Saggi critici/Giovanni Meli

Giovanni Meli

../La scienza e la vita (Discorso inaugurale) ../Il principio del realismo IncludiIntestazione 11 luglio 2023 75% Da definire

La scienza e la vita Il principio del realismo
[p. 163 modifica]

[ 47 ]


(Il Professore sale la cattedra fra le acclamazioni di un eletto e numeroso uditorio. E cosí incomincia:)

Io vi ringrazio, o Signori, degli applausi coi quali mi avete ricevuto; vuol dire che ci siamo giá capiti: gli applausi vanno alla mia intenzione. Voi avete sentito che visitando Palermo il mio pensiero è stato di far cosa cara a Palermo.

Come un uomo bene educato che dee visitare per la prima volta un distinto signore, studia i suoi libri, la sua vita, perché, presentandosi a lui, possa mostrare giá di apprezzarlo e di conoscerlo, cosí io, dovendomi presentare a questo gran signorone che si chiama Palermo, ho voluto innanzi studiare la sua lingua, la sua letteratura, il suo Beniamino, il suo poeta favorito, Giovanni Meli; ed è certamente a questa intenzione che si rivolgono i vostri applausi, ed è in questo modo che io li accetto e ve ne ringrazio. (Benissimo)

Ora senz’altro io entro in materia.

Giovanni Meli nacque nel 1740, mori nel 1815; vale a dire, la sua vita appartiene a quella gloriosa seconda metá del secolo decimottavo, che fu etá di rinnovamento in tutta Europa, e fu in Germania l’etá di Lessing e di Kant, che doveva generare Goethe e Schiller, e fu in Inghilterra l’etá di Locke, e poi di David Hume, e poi di Adamo Smith, e fu in Francia l’etá di Voltaire e di Rousseau e della Enciclopledia, e in Italia fu l’etá di Beccaria e Filangieri, e letterariamente di Alfieri, di [p. 164 modifica]Parini e di Foscolo. E quando io penso agli stimoli che portarono questo rinnovamento letterario in Italia, io trovo che il principale fu il fastidio che giá prendeva tutti di quella letteratura italiana, giá cosí grande e gloriosa, divenuta sotto nome di Arcadia un mondo convenzionale, il mondo della freddura e della insipidezza.

E allora, io mi sono domandato: — Giovanni Meli, qual è il posto che egli occupa nella storia della letteratura nazionale? Appartiene egli a quel nuovo pensiero e a quella nuova letteratura, che fu l’etá del rinnovamento, ovvero appartiene a quella vecchia letteratura che fu l’etá della decadenza? — .

Chi piglia il libro, e guarda il nudo contenuto, giudicando dalla superficie, dice subito: — Ma Giovanni Meli corporalmente visse nella seconda metá del secolo decimottavo; ma il suo spirito, la sua poesia appartiene alla vecchia letteratura; gli è un rancidume, gli è fuori del rinnovamento italiano. Bucoliche, odi, canzoncine, ricette, epigrammi, madrigali, favole, poemi fantastici; ma tutto questo veduto a prima vista non è che il vecchio mondo, che si chiamava allora Arcadia. — E non ci è niente di piú dannoso, che questi giudizii superficiali, che ti danno un’apparenza di veritá, e ti addormentano, e non ti lasciano andare avanti.

Il nudo contenuto è il corpo; è lo stupido materiale, e non basta a dare il carattere ad una poesia.

Il carattere della poesia non è nel contenuto, ma nello spirito che vi spira al di dentro, come il carattere dell’uomo esce non dal suo vile corpaccio, ma dallo spirito che lo anima. Guardando a questa vita spirituale, al temperamento, agli istinti, alle opinioni, alle idee e a’ sentimenti, si può determinare il carattere dell’uomo, ciò che distingue un uomo da un altro.

II simile è della poesia. Se dunque noi vogliamo trovare lo spirito che animò la poesia del Meli, vediamo qual era il carattere di questo poeta, come fu educato, in quale ambiente si trovò, quali forze sue, quali forze estranee e fatali lo formarono; cosí solo, per questo lungo cammino dell’analisi, giungeremo a determinare il carattere di questa poesia. [p. 165 modifica]

Il Meli fece le sue prime lettere in una scuola retta da gesuiti, dove stette sette anni.

E che cosa era allora una scuola di lettere? In Italia, mentre il pensiero si rinnovava, durava la vecchia letteratura, e quando la letteratura si rinnovò, durarono le vecchie scuole.

Mentre il pensiero si rinnovava nelle alte cime della societá, continuava in letteratura l’Arcadia. Giambattista Vico, che aveva innanzi al pensiero cosí vasti orizzonti, era in letteratura un arcade: leggete i suoi sonetti e le sue prolusioni. Similmente, nel tempo di Alfieri e Parini, si insegnava quasi ancora come al tempo del medio evo, e le scuole vengono ultime nel movimento della civiltá. Mi ricordo che quando c’erano giá Manzoni e Leopardi, la scuola in cui io fui educato, era tutto un vecchiume rettorico, ed io, per mettermi al corrente, dovetti rifare i miei studii. Quale scuola, o Signori, ebbe il Meli? la scuola de’ gesuiti. E di questi non dirò nulla, perché combattere tirannidi sacre e profane, quando te ne può venire pericolo, è di alto animo; ma è di animo imbelle combattere i vinti. (Benissimo)

Dirò questo solo, che i gesuiti sono conosciuti come i piú tenaci e rigidi custodi del passato. Immaginate, dunque, cosa poteva essere una scuola retta da gesuiti. Il De Colonia, il Portoreale, il padre Emanuele Alvarez, molti sillogismi, molti luoghi rettorici, molte figure e tropi, nessuna diretta e larga notizia degli scrittori, ecco le prime impressioni, le prime abitudini dei Meli. Ma accanto a questa scuola ufficiale c’è sempre una scuola occulta, tanto piú operosa, quanto maggiore l’ingegno e piú stretto è il divieto. Il Meli si gittò sopra i libri che piú erano conformi alle sue inclinazioni, e nutrí quella prima etá. di fatti fantastici; venutigli alle mani i Reali di Francia, le Novelle arabe e altro di simil genere.

Un bel giorno fu quando un vecchio zio gli procurò in gran segreto l’Orlando furioso. Mi ricordo. Un zio prete mio maestro, tutt’ordine e misura, dissemi un giorno: — Vedi lá quel cassettone, lí dentro ci sono libri di poesia e di storia, ma è chiuso a chiave. Sai tu, per leggere uno di quei libri devono passare [p. 166 modifica]due anni —. E mi punse un gran desiderio di quel frutto proibito, e cercai modo di aver la chiave, di aprir quel cassettone, ed il primo libro che mi venne innanzi fu Le Télémaque di Fénelon. (Ilaritá)

Mi parve un nuovo mondo, e mi ricordo che mi gettai a leggerlo con tanto piacere che quel giorno dimenticai proprio di mangiare. Immaginate ora le impressioni pel Meli, quando ebbe in mano quel libro.

