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la obbligazione della rima fa uscire il poeta in qualche peregrina espressione, o in qualche pensiero condito della novità; e che alla fine del verso gli potrà riuscire di accozzare insieme parole che non sogliono tanto spesso trovarsi in compagnia, e sieno, s’è lecito il dirlo, quasi un riscontro di amanti. Ma ciò avviene pur di rado. E di quanti disordini non ha colpa la rima per una espressione felice, per un buon pensiero, di che ella talvolta può aver merito?

E in tanto non sempre ci accorgiamo delle sconciature ch’ella cagiona, diciam così, ne’ parti poetici, in quanto che non vediamo così per appunto che cosa si avesse proposto di dire, o pure avrebbe dovuto dire il poeta. Ma dove elle si mostrano manifestamente agli occhi di tutti, è nelle traduzioni, colle quali l’interprete non altro certamente si prefigge che di rendere puntualmente il testo, e di ritrarre nella propria lingua quello che altri ha detto nella sua: di modo che le traduzioni chiamare si potrebbono il cimento decisivo, l’experimentum crucis della rima. Paolo Beni ne’ suoi discorsi porta l’esempio di un luogo di Virgilio che viene stirato a un doppio numero di versi, tradotto in rima dal divino Dolce1: e di simili altri esempi se ne potrebbono cavare dal volgarizzamento delle Metamorfosi dell’Anguillara, benchè Ovidio non sia altrimenti ristretto e sugoso, come è Virgilio. Ma perchè poco concludenti dirannosi le prove cavate da’

  1. Comparazione di Omero, Virgilio e Torquato, Discorso quarto.