Saggi critici/Il principio del realismo
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IL PRINCIPIO DEL REALISMO
M’è venuto innanzi ultimamente l’Annuario di una Biblioteca filosofica, pubblicata a Lipsia fin dal i868, e ricca giá di sessantasette volumi. Mi ha fatto impressione vedere in quella raccolta certi nomi, che da un pezzo erano usciti di moda: Cartesio, Bacone, Locke e fino Condillac. Mi pareva trovarmi in pieno secolo XVIII.
Parimente stupii che in Germania gli studi filosofici fossero ancora coltivati con tanto ardore, che vi fosse possibile una cosí vasta pubblicazione, la quale presso di noi non avrebbe che pochissimi lettori.
E la Biblioteca non è solo una ristampa, ma ci trovo prefazioni, delucidazioni e comentarii, i quali talora pigliano parecchi volumi, e rivelano la presenza di una mente attiva e direttrice. Questa mente è il presidente Kirchmann.
Mi ricordai allora della Societá filosofica di Berlino, di cui il Kirchmann è uno dei membri più distinti e piú attivi. Conoscevo per udita la sua Filosofia della conoscenza e la sua Estetici, e mesi fa m’era venuto alle mani un suo libriccino, intitolato: Il principio del realismo. E mi venne grande curiositá di sapere cosa era in Germania questo realismo, che menava tanto romore, e tirava dall’oblio Locke e Condillac. E tanto piú mi ci accesi, che il nostro filosofo finisce il suo lavoro col desiderio di una comunione intellettuale fra gli uomini colti di tutti i paesi. Sicché, quantunque questi studii mi sieno in gran parte estranei e sieno stati come una vera digressione nella storia del mio pensiero, pur leggo, e leggo, e non mi sazio di leggere.
Era forse la prima volta che leggevo cosí di filato un libro tedesco. E m’avvenne non perché l’autore fosse esperto in quei lenocinii e in quegli artifizii che i francesi chiamano arte di fare un libro, ma perché non si distrae e tira diritto, e parla chiaro e semplice sempre, stretto intorno al suo argomento. Scrittore severo, tutto ordine e tutto precisione, schivo di frasi e di formole e di nebbie eleganti, sgombro di ogni sentimento e di ogni fantasia.
E perché di realismo molto si parla tra noi in arte e scienza, ma generalmente in modo vago e confuso, credo non inutile esporre i concetti di uno scrittore, che a questa materia ha consacrata una gran parte della sua vita scientifica.
Il realismo non si ha a confondere con l’empirismo e il sensismo, rozzo avviamento a quello. E non è lo stesso che il materialismo, venuto su da un uso assai superficiale del pensiero nella trattazione della materia. Lo stesso Hegel biasima l’empirismo, ma non potrebbe biasimare il realismo nella sua forma presente. Perché il realismo pone cosí alto il pensiero, come fanno gl’idealisti.
La differenza è in questo, che l’idealismo considera il pensiero come l’esclusiva e immediata sorgente dell’essere, sicché il piú alto, il primo nell’essere, non può venire appreso che dal pensiero; dove secondo i realisti la esistenza non si può conoscere se non con la percezione, e il pensiero non ha altro cómpito che di lavorare il contenuto dato da quella, purificandolo dalle false apparenze, e tirando di quivi il generale in forma di concetti e di leggi.
Gl’istrumenti della conoscenza sono dunque la percezione e il pensiero; e l’Autore, prima di darci il principio della conoscenza secondo il realismo, analizza questi due istrumenti.
La percezione si ha da’ sensi, e si ha pure dalla coscienza, il senso intimo, o, come dice l’autore, la percezione interna.
Gli organi della prima (percezione) sono i sensi. La seconda non ha organi. Essa ha per base i diversi stati della propria anima, cerne sono il desiderio, o il sentimento del piacere e del dolore. Questa si potrebbe chiamare appercezione (Selbstwarnehmung).
Ma perché non hai notizia cosí che della propria anima, manca la conoscenza degli stati dell’anima negli altri uomini. Puoi giudicarlo dalla fisonomia, dal gesto, dalle attitudini, per via di ragionamenti, perciò col pensiero; ma non potrai vederci piú in lá di quello che ti dá l’esperienza propria. Perciò il «conosci te stesso» è la base anche per tutti questi stati spirituali.
L’esperienza ti dá l’oggetto come estrinseco a te, «un di fuori», e te lo dá immediatamente e subitaneamente, senza uso di categorie, come il principio di causalitá, e senza processi, senza azioni e reazioni. E te lo dá necessariamente; anche il piú fanatico idealista è sottoposto a questa necessitá, e dee porre l’oggetto fuori di sé, come esistente.