In questa doppia scuola, ufficiale ed occulta, durò il Meli sette anni, e di là passò agli studii universitarii senza difficoltà; allora non c’era la licenza liceale, il ponte dell’asino. (Ilaritá)

Anche li aveva studii obbligati e studii graditi. Il padre voleva farne un medico, perché aveva famiglia assai e quattrini pochi. E mentre pareva tutto dietro a chimica e fisica, si dié in occulto allo studio de’ classici, e i chimici e fisici furono Virgilio e Orazio, e Dante e Petrarca, e Ariosto e Tasso, deliziandosi soprattutto di Sannazaro e di Metastasio, che tra’ contemporanei levava maggior grido di sé. Fin qui giunse il Meli. Il movimento impresso da Alfieri, Parini e Foscolo gli rimase estraneo, venne dopo, venne quando l’anima non poteva più ricevere altro. È dello spirito quello che del corpo. Il corpo cresce, cresce, e quando ha preso la sua forma naturale, quel movimento ascendente si arresta, e se acquista maggior volume e peso, la forma riman quella. Cosi nello spirito ci è un movimento ascendente che lo educa e gli dà una forma, e quando l’uomo è formato con tali opintoni e idee e sentimenti e abitudini, tutto quello che vien dopo, non gli sincorpora, ma gli si soprappone (benissimo); avanzerà negli studii, ma rimarrà pur quello, e vede il progresso intorno a sé, e non può entrarci lui, anzi sente un certo dispetto del nuovo e che il mondo cammini senza sua licenza.

Quella fu l’educazione, quella la coltura del Meli; la sua ultima parola fu Sannazaro e Metastasio, e guardò tutto l’altro che venne di poi con una certa impazienza, che rivelava l’interna repulsione.

E quale fu l’ambiente in mezzo a cui visse? Perché l’uomo, [p. 167 modifica]come la pianta e l’animale e ogni cosa vivente, è in parte quello che lo fa l’ambiente, o il mondo che lo circonda, il tal luogo e il tal tempo.

Certo, nell’Italia meridionale, e anche in Sicilia, non si era del tutto estranei a quel rinnovamento europeo. Una certa fermentazione d’idee c’era negli alti strati sociali, e molti libri nuovi correvano in palese e in occulto, e Voltaire e Rousseau erano in moda sino presso l’aristocrazia, come si vede da una bella satira del Meli. Ma era dottrina astratta, non era ancora coltura, cioè a dire sapere diffuso e penetrato ne diversi strati della società; e quella dottrina in alto, cosi sola, era inetta a mutare l’ambiente, opinioni, costumi, inclinazioni, idee, sentimenti.

Solo la dottrina è efficace quando diviene coltura, quando non è sapere condensato in pochi, ma sparso fra tutti, quando penetra in tutte le classi, e ci vive dentro non come tesi o sentenza, ma come sentimento. (Benissimo) Altrimenti, o Signori, sarà dottrina nuova in ambiente vecchio, e avrete de’ grandi siciliani, ma una vecchia Sicilia, e avrete de’ grandi italiani, ma una vecchia Italia. (Benissimo)

A Palermo in quel tempo c’era in aria del nuovo, ma l’ambiente rimaneva vecchio, e vecchia era la filosofia e letteratura, quale con tanto sfoggio veniva fuori nelle accademie, centri di cervelli oziosi e vani, a similitudine di tante altre nel resto d’Italia, che ci hanno meritato il titolo di popolo accademico. Recitavano sonetti, canzoni, cicalate e dicerie fra gli applausi e battimani di obbligo.

Un giorno salta fuori una nuova Accademia, la «Conversazione galante», presieduta da un principe di Campofranco, uno di quei signori di mezzana coltura, che improvvisava versi, e voleva il suo teatro, voleva gente che gli battesse le mani; e fra quella turba di sonettisti incontriamo ultimo e negletto Giovanni Meli. Aveva allora appena diciotto anni. Ed eccolo enche lui a sonetteggiare, fare canzoni e odi, a imitazione del Frugoni e del Rolli, allora in voga, che mal celavano sotto una pompa artificiale di frasi la vacuità delle idee e la povertà de’ sentimenti. [p. 168 modifica]

Queste prime poesie del Meli piacquero, e destarono un po’ li gelosia, si dice, nel principe di Campofranco, il quale spronò il giovane a poetare in dialetto. E fu un buon consiglio. E il Meli scrisse due cicalate, come era costume nelle accademie italiane, dove a perditempo o a passatempo si faceva dello spirito sopra temi stravaganti, sottilizzando e rettoricando, come in lode del debito o della peste o del naso, un genere convenzionale che, perfezionato e abbreviato, produsse le sciarade e i logogrifi e i rebus, nuova forma dell’ozio.

E anche Meli fece le sue cicalate, e l’una fu in lode della pulce, e l’altra in lode della mosca, due animali troppo noti, troppo a noi vicini. (Ilaritá)

Ci è in queste cicalate una certa immaginazione, e anche uno spirito non volgare; ma ci si sente lo scolare e l’imitatore, e se gli accademici applaudivano, Meli diveniva pensoso. Oh è cosa ben difficile divenire un poeta! E divenire un poeta era i! sogno di Meli, il capo pieno di romanzi e di versi, e gli giravano per la fantasia mondi fantastici, allegorici e letterarii, poco esperto ancora del mondo reale. Cosi gli usci la Fata galanti. Su questo primo poema mi voglio fermare un tantino, perché qui si scorge bene la natura de’ suoi studii e delle sue attitudini.

Meli salva una Fata dalle percosse di un zotico villano, e la Fata ripiglia la sua forma; e gli dice: — Picciotto, sei fortunato. Io sono la Fata: chiedimi !a grazia che vuoi: fuori che oro e argento, tutto ti posso dare. — E che mi giovano i tuoi favori senza danari?

                               Tanti genti cu mia fannu accussí,
Mi stimanu e ’un mi dunanu un tarí. —
               

Come vedete, il povero Meli aveva molto fumo e niente arrosto:

                               Mi stimanu e ’un mi dunanu un tari. (Viva ilaritá)                

E pensa e dice:

                               Ora videmu si tu mi poi fari
Pueta in pocu tempu addivintari.
               
[p. 169 modifica]

— «Poeta nascitur», — risponde la Fata. Pure, se lo trae appresso pel Cielo; e comincia un viaggio fantastico a modo della Divina Commedia, e conosce poeti e filosofi, e scende nel mondo sotterraneo e risale in cielo, in sino a che si accorge che non ci è Fata e non ci è viaggio che possa farlo poeta. In ultimo si scopre l’allegoria. La Fata è lui stesso, la sua fantasia, e il viaggio esprime i diversi stati del suo animo.

