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dove la strofa cantata da Lidda cosí piena di foco, cosí scintillante di malizia è rimasta nella memoria di tutti:

                                         Quannu a Culicchia jeu vogghiu parrari,
Ca spissu spissu mi veni lu sfílu,
A la finestra mi mettu a filari;
Quann’iddu passa poi, rumpu lu filu;
Cadi lu fusu, ed eu mettu a gridari:
Gnuri, pri caritá pruitimilu;
Iddu lu pigghia; mi metti a guardari;
Ieu mi nni vaju suppilu suppilu.
               

Grottesco, grossolano, pure attraente, perché impastato dalla natura e prorompente dall’intimo midollo della vita, dominato da note dolcissime, da motivi piú vivaci e piú teneri:

                                              Spacca l’alba da lu mari
Eccu giá lu suli affaccia.

     Senti comu da li rami
Ciuciulianu l’oceddi
E li pecuri e l’agneddi
Ntra lu chianu fannu ’mmé.

     Duci sonnu venitinni
Supra st’occhi chianciulini.
               

Lo stesso dolore geme con soavitá molle e ti ricrea e ti alletta l’orecchio e il core, com’è in quel capolavoro che è intitolato Polemone. Non solo ci è il sentimento della natura, ma questo sentimento è voluttuoso. Il poeta si sente uno con quella e la desidera e la gode, e l’ardore del desiderio glie la ingrandisce, le dá proporzioni straordinarie, come certe statue colossali, pur colte dal vero, perché rispondono all’impressione Nessuno stima che ci sia esagerazione, quando il poeta dice:

                                                   Occhiuzzi niuri,
Si taliati,
Faciti cadiri
Casi e citati.