Senza la percezione mancherebbe al pensiero il concetto dell’essere. L’esistente ha un contenuto e una forma. Come contenuto, passa nell’anima col mezzo della percezione nella forma del sapere, di un conosciuto. Ma non ci passa ugualmente come forma, come essere solo; la resistenza che questa forma offre per la sua durezza e il suo limite, rivela la sua presenza, sicché l’essere nella sua natura positiva si sottrae alla conoscenza, e il suo concetto è per noi solo negativo, è l’inconoscibile nelle cose. Quando Schelling ed Hegel dissero: essere e sapere sono il medesimo, e insieme sono differenti, dissero il vero; perché sono identici per rispetto al contenuto, e sono eternamente differenti per rispetto alla forma.
Come avviene che il contenuto dell’essere passi nell’animo per via della percezione, è un problema di filosofia e di fisiologia rimasto oggi, malgrado tanti progressi, cosí insoluto come al tempo de’ greci. La scienza non ha fatto altro che trasformare l’essere nel sapere (idealismo) o il sapere nell’essere (materialismo). Il materialismo dimentica che tutte le osservazioni sono riuscite a stabilire la reciproca azione del cervello e degli stati dell’anima, ma non la loro identitá. Non ci è istrumento cosí perfetto che possa fissare gli ultimi limiti del corporeo e le molecole del cervello e le loro vibrazioni: il legame tra la fine del corporeo e il principio dello spirituale rimane ignoto. Movimenti di molecole corporee sono e saranno sempre un corporeo, un diverso dal conoscere. E sono anche un semplice gioco tutt’i sistemi del monismo, cosí quello del Plotino, come quelli di Spinoza, Fichte, Schelling ed Hegel. Questa unitá, che si distingue poi subito di nuovo in essere e sapere, è parola vuota, da cui si può cavare tutto ciò che piace secondo l’abilitá del prestigiatore, ma che non dice niente di concepibile.
Ma ci è un secondo istrumento della conoscenza, ed è il pensiero, la cui attivitá bene osservata ci mostra parecchi indirizzi: ripete come nella memoria; unisce o divide, come nella sintesi e nell’analisi, paragona, confronta, rapporta, esprime le diverse specie di conoscenza, l’attenzione, la certezza, la necessitá. Queste sono le sue attivitá o forze.
Ricordando, non gli è più bisogno l’oggetto: gli basta rappresentarselo. Dividendo l’oggetto in parti, proprietá, elementi e concetti, facilita il linguaggio e la conoscenza, e da’ concetti sale alle leggi delle cose che è lo scopo della scienza. Congiungendo oggetti e parti di oggetti, come fa il poeta, produce nuove immagini o rappresentazioni, senza potere oltrepassare le forme dell’esistente. Unitá formali altre che le esistenti non sono rappresentabili, e rimangono vuote parole, come molti concetti filosofici di questa natura.
Riassumendo, il contenuto di tutto ciò che è, corpo e spirito, può solo esser conosciuto dall’uomo con la percezione; sola la percezione nelle due sue guise forma il ponte che dall’essere conduce al sapere, e sola essa afferma l’identitá del contenuto, come essere e come sapere, cioè la sua veritá. Questo principio della conoscenza nella sua formola piú semplice si può esprimere in queste due tesi:
Ciò che è percepito esiste;
Ciò che si contraddice non esiste.
In queste due tesi unite è il principio del realismo: da ciò viene non pure il suo contenuto, ma la sua veritá.
Il pensiero lavora d contenuto dato dalla percezione, e in virtú della seconda tesi, il principio di contraddizione, a cui sottosta quella, rigetta tutto ciò che è contraddittorio, perciò falso; il contenuto cosí purificato è vero.
Il pensiero dunque sopravviene alla percezione, ed è il suo lume e il suo controllo. Solo ciò che il pensiero afferma vero, è veritá. Né finisce qui la sua opera. Con la sua forza di analisi e di sintesi forma le specie e i generi, trova i concetti nelle cose e li usa alla scoperta delle leggi universali.
Il principio del realismo si risolve nell’antica tesi: «Nihil est in intellectu, quod non fuerit prius in sensu», comprendendo tra i sensi anche il senso intimo, la percezione interna.