Come si vede, il concetto ricorda la Divina Commedia, e quelle processioni di uomini illustri sul monte Pindo ricordano il Limbo, come quel suo regno della «Farfantaria», riboccante di figure allegoriche, ricorda }a Discordia e le altre figure dell’Ariosto. Accanto a queste reminiscenze che non ti lasciano dare grande importanza a tutto questo insieme, ci è un certo spirito e una certa originalità ne’ particolari, che attira l’attenzione.

L’isola della « Farfantaria » o della impostura, regno delle favole e finzioni, nemico di verità, è come la base della poesia:

                               Pirchí senza lu finciri e ’mmintari
Nuddu bonu pueta si po’ dari.
               

Gente in maschera, « ch’avianu d’oru fausu li vistiti », saltimbanchi e ciarlatani, cabalisti, astrologhi, alchimisti, Paracelso e simili impostori, «ca prumittianu l’immortalitati o di truvari la vina di l’oru», librerie piene di poeti e romanzi, di astronomia e magia, ecco l’atrio. Poi vengono figure allegoriche, disegnate con una originale vivacità: l’«Ingannu»,

                               Chi ’mbrugghiava marreddì, e jia pinsannu;                
lo «Platonicu Amuri»,
                               Chi juncía hic ed hac in una vera
Amistá, come ’ntrinsici parenti;
               
la «Cirimonia cu ’na schiera»
                               D’ossequii, adulazioni e cumplimenti,
Schiera assai grata a tutti li francisi,
E multu disprizzata da l’inglisi.
               
[p. 170 modifica]

Si arriva alla Corte, piene le scale di gente che sperano, e la Speranza dicea :

                               Pocu cci voli a jiri ’ntra la sala
E dda farroggiu la fortuna mia.
               

Più sopra vestita a gala ci era la Politica, e insieme Machiavelli col suo riso ironico.

Né meno spiritoso e originale è il monte Pindo, sede di Apollo. I poeti stanno in frotte sparsi per le baracche, dove ciascuno vendea secondo sua natura. I poeti giocosi vendono giocattoli: Cesare Caporali

                               Aveva ’na barracca ben pruvista
Di suldati a cavaddu misi a schera
’Mpastizzati di codda e carta pista.
               

I beoni con Redi alla testa vendono barili di vino, con formaggi, aringhe e baccalà,

                               E specialmenti cavaler Marini
Chi vinnia baccalaru a vuci chini.
               

Poi chitarre, violini; sono i lirici. Petrarca vende «zagareddi e così fimminili». Sembra che dorma: «distrattu’ntra la cera»:

                               Lu sbiggiu; iddu a parrari accussí sfera:
«Levommi il mio pensiero in parte ov’era
Quella ch’io cerco e non ritrovo in terra».
               

La scena è tragica, quando di un tratto scoppia la caricatura :

                               Lassala, cci diss’iu, giacchí ’un si’ a casu;
Asinu mortu, puleiu a lu nasu. (Viva ilarità)
               

Vengono baracche risplendenti di ori e di argenti:

                               Un grossu capitali ci mitteru
Anacreonti, Pindaru ed Omeru.
               
[p. 171 modifica]

— E mettici tu pure, — dice la Fata a lui che voleva essere un gran poeta, e lui ci mette i suoi sette anni di scuola. (Ilarità)

                               Appizza si tu hai cosa d’appizzari.
Iu allura appizzu sett’anni di scola,
Cridennu ch’un gran premiu avia a pigghiari.
E chi cosa pigghiasti, Vanni Meli?
Un gran pezzu di Patri Emmanueli.
               

La botte dà di quello che ha: padre Emmanuele non gli poteva dare che padre Emmanuele. Il presuntuoso non si trovò in mano che i sette anni di scuola, e abbassò le ali:

                               Cussí partivi cu l’ali caduti.                

Gli ultimi poeti, i più vicini alle Muse, furono i poeti del suo cuore, Teocrito, Sannazaro e Metastasio, che in una gran «Cafittaria» vendeva spiriti e sorbetti:

                               Oh chi biddizza! oh chi ducizza! (Ilarità)
Ieu liccava li gotti a stizza a stizza,
E tuttu arricriari mi sintia:
Cosi di Metastasiu!  .  .  .  .  .  (Ilarità)
               

Fra queste dolcezze ecco in vista l’ultima baracca più vaga e galante, e le nove Muse, e in mezzo il biondo Dio, e le Grazie sopra la bancata,

                               Ma poi lu Gustu conza la ’nzalata.                

Molte femmine stanno attorno a ornare la lucente baracca, e ci era una, ora lunga lunga sino alle nuvole, ora più piccina che una pulce, e la Fata dice:

                               Chista chi crisci e ammanca tutti l’uri,
É l’ Iperbuli; e tantu cci piacia
A lu seculu strammu chi spiddiu,
Chi senza d’ idda ’un sapia diri ciu.
               
[p. 172 modifica]

Vedete gli studii, gli autori, le inclinazioni e le attitudini del Meli. Il sugo è questo: — Abbasso il Seicento! Viva Sannazaro e sopra tutto Metastasio! — .

Non dirò altro, che sarebbe troppo lungo discorso. Il poema fece rumore, e lo chiamarono il poetino. Ci si sente ancora la scuola, reminiscenze di quegli studii e di quelle impressioni. Figure allegoriche, viaggi fantastici, racconti mitologici, come di Galatea, e di Proserpina e di Encelado. Ci è il fantastico, ma non ce n’è il sentimento. Tutto vi è descritto, come un mondo abituale e insignificante, fino la baracca di Apollo:

                         

La cchiú vaga, cchiu nobili e cumpita.

               

Quando mi trovai l’altra sera a Villa Giulia, tutta illuminata a festa con tanta grazia e gusto, con gradazioni di colori cosí appropriate a’ colori della natura, e vidi quella piazzetta decorata di busti, incoronata di cipressi, che ti tengono il capo basso come in un cimitero, e poi quel riso di fiori, quegli affettuosi rampicanti, quegli alberi giganteschi, figli de’ secoli, fra tante ombre e luci e chiaroscuri dissi: — Ecco un mondo fantastico che ti ruba alla terra — . Cosa è la baracca di Apollo e la loggia di Metastasio? Il teatro è volgare, la scena è insipida; ma la rappresentazione è vivace. Ci vedi giá le ugna del leone; una certa forza inventiva, copia d’immagini, uno spirito arguto, un umore scherzoso e galante. Non ci è ancora il poeta; ci è il poetino.

Questo è il Meli, quale lo formò la scuola e l’accademia: questa fu la sua fatalitá. Una teoria esagerata dell’ambiente troviamo nel Taine, autore di una eccellente istoria della letteratura inglese. L’ambiente è la fatalitá, a cui nessuno può sottrarsi. Ma se l’ambiente spiega i mediocri, è inetto a spiegarmi il genio, che ci sta sopra, ed è grande non per quello, e lottando con quello. (Benissimo)

Il Meli aveva forze proprie che lo mettono al di sopra di quel mondo arcadico ed accademico, e lo rendono un poeta originale.

