut.
    Les périphrases outrées de nos vers n’ont rien de naturel. Elles ne représentent point des hommes qui parlent en conversation sérieuse noble et passionée. On ôte au spectateur le plus grand plaisir du spectacle, quand on en ôte cette vraisemblance.

    Fénelon, lettre à l’Acad. franç. art. 6.

    Vedi ancora l’art. 7.

  23. Persius a crab-staffe; bawdy Martial, Ovide a fine wag è un verso esametro composto dalla regina Elisabetta ad imitazione del cav. Filippo Sidney.
    A Catalogue of the Royal and Noble authors of England. Queen Elisabeth.
  24. Notre langue est plus majestueuse que la latine, et les vers plus harmonieux, si je puis me servir de ce terme.

    Dans une lettre à M. le comte de Lionne.

  25. The Petrarch follow’d, and in him we see
    What Rhyme improv’d in all its height can be.
    At best a pleasing sound, and fair Barbarity,

    Dryden to the Earl of Roscommon on his Excellent Essay on Translated Verse.

  26. Opere di Sperone Speroni, vol. iv, facc. 218.
  27. Vedi la Vita del Chiabrera, p. 37, che va innanzi alle opere di quel poeta, ed. di Venezia 1730.
    Vedi ancora Fasti consolari dell’Accademia fiorentina p. 255, e Tessier Eloges des hommes sçavants, Par. I, p. 36, à Utrecht 1697.
  28. Crescimbeni, Storia della volgar poesia, vol. iv; della bellezza della volgar poesia, dial. 5.
  29. Lettere, vol. i, p. 198, ed. Comin.
  30. Prefazione alle Rime di Bernardo Tasso
  31. Je tiens cet agrément (de la rime) fort au dessous de celui qui nait du rithme et de l’armonie du vers, et qui se fait sentir continuellement durant la pronunciatione du vers métrique. Le rithme et l’armonie sont une lumière qui luit toujours, et la rime n’est qu’un éclair qui disparoit, après avoir jetté quelque lueur.

    Du Bos Reflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, première partie, sect. xxxvi.

  32. La rime ne nous donne que l’uniformité des finales, qui est ennuyeuse, et qu’on évite dans la prose, tant elle est loin de flatter l’oreille. Cette repétition de syllabes finales lasse même dans les grands vers héröiques, où deux masculins sont toujours suivis de deux féminins.

    Fénelon, Lettre à l’acad. franç. art. 5.

  33. Vedi i luoghi soprallegati di quel poeta, a’ quali si può aggiungere il seguente citato dal signor Webb Remarcks on the beauties of Poetry p. 2. What it (Rhyme) adds to sweetness, it takes away from the sense: and he who Loses least by it, may be called a gainer.
  34. Of many faults Rhyme is perhaps the cause;
    Too strict to Rhyme we slight more useful laws.

    Essay on Translated verse.

    Vedi ancora Idée de la Poésie angloise par l’Abbé Yart. T. iv sur l’origine, les progrès et la perfection de la Poésie angloise par Fenton.

  35. At best a Crutch, that lifts the weak along,
    Supports the feeble, but retards the strong.

    Smith in a Poem to the memory of M. Philips.

  36. The measure is english heroic verse without rhyme, as that of Homer in greek and Virgil in latin; rhyme being no necessary adjunct, or true ornament of poem, or good verse, in longer works especially: but the invention of a barbarous age, to set off wretched matter: and lame metre: grac’d indeed by the use of some famous modern poets, carried away by custom; but much to their own vexation, hindrance, and constraint to express many things otherwise, and for the most part worse, than else they would have express them. Not without cause therefore some both Italian and Spanish poets of prime note have rejected rhyme, both in longer and shorter works, as have also long since our best English tragedies; as a thing of itself, to all judicious ears, trivial, and of no true musical delight: which consists only in apt membres, fit quantity of syllabes, and the sense variously drawn out from one verse into another; not in the jingling sound of like endings; a fault avoided by the learned ancients both in poetry, and all good oratory. This neglect then of rhyme so little is to be taken for a defect, (Though it may seem so perhaps to vulgar readers) that it rather is to be esteem’d an example set, the first in english, of ancient liberty recover’d to heroic poem from the troublesome, and modern bondage of rhyming.

    In a Writing prefixed by Milton to his Paradise lost entitled The Verse.

  37. But with meaner Tribe J’m for’d to chime,
    And wanting strenght to rise, descend to Rhyme.

    Smith in a Poem to the memory of M. Philips.

  38. Il marchese Maffei nella lettera al signor di Voltaire sopra la Merope, verso il fine.
  39. Rhyme, without any other assistance, throws the language off from Prose, and very often makes an indifferent phrase pass unregarded; but where the verse is not built upon Rhymes, there the pomp of sound and energy of expression are indispensably necessary to support the stile, and keep it from falling into the flatness of Prose.

    Addison, Spectator, n. 286.

  40. Tis not enough no harshness gives offence,
    The sound must seem an Echo to the sense.

    Pope, Essay on Criticism.