Solo con questo principio si è acquistata ogni conoscenza delle corporali e spirituali cose; la scienza non ha altro mezzo alla conoscenza dell’essere. I concetti delle cose non sono innati; non rivelati da sostanze piú alte e da divinitá; dobbiamo guadagnarceli con la nostra fatica, col lavoro della esperienza e del pensiero. E come il contenuto delle cose è inesauribile, il lavoro non ha fine. Questo solo è il mezzo e per la vita pratica e per la scienza. La filosofia non ha mezzi suoi proprii; non ci è nessuna «visione intellettuale», di cui parlano Platone, Spinoza, Schelling, ed altri. Una visione cosí fatta non è che un miscuglio di esperienza e di pensiero, una pretesa facoltá dello spirito, che contenga in sé l’immediato dell’esperienza e la virtú analitica e sintetica del pensiero.
Non ci è facoltá dello spirito, che dia un contenuto dell’essere non dato prima dalla percezione. Non c’è fantasia di filosofo o di poeta, che possa aumentare nelle loro specie le determinazioni semplici de’ colori, de’ suoni, o i semplici stati dell’anima, piacere, dolore, appetito, senso morale; è impossibile all’uomo rappresentarsi un colore o un sentimento altro che ciò che vede e sente; l’arte può collegare gli elementi, non li può inventare.
Soprattutto è pericoloso alla scienza valersi alla scoperta del vero di sentimenti e di desiderii morali, religiosi e scientifici; come sarebbe la tendenza all’assoluto o all’unitá, e il desiderio di una stretta logica nella genesi o nello sviluppo delle cose. Perciò le matematiche, che sono pure di questi sentimenti, hanno un valore generalmente riconosciuto. Piú i sentimenti operano nelle scienze, e piú le dispute aumentano.
Accanto a questa conoscenza dell’essere ci è nell’anima un’altra conoscenza che non dá nessun contenuto dell’essere, ma lo circonda di una infinitá di relazioni, e nascono forme che hanno origine nell’anima, e sono in intimo legame con l’essere e che per una naturale illusione sembrano essere anch’esse, anzi esse il vero essere.
Le forme di relazione non rappresentano alcun essere, e nella loro purezza sono vuote di ogni contenuto esistente; ma perché si possono applicare a ciascun contenuto e vi sono strettamente legate, queste forme di relazione si confondono e nell’apparenza volgare e nell’illusione scientifica col concetto dell’essere. E perché ricevono in sé i piú opposti oggetti, e lo stesso oggetto segnano con le piú opposte determinazioni, nasce la contraddizione. Le antinomie di Kant e le contraddizioni di Hegel nascono appunto da questa confusione tra le relazioni e il concetto dell’essere.
Le forme di relazione non nascono le une dalle altre, sono suggerite dall’esperienza, secondo che a poco a poco si manifestano nella lingua dei popoli colti, sotto forma di avverbi, preposizioni, congiunzioni. Tali sono il «non», «l’e», e l’«o»: l’eguale, il numero e il tutto; il tutto e la parte; causa e effetto: sostanza e accidente; l’essenza e l’inessenziale, la forma e il contenuto, il di fuori e il di dentro.
Queste forme per applicarsi hanno bisogno di piú oggetti, almeno di due. Perciò non sono rappresentazioni di alcun oggetto. Un oggetto che riceva una di queste forme, può ricevere l’opposta, e può essere secondo le relazioni vicino o lontano, giovine o vecchio, rimanendo nel suo essere sempre quello. La relazione dunque non attinge l’essere, e male si confonde con quello. Lo stesso oggetto può essere ora tutto, ora parte, ora causa, ora effetto. La parte può ritornare tutto, l’effetto può ritornare causa, l’accidente può ritornare sostanza, e cosí via all’infinito; un gioco, col quale nelle mani di Spinoza l’uomo diviene un modo o un accidente di Dio. Queste serie infinite che oggi hanno tanta parte nella filosofia, appartengono alle relazioni che esprimono cosí la alterna vicenda delle loro opposizioni, ma la catena infinita delle cause e degli effetti non porta che anche nell’essere ci sia una infinita serie dell’uno nell’altro. Questa confusione è la base delle antinomie di Kant. Nella tesi l’oggetto è considerato come esistente, e perciò è finito; nell’antitesi è considerato come rapporto e cade in una serie infinita. Basta conoscere la natura delle relazioni per risolvere queste antinomie. E perché Kant non la conobbe, fu costretto ad abbassare l’esistente a semplice apparenza. Simile confusione è in Hegel, e genera le sue contraddizioni. Nel concetto del limite egli trova una contraddizione, perché il limite costituisce la realtá dell’esistenza, ed è insieme la sua negazione, atteso che nel limite ci è insieme il finire di un oggetto e il cominciare di un altro. £ chiaro che il limite è una determinazione dell’essere e non un rapporto; ora qui una prima volta è preso come esistente, e una seconda volta come un rapporto.