La fatalitá gli diede la materia e anche il concetto del suo [p. 173 modifica]mondo poetico, come lo diede al Tasso, come lo diede a Dante; ma la fatalitá non potè dare a loro quella forza geniale, da cui escono le creazioni immortali. (Benissimo)

Il mondo poetico del Meli, materia e concetto, fu quello della vecchia letteratura italiana, un mondo idillico, elegiaco, fantastico che ha a base la saggezza:

                               Di ogni societá
Su’ oggetti di grannizza
Arti e scienzi; ma
La basi è la saggizza.
               

Il Savio fugge le astrazioni della scienza e le ambizioni e la cupidigia delle cittá, e si ritira ne’ campi, mondo della natura non guasta dall’uomo, e lá trova e pace e giustizia «stritti abbrazzati», e mena vita contenta. Il concetto è antico; è il concetto di Anacreonte e di Teocrito, è il concetto di Orfeo e di Aminta e del Pastor Fido. Il male non è nel concetto, ma nella forma che gli diede l’Arcadia. Perché l’Arcadia era frutto di poltroneria intellettuale a cui mancò anche quel simulacro di forza che fu detto seicentismo; e ne usci un mondo insipido, abituale e convenzionale, a cui l’anima era estranea.

Ma Meli! Innanzi tutto, dietro al poeta ci era l’uomo. Debbo io dire a voi chi fosse Giovanni Meli? uomo semplice e naturale, puro di ambizioni e di cupidigie, nemico di ciarlataneria e di vana scienza, tutto buon senso. Aveva egli quella divina facoltá, concessa a pochi, a Goethe, a Manzoni, quell’equilibrio dello spirito che fu detto armonia interiore. Niente nella sua natura è di nervoso, di quell’andare a salti, di quella disuguaglianza d’umore, e pigliava la vita come veniva, lieto, amabile, spiritoso, ricercato nelle conversazioni, caro alle donne Senza malizia! «Honni soit, qui mal y pense!». (Ilaritá)

Faceva il medico, ma l’anima era a’ versi. Vedete i suoi autografi in questa Biblioteca Nazionale. Brani di carta sudicia, dove tra note di bucatala e quietanze in gergo di notaio, trovate: «Dimmi, dimmi, apuzza nica». (Viva ilaritá) Dico per esempio Fu cinque anni medico in Cinisi, paesello poco lungi [p. 174 modifica]di qua, belle campagne e bella spiaggia. Il nostro medico corre di qua, corre di lá, e dimentica la visita, e s’intrattiene co’ pastori, con le contadine, co’ pescatori, e raccoglie nella mente gli schizzi e i contorni di quelle poesie immortali che furono dette delle Quattro stagioni. Quel suo mondo poetico era lui la sua vita e il suo sentire, ci era l’uomo prima che ci fosse il poeta. (Benissimo)

E se vogliamo vedere quali forze erano nel poeta, accostiamoci a questo mondo della natura e della pace.

Lascio stare le scorie e le escrescenze, poesie di occasione, venute con quella, passate con quella, soprattutto i panegirici a re, a ministri, a principi.

Le base di questo mondo, come si è visto, è la «Saggizza»; da una parte sdegno e fastidio delie astratte speculazioni, delle ambizioni, delle cupidigie, delle passioni, delle vanitá, che son proprie della vita cittadina, e d’altra parte il desiderio e il godimento della vita campestre, tutto innocenza, tutto natura incorrotta, dove regnano giustizia e pace.

Ci è in questo mondo una parte che direi negativa, e una parte positiva. E non è meno sincero e meno efficace in questa che in quella.

La parte negativa sviluppa in lui l’umorismo. E non è giá l’umorismo inglese o tedesco, quell’apparenza di disordine, a salti e a chiaroscuri, cosí piena di senso. È umorismo italiano, plastico, arguto e allegro. L’oggetto che vuol rappresentare non lo disgusta, anzi lo attira, e lo contempla parte a parte con una curiositá arguta, mettendolo in evidenza, si che esso medesimo senza opera del poeta paia si presenti a te co’ suoi difetti. Di questi ritratti comici cito ad esempio quello di «don Marianu Scassu», l’uomo macchina, «pupu organicu»,

                                    È un capu d’opera
Chi ’un’á l’eguali.
               

Ma nessuno vorrebbe esser chiamato «un capo d’opera» a questo modo. Il ritratto è tanto piú crudele, quanto maggiore è l’allegria benevola dell’autore. La quale benevolenza esclude [p. 175 modifica]non dirò il sarcasmo, ma fino la maliziosa ironia, che suole talora trovarsi inchiusa nel ritratto cosí per caso e senza che se ne accorga il poeta. Cosi è nella Villeggiatura, arguto dialogo in forma socratica, dove le domande son tali, che il nobile villeggiante è condotto a fare lui medesimo il ritratto ironico di sé e di «Medamusella», sua figlia, intorno alla quale spende e spande, contento pur che canti «arj e canzunetti», accompagnata da’ «picciotti schetti».

                     Lu cantu è la gran doti di me figghia,
Ddá si mustra, e cu’ è omu si la pigghia. (Ilaritá)
               


Il piú spesso dal ritratto si sviluppa la caricatura, un certo ingrandire e lumeggiare l’oggetto lá dove è il ridicolo, come nel Ritrattu di un certu filosofuni di la pasta antica.

Materia consueta di satira è la scienza astratta, il contrapposto della saggezza, com’è nel dialogo tra Anacreonte e Aristotile. Filosofia che non ha azione sulla vita, è ciarlataneria, è vanitá, come nelle Illusioni:

                                    Vigghia, suda e si afiatia
Su li libri e li scienzi,
Ma, Virtú, Filosofia,
Nun su’ dati a vui st’incenzi.
     Nun è omaggiu chi dispensa
A la bedda veritá,
Ma un trufeu chi alzari pensa
A la propria vanitá.
     Sulu cerca ammubbigghiari
Lu so spiritu di duri,
E cu chistu cummigghiari
Di lu cori li lord uri.
               

Queste idee vengono spesso innanzi al poeta, incalzato da quelle nuove correnti dell’opinione, tra le quali si dibatteva. Quel secolo de’ «lumi» fra tanta corruzione di costumi non gli va:

                               Chiú chi li lumi criscinu,
’Ncanciu di migghiurari,
L’omini ’nsalvaggiscinu!
               
[p. 176 modifica]

Non può pigliarsela con la scienza, se la piglia col ciarlatano:

                                         Chiddu di testa sharia,
Chi a nudda cosa è bonu,
Chi fa casteddi in aria,
E nesci fora tonu;
     Chi teni un capitali
Di filastrocchi a menti,
Chi parra o beni o mali,
A sturdiri li genti;
     Chi oltramuntani cita
Oturi aspru-sunanti,
Chi a ’na vucali unita
Cci ánnu sei consonanti; (Ilaritá)
     Chi ’mpugna e disapprova
Li cosí stabiliti,
E a modu so rinnova
Liggi, costumi e riti;
     Chi cu Platuni pubblica.
Quasi ’ntra ’na pinnata,
’Na florida repubblica
Da stari in scaffarrata  .  .  .
               

Sono questi, cornacchie in penne di pavone, fantastici d’intelletto, che mai «vidinu nettu», occupati da’ fantasmi interni,

                                         E chisti li producinu
Cu entusiasmu tali,
Chi a cridirli v’inducinu,
S’avviti pocu sali.
               

Questo ritratto colto dal vero, cosí pieno di sale, con tanta evidenza di caricatura, cosí plastico, si trova nella bella lettera a don Giacinto Troisi.

L’eroe di questa scienza astratta e fantastica, che fa castelli in aria e scambia i mulini per giganti, e vive tra le nubi e non tocca terra, è il suo Don Chisciotti, altro che quello del [p. 177 modifica]Cervantes, pure tenuto comunemente una imitazione di quello. Ma il romanzo del Cervantes è immortale e questo del Meli, ancoraché vivacissimo e immaginoso, è in oblio. Il poema del Cervantes è la fine del Medio evo, è l’apparire del mondo moderno, è un concetto cosmico, una pietra millenaria nella storia del mondo. Quello del Meli è un concettino, che vuol colpire la scienza ne’ suoi ciarlatani, ne’ suoi don Chisciotte, in quelli che Napoleone chiamava ideologi: un concettino che potrebbe esser base di un capitolo, troppo inadeguato a un poema. Ed era a ritroso del secolo, perché ciò che interessava quel secolo, era la grandezza della scienza che pigliava possesso del mondo, e non la sua caricatura, la sua farsa. (Approvazioni)

Il vero capolavoro satirico è l’Origini di lu munnu. È la caricatura de’ diversi sistemi filosofici sull’origine del mondo, e la mira è all’ultimo sistema, derivato da Spinoza, sviluppato e rimpastato da Micelli, e accennato anche nell’Enciclopedia:

Dieu a tiré l’Univers de sa propre substance... en sorte que le dernier jour du monde ne sera autre chose que la reprtse générale de tous ces restes, que Dieu avait ainsi tiré de lui même.

Giove chiama a concilio i figli per formare il mondo: e ciascuno fa la sua proposta, e non è che un sistema filosofico in caricatura. Infine Giove, dopo di aver molto riso a spese de’ figli, espone il sistema della sostanza unica, e come tutto è lui, tutto viene da lui, e conchiude:

                                         Via dunqui armu e curaggiu, picciuttazzi.
Stiratimi sta gamma ch’Eu vi stennu,
E vidiriti, poi gnurantunazzi,
Un prodigiu ridiculu e stupennu.
Cusi dittu, li figghi comu pazzi,
A dda gamma s’afierranu currennu,
E tirannu e stirannu, finalmenti
Si forma lu cchiti bellu continenti.
     Eccu l’Italia chi fu l’anca dritta
Di Giovi, e fu regina di la terra.
               
[p. 178 modifica]

Cosi Giove forma del suo corpo il mondo. Rimaneva la testa. E Roma, «caput mundi», dice che la testa è lei, e gli sciti dicono che è la Scizia; ma la testa è una, e vedete le medaglie, guardate alla Trinacria, la testa è la Sicilia. (Ilaritá prolungata) Il poeta, presa la carriera, continua a scherzarvi sopra, mettendo in evidenza i lati ridicoli del sistema, e volge e rivolge il ferro nella piaga:

                                         Eccu Giovi munnu, ed eccu
Lu munnu Giovi, nui Gioviceddi ancora;
Manciamu a Giovi, evacuamu a Giovi.
Si Giovi arraspa, la cosa è funesta,
La Sicilia cu tutti li crafocchi
Si subbissa  .  .  .(Ilaritá)
Si movi un’anca, l’Italia è la zita;
Prigamu a Giovi cu tuttu lu ciatu.
Chi stassi sempri tisu e stinnicchiatu. (Nuova ilaritá)
          

E una caricatura tirata giú con un buon umore inestinguibile, con una perfetta bonomia, e dove cose difficilissime vengon fuori con una luce di evidenza piena di brio.

Lampi di questa satira geniale appariscono qua e lá nelle favole e ne’ capitoli. Un umore pieno di spirito, di immaginazione e di bonomia penetra dappertutto, ne’ sonetti, negli epigrammi, nelle ricette, nel ditirambo, e fino nelle poesie di semplice occasione. Udite i bei versi alla Musa francisa:

                                              ’Na musa sicula
Scausa e ’n cammisa
S’offri a una nobili
Musa francisa.
     La prima è povira,
Ci manca l’isci,
L’autra è magnanima,
La cumpatisci.
     L’una á lu geniu
Pri so parenti,
L’autra lu spiritu
E li talenti.
               
[p. 179 modifica]
                                              L’una li rustici
Ninfi e capanni,
E l’autra celebra
Li eroi, li granni.
     Chist’è ch’Apollini
Scegghi e destina
A lu gran meritu
Di Carulina;
     Fra macchi ruvidi
D’un voscu cecu
L’autra rannicchiasi
Pri faricci ecu.
               

Poesia perfetta di tono e di gusto, come ce n’è pochissime, dove dietro la piú amabile galanteria sorprendi un cotal risolino del poeta, conscio della sua superioritá.

Questo lato satirico è la negazione del Meli, cioè a dire del suo mondo poetico, il mondo della natura e della pace, del quale ora mi resta intrattenervi. (Bisbiglio nella sala)

Mi spiace intrattenervi troppo, ma mi ci trovo ora, e debbo andare innanzi. (Molte voci: — Si, si, ci fa piacere — .)

Concetto di questo mondo è la saggezza. E che cosa è il savio? Non vi attendete giá a definizioni e a ragionamenti. Il poeta è come la natura, il sole risplende e non spiega il suo splendore. (Benissimo)

Il poeta non ti dá spiegazioni, ti dá rappresentazioni, ti dá sentimenti e immagini, coglie la natura in atto, e ci mescola sé stesso, le sue impressioni e le sue passioni. E non ti coglie giá l’oggetto tutto intero, fa come il pittore che sceglie di una storia il punto eminente Ciascuno oggetto è a faccette, e ciascun punto di vista te ne scopre una. E quante faccette nel Savio di Meli! Qui è Anacreonte che col bicchiere in mano sfida il fato. Lá è la Natura che narra le sue bellezze e invita la gente a seguirla. Ora è il poeta che si alza su’ bisogni della vita materiale. Ora è un inno alla Pace, con le spalle volte alla Fortuna.

E lo stesso concetto, variopinto, a diverse faccette, inesausto, [p. 180 modifica]come la natura. Nell’Anacreonte è un sublime a rovescio, il Fato onnipotente giú, e il Savio sul piedistallo:

                                         Saggiu è cui disiu nun stenni
Fora mai di la sua sfera,
E nun cura li vicenni
Di la sorti lusingherá.
     Chi sa cogghiri l’istanti
Menu amari di la vita,
L’autri annega tutti quanti
’Ntra ’na malaga squisita:
     O ’ntra un siculu licuri,
Chi la facci avviva ’n russu,
E li cancari e li curi
Manna tutti in emmaussu.
     S’inflessibil’è lu fatu,
Cosa mai sperami d’iddu?
Sia benignu, sia sdegnatu,
Mancia caudu e vivi friddi. (Viva ilaritá)
               

Il piccante è questo appunto, un concetto cosí serio nell’apparenza frivola di un mero scherzo. Altrove è la Natura, che invita a seguirla Martino, invescato nell’impuro aere della cittá.

La Natura gli rappresenta le stie bellezze, e ci è tale magia di stile, che sei in piena orchestra, tra’ motivi piú varii della bellezza campestre. Ecco uno slancio Urico, che si chiude con una immaginetta: Amore che acconcia il nido a una tortorella:

                                         Veni, dilettu, veni,
La Matri tua ti chiama
Ntra li vuschiti ameni,
Sutta ’na virdi rama.
     La paci in cui mi fidu
Trovi cu mia sulidda,
E Amuri chi lu nidu
Conz’a ’na turturidda.
               
[p. 181 modifica]

Ecco una musica delicata e graziosa uscire dallo stesso oggetto, senza che ci sia aggiunta nessuna impressione:

                                         Li susurranti apuzzi
Sparsi ’ntra ciuri ammira,
Tornanu a li cidduzzi
Ricchi di meli e eira.
               

Ecco animarsi l’acqua, e parlare all’erba con quella bonomia del cuore, che non ha parola nella nostra lingua:

                                         Lu gratu murmuriu
Di l’acqua chi ddá scurri,
All’ervi dici: addiu,<brIeu partu, chi vi occurri?
     Vuliti nutrimentu?
Versu di mia stinniti
Li radichi, e a mumentu
Lu nutrimentu avriti.
               

Musica gentile e amabile, attraversata dalle più elevate note del sublime. «Cinquanta secoli vi guardano da queste piramidi!». E qualche cosa di piú profondo e di piú gigantesco suona in questi versi:

                                         Li palmi e pini sunnu
Piramidi fastusi,
L’epochi di lu munnu
Ieu tegnu in iddi chiusi.
               

Com’è piccolo l’uomo dirimpetto alla natura, l’uomo che ha tanta presunzione! E n’esce un sublime morale, pieno di disdegno:

                                         Chiddi chi umanu ingegnu
Metti a lu primu rangu,
L’oru e li gemmi, eu tegnu
’Ntra rocchi, crita e fangu. (Benissimo)
               
[p. 182 modifica]

Ed eccoci ora innanzi un’altra faccetta del concetto, il Poeta. Argomento trattato da parecchi, e il piú con ragionamenti mescolati d’immagini e di slanci appassionati, spesso bei pezzi di eloquenza, piú che poesia. Il poeta del Meli è quasi solo spirito, si sente e non si vede, vive di poesia, sembra quasi non senta i bisogni materiali, la vita è a lui una festa, e la gode cantando. Concetti non espressi, ma intraveduti, come dietro un velo, e il velo è la cicala. Se non che la cicala non è qui un essere simbolico, un coperchio del poeta, è lei, un essere vivente, nella pienezza della sua personalitá. E n’esce una controfavola, una confutazione della famosa favola eternata da Lafontaine, La cicale et la fourmi. La cicala si sente e non si vede, nascosta la testa dietro una pampina, quasi cortina. È cosí piccola,, e si fa cosí grande col suo canto. Si nutre di rugiada, e pare non abbia corpo, quasi un Iddio. Il passaggiero nelle calde ore della state, ricreato da quelle note, si addormenta dolcemente. Che importa a lei lo sparlare della formica avara, che per vivere stenta la vita? Può rispondere: — Se la vita è stento, tientela, nessuno te la invidia. Ma se la vita è piacere, io me la godo in compagnia delle muse, e non morrò mai tutta. — Particolari deliziosissimi, dove trovi tutta la vita della cicala, e tutto il pensiero di quella vita. Ma cosí esposta non è che l’arido schema, e udite qualche brano, e ci vedrete intessuti i p:u delicati fiori della poesia, tra una melodia di note e una ingenuitá di sentimenti che ti chiamano sulle labbra quel tal riso di soddisfazione innanzi a cosa bella:

                                         Cicaleda, tu ti assetti
Supra un ramu la mattina.
Una pampina ti metti
A la testa pri curtina,
E dda passi la jurnata
A cantari sfacinnata.

     Benchi picciula si tantu
Ti fai granni e quasi immenza,
Propagannu cu lu cantu
La tua fragili esistenza.....
               
[p. 183 modifica]
                                         Quannu è Febu a lu miriu,
Li toi noti su’ a lu stancu
Passaggeri di arricríu;
Posa a l’umbra lu so ciancu,
E a lu sonu di tua vuci
S’addurmisci duci duci.

     Ái rugiada in nutrimentu,
Di gentili corpu e finu,
Senza carni e senza sangu,
Di li Dei quasi a lu rangu.
Chi t’importa si ridicula
Poi ti sparra la furmicula?

     A st’avara scunuscenti
Cci poi diri: si la vita
Si misura da li stenti,
Tenitilla e sia ’nfínita,
Né crid ’iu si possa dari
Cui ti l’aja a ’nvidiari.

     Si però la vita è un donu,
Chi a gudirlu datu sia,
leu gustannu lu so bonu
Di li Musi ’n cumpagnia,
Haju campatu, e ardisciu diri:
Tutta mai purrò muriri.
               

Dietro la cicala ci è Meli stesso, che può dire con giusto orgoglio di sé:

                                    Tuttu mai purrò muriri.                

Questo levarsi al di sopra de’ bisogni materiali, questo disprezzo di tutto ciò che ti può dar la fortuna, onori, ricchezze, gloria, come si vede nella poesia intitolata Illusioni ti dá la pace dell’animo.

                                    È la Paci la mia amica,
La mia cara vicinedda.
               
[p. 184 modifica]

L’ode alla Pace ha a riscontro un’altra alla Fortuna, e si compiono a vicenda. Pace e Fortuna non vanno insieme. L’ode alla Pace non rappresenta le qualitá astratte di quest’essere allegorico, ma si gli effetti suoi sull’animo:

                                         D’iddu accantu nun sentu guai,
Campu spicciu, giru tunnu,
E cu pocu, pocu assai
Nenti ’nvidiu ’ntra stu munou.
     Si mi manciú un tozzu duru,
Mi l’approva e dici: sedi,
E stu tozzu vi assicuru.
Mi va a l’ugnu di lu pedi.
     Quannu posu testa a lettu,
Dormu saziu comu un ghiru,
Grati sonni e di dilettu
Di la menti vannu ’n giru.
               

Sul monte sacro delle Muse la Pace gli sta allato e gli accorda la «sampugna», e mentre canta, vede sotto di sé:

                                    Terra, mari e tuttu quantu
L’omu ambisci e nun pussedi.
               
Tutti corrono appresso alla Fortuna:
                                         È Furtuna ’ntra ’na rota
Chi currennu a rumpi-coddu
Auta a vascia, gira e sbota
Ora a siccu e ora a moddu.
               
Ma lui si stringe alla Pace.
                                    Chi li lochi sularini
Fa cchiú grati d’un palazzu.
               

Nell’ode è un tono riposato e tranquillo, come di core contento, che si appaga e gode: immagini semplici, molta [p. 185 modifica]evidenza e stile andante. Il savio che canta e vede sotto di sé la Fortuna, è l’immagine prominente, e i quattro versi intorno alla Fortuna ti fissano per proprietá e vigore.

L’ode che le sta di rincontro, la Fortuna, che sviluppa in senso negativo lo stesso concetto, ha per contrario un tono svelto e quasi scherzoso:

                                         Oh! ca passa! allerta, allerta!
La Furtuna veni a tia!
Vacci ’ncontru pri la via.
Facci asciari porta aperta...
     A sti vuci affacciu e viju
Donn’altera e risplendenti!
Prevenutu da li genti
Ieu la porta sbarracchiu.
               

Ricordatevi la Fortuna del Guidi, tanto vantata a quei di, quella superbona che poi mi ha aria di una pettegola quando dopo tanti vanti a suon di tromba se la piglia con un contadino e gli abbrucia le messi. Piú fino è qui il concetto, e ti coglie improvviso come un epigramma. La Fortuna respinta dal poeta vorrebbe colpirlo, ma si fa piccolo piccolo e lei, avvezza a colpire le cime, lo perde con l’occhio Lepida e arguta conchiusione, con la quale si ribadisce il concetto che il Savio non ha nulla a temere dalla fortuna:

                                         Purchi resti in mia la paci,
Staju bonu ccá unni sugnu.
     Ristau fridda comu nivi,
Poi pretisi fari scasciu;
M’eu mi misi tantu vasciu,
Ca di l’occhi cci spirivi.
               

Questo è il mondo della natura e della pace, che il poeta sotto si ricche forme ci mette innanzi. E ci vive entro, perché non è imparato da’ libri, è mondo suo, è l’anima sua, Musa ispiratrice è il sentimento voluttuoso della bella natura. In Meli, come in tutt’i poeti italiani, eccetto forse soli Dante e [p. 186 modifica]Leopardi, non ci è il sentimento della natura in quanto natura, cosí profondo e fantastico e pensoso, come si trova ne’ tedeschi. Ci è la natura, ma come bella, tutta al di fuori, tutta colori e riso e splendore. La natura si confonde nella sua anima con lo stesso sentimento della bellezza. La donna stessa egli non la sente come donna, ma come bella natura, e contempla quelle «labbruzza» e quegli «occhiuzzi» con lo stesso sentimento estetico che contempla i fiori e le stelle. (Benissimo)

Cosa che in mezzo alla voluttá del godimento gitta non so che casto e quasi verginale, che stacca tanto il nostro poeta da quella turba di arcadi, i quali, quando non volevano essere freddi, riuscivano osceni. (Benissimo)

La Buccolica o il poema delle quattro stagioni è tenuto il suo capolavoro, uscito fresco e fragrante dalla vita e dal cielo siculo. Voglio darvene qualche idea. Prendiamo il Dameta. Siede su di una collina con la sua Dori, e vede le ombre calare da’ monti, «spruzzannu supra li campagni la suttili acquazzina», e fumare le capanne, e ritirarsi gli agnelli e i vitelluzzi, e tacere gli uccelletti tra i rami, e lá in fondo al vallone cantare l’usignolo; e allora:

                                                   scossu e traspurtatu
Da l’amabili oggetti ch’avia accantu,
Senz’aspittari autra armuma chi chidda
Chi respirava ’ntornu la natura,
Teneru e gratu ’ncuminciau lu cantu.
               

Ciò che ispira Dameta, è la bella natura, e non gli bisogna musica, gli basta quell’armoma:

                                                   Sti silenzi, sta virdura,
Sti muntagni, sti vaddati
L’á criatu la natura
Pri li cori ’nnamurati.
     Lu susurru di li frunni,
Di lu ciumi lu lamentu,
L’aria, l’ecu chi rispunni,
Tuttu spira sentimentu.
               
[p. 187 modifica]
                                                   Stu frischettu ’nsinuanti
Chiudi un gruppu di piaciri,
Accarizza l’alma amanti,
E cci arrobba li suspiri. (Viva impressione)
     Donna bedda senz’amuri
È ’na rosa fatta ’n eira;
Senza vezzi, senza oduri,
Chi nun vegeta né spira.
     È l’amuri un puru raggiu,
Chi lu celu fa scappari,
E chi avviva pri viaggiu
Suli, luna, terra e mari.
     Iddu d’una a li suspiri
La ducizza cchiú squisita,
Ed aspergi di piaciri
Li miséri di la vita.
     Mugghia l’aria e a so dispettu
Lu pasturi a li capanni
Strinci a sé l’amatu oggettu,
E si scorda di l’affanni.
     Quann’unitu a lu liuni
Febu tuttu sicca ed ardi,
Lu pasturi ’ntra un macchiuni
Pasci l’alma cu li sguardi.
               

Natura, donna e amore, qui tutto è fuso nello stesso sentimento di dolcezza e di tenerezza casta, quasi il poeta temesse di guastale tanta bellezza col suo fiato. Un nuovo spirito giovanile anima la vita campestre, qui tutto è semplice, non maniera, non Iezii, non raffinatezza, non mostra di eleganza, e il pensiero, piú che a Poliziano o a Tasso o a Guarini o a Sannazaro, va alla natura quale la pinse Anacreonte e la guardò Teocrito; con un sentimento piú sviluppato e piú ricco nel nostro poeta, potentissimo di evidenza anche nelle piú difficili e delicate gradazioni. Grande varietá di costumi e di attitudini e di caratteri e di particolari, tutta una scala di suoni dal piú tenue e delicato al piú grottesco, come in quel suo originalissimo inverno. Vedete la uccisione del porco, e la festa della gente che [p. 188 modifica]accorre. Viene la «biunna Clori ’ntra na saia russa, e da li stritti pieghi l’occhiu azzurru traluci, e la vrunnitedda ’nzuccarata Joli, chi ad ogni passu, ad ogni gestu pinci una grazia nova, e Licori la grassotta di l’occhiu niuru e brillanti». E ciascuna colle sue vesti, co’ suoi atteggiamenti. Ecco Joli:

                                                                  un virdi pannu
Cci gira pri la testa ed abbassannu
Si unisci cu lu blu di la fadedda;
Chi spinta pri li fanghi e sustinuta
Da lu vrazzu sinistru, si raccogghi
Tutta ad un latu in morbidu volumi.
               

Viene Filli amata da Ergasto, e le battono le mani, e Filli per pudore «cala l’occhi, e ’n facci».

                                    Senti ’na vampa e fora cci scannia
’Mmenzu a lu biancu.
               

Un po’ di questo grottesco nella grazia e nella delicatezza, di un grottesco che fa la parte del Satiro negli idillii, si vede anche tra’ pescatori nelle Canzoni:

                                                   Lu mari ’nvita,
Lu friscu alletta:
Via chi si aspetta?
Via chi si fa?
Picciotti beddi,
Viniti a mari,
L’acqui su’ chiari;
La varca è cca.
     Oh bedda Nici,
Scuma di zuccaru,
E cui ti fici,
Ch’’un m’ami cchiú?
     ’Ntra sti labbruzzi
Cc’è l’incantisimu,
               
[p. 189 modifica]
                                              Dintra st’ucchiuzzi
Cc’è un non-so-chi,
     ’N’amaru-duci
Chi s’introduci,
E manna ’mpasimu
L’arma a ddi-ddi.
     Pri quantu aduru
Ss’ucchiuzzi amabili,
Bedda, ti juru
Ch’un pozzu cchiu.
     Forsi pirchi nun m’ami,
Aju a cripari in peddi?
Ad autri assai cchiú beddi
Cci dissi sciú-nna-ddá!
     E tu ti cridi forsi,
O pezzu di sumera,
Chi autr’asina a la fera
Di tia nun ci sarrá?
     Ieu cchiú stimari a tia?
Ieu tariti cchiú ’nnormi?
Va curcati, va dormi,
Cosa pri mia nun si.

     Chi c’è? ’un semu cchiú nenti?
E chi? nun sú cchiú chidda?
A la tua crucchiulidda
Nun ci fai cera cchiú?
     Figghioli, ’un c’è cchiú munnu,
E cui lu vulia diri?

     E cumu la sai tutta!
Davanzi billi balli,
Darreri pri tri calli
Tu canci anchi a lu re.
               

Sdegni, gelosie, vanitá, dispetti, malizie, ipocrisie insinuano in questa bella natura una grande varietá di motivi grotteschi e scherzosi. Fra le piú spiritose è l’egloga Pidda, Lidda e Tidda, [p. 190 modifica]dove la strofa cantata da Lidda cosí piena di foco, cosí scintillante di malizia è rimasta nella memoria di tutti:

                                         Quannu a Culicchia jeu vogghiu parrari,
Ca spissu spissu mi veni lu sfílu,
A la finestra mi mettu a filari;
Quann’iddu passa poi, rumpu lu filu;
Cadi lu fusu, ed eu mettu a gridari:
Gnuri, pri caritá pruitimilu;
Iddu lu pigghia; mi metti a guardari;
Ieu mi nni vaju suppilu suppilu.
               

Grottesco, grossolano, pure attraente, perché impastato dalla natura e prorompente dall’intimo midollo della vita, dominato da note dolcissime, da motivi piú vivaci e piú teneri:

                                              Spacca l’alba da lu mari
Eccu giá lu suli affaccia.

     Senti comu da li rami
Ciuciulianu l’oceddi
E li pecuri e l’agneddi
Ntra lu chianu fannu ’mmé.

     Duci sonnu venitinni
Supra st’occhi chianciulini.
               

Lo stesso dolore geme con soavitá molle e ti ricrea e ti alletta l’orecchio e il core, com’è in quel capolavoro che è intitolato Polemone. Non solo ci è il sentimento della natura, ma questo sentimento è voluttuoso. Il poeta si sente uno con quella e la desidera e la gode, e l’ardore del desiderio glie la ingrandisce, le dá proporzioni straordinarie, come certe statue colossali, pur colte dal vero, perché rispondono all’impressione Nessuno stima che ci sia esagerazione, quando il poeta dice:

                                                   Occhiuzzi niuri,
Si taliati,
Faciti cadiri
Casi e citati.
               
[p. 191 modifica]
                                                   Lu pettu s’agita,
Lu sangu vugghi,
Su’ tutti spinguli.
Su’ tutti agugghi.
               

Un sentimento voluttuoso illuminato dalla grazia e dalla delicatezza è nella regina delle sue odi, ch’egli intitola Lu labbru, e che il popolo ha battezzato con questo nome «l’apuzza nica»:

                                              Dimmi, dimmi, apuzza nica.
Unni vai accussi matinu?
Nun c’è cima ch’arrussica
Di lu munti a nui vicinu.
               

Parte di questa potenza si deve al dialetto. Come Dante e Petrarca furono bene ispirati a lasciare il latino e poetare in volgare, bene ispirato fu Meli. L’Arcadia trasportata nel dialetto acquista una virtú nova. Un pensiero insipido e volgare, se lo incontrate in una lingua straniera, vi par nuovo. Ed è nuovo effettivamente, perché la parola straniera te lo porge in un’altra immagine, sotto un altro aspetto. Questo sentite nel dialetto, dove vi brilla innanzi e vi stupisce quella che nella esausta parola italiana ha perduto ogni sapore. E qual dialetto! dove è una melodia che ti spetra e t’intenerisce, quando pure che i sentimenti non sieno teneri, una melodia sino alla tenerezza, e punto monotona e addormenta tri ce, come una ninna nanna i che degeneri in cantilena. (Benissimo)

Non te ne dá il tempo la velocitá di questo dialetto sveltissimo com’è l’ingegno siculo, pieno di scorciatoie e di abbreviazioni, con trapassi rapidissimi, tutto parola propria e piena di senso, senza frasi, senza circonlocuzioni, e mai non stagni, e corri corri. (Benissimo)

Conchiudo. Il Meli trovò una vecchia letteratura e trasportandola nel suo dialetto vi spirò la freschezza della gioventú, ne fece il mondo della veritá e del sentimento. Quel mondo [p. 192 modifica]della naturalezza e della veritá che Parini e Goldoni predicavano, Meli l’aveva giá bello e creato!

(Fragorosissimi e ripetuti applausi che si protraggono fin nella strada.

L’oratore in mezzo un crocchio di plaudenti dice:)

Come l’acqua col suo mormorio dice all’erba: — Addio! — , anch’io dico a voi: — Addio! — .

E se è vero che la patria è non dove si nasce, ma dove si trova comunione di affetti e di sentimenti, oggi io mi sento vostro concittadino. Addio!

[Conferenza tenuta l’8 settembre i875 nella grande áula della R. Universitá di Palermo.]