Ma queste forme di relazione, poiché non sono derivate dall’essere, onde vengono? Nessuna risposta può dare il realismo; le trova nel pensiero di tutti gli uomini e in tutte le lingue, come ci trova il principio di contraddizione.
Esse valgono a facilitare il pensiero e a dare delle cose una piú accurata cognizione. Co’ paragoni, co’ confronti, co’ rapporti la scienza entra nel compiuto possesso dell’oggetto. L’essere come sapere è giá spiritualizzato; mediante queste forme, che ti danno le somiglianze e le differenze, le connessioni e le successioni, è spiritualizzato ancora piú. Le scienze debbono ad esse gran parte del loro progresso.
All’attivitá del pensiero appartengono ancora le diverse guise del conoscere. Veggo un uomo per la prima volta, la mia conoscenza viene dall’esperienza; lontano me lo ricordo e me lo rappresento; la conoscenza è di un’altra guisa, è semplice rappresentazione. E se ci aggiungo l’attenzione, la conoscenza è pure di un altro grado, è piú intensa e piú esatta. E ci è certezza, quando la conoscenza viene dall’autoritá o dalla fede, e ci è necessitá, quando è fondata sul principio di contraddizione.
Ora. questi gradi di conoscenza non esprimono determinazione esistente nell’oggetto, ma il modo particolare, col quale è stato conosciuto. Pure anche qui il legame tra il modo di conoscere e l’oggetto è cosí stretto, che il pensiero volgare e la lingua considerano quel modo come proprietá dell’oggetto. E senti dire: — Uomo noto, fatto certo, dopo il lampo è necessario il tuono — . A scoprire l’illusione basta riflettere che lo stesso oggetto si sa in diverso modo, ed è noto a quello e certo a questo. Di che nessuno piú dubita.
Intanto, chi guardi la storia della filosofia fin da’ primi tempi, vedrá che il vero e il primo essere è stato cercato appunto in quelle categorie, che esprimono forme di relazione e di conoscenza, ma che non sono immagine di alcuno essere, e perciò sono inette a dare scienza dell’essere. L’esperienza è stata tenuta in poco conto, come mezzo troppo volgare. E perché l’essere dato dalla esperienza è mutevole, e l’esperienza ha pure le sue illusioni e le sue fallacie, e solo i concetti offrono nel loro contenuto l’eterno e l’immutabile, né l’esperienza può secondo Kant spiegarci le leggi generali; il pensiero fu proclamato come unica via alla veritá, e fu inventata accanto all’intelletto una specie particolare di ragione, la quale come visione intellettuale potesse senza fatica ficcare nel nostro cervello i piú alti concetti e leggi. I rapporti e i diversi modi del conoscere, come quelli che non derivando dall’essere avevano pur con quello tale legame che potevano apparire come sue categorie, confermarono la filosofia in quest dirizzo, e cosí queste categorie del puro sapere divennero categorie dell’essere primo, e s’inventò l’assoluto. Di tal genere sono pure le categorie di Kant, eccetto quella del reale, e quantunque egli riconosca che sono unicamente forme del sapere, non originate dall’essere, dá però ad esse un significato di essere, quando sostiene che solo col loro mezzo è possibile l’esperienza.
Il principio della conoscenza secondo il realismo non può essere provato in forma di una geometrica deduzione o di un sillogismo. A suo sostegno valgono parecchie osservazioni.
Innanzi tutto il valore obbiettivo della percezione e il principio di contraddizione sono fatti ammessi da tutti; e usati da tutti, da’ piú rozzi a’ piú colti, fin dal fanciullo, ancorché non li conosca. Sono tesi ingenite all’anima, e non vuote formole, ma segnano forze dell’anima, che operano secondo quel principio, e riempiono la scienza di un contenuto. E perché segnano la legge di una forza e di un fatto irresistibile al di dentro dell’umano sapere, operano con necessitá, tutti vi sono sottoposti.
Essendo il principio del realismo comune a tutti gli uomini, che con quello acquistano le loro conoscenze, e determinano la loro venta, a questa filosofia è possibile un linguaggio chiaro e preciso, puro di contraddizioni, accessibile al piú ignorante e al piú semplice, il quale trova ivi dentro le stesse forze e leggi, di cui si vale nella vita quotidiana e che gli hanno formato in gran parte il suo modo di concepire e di parlare.
E non solo nella filosofia, ma in tutti gli altri campi del sapere, morale, dritto, belle arti, il realismo offre una base solida, dove l’osservazione e l’induzione può condurre alla veritá, alla stessa guisa che nelle scienze naturali. L’etica soprattutto non è possibile, se tempo e spazio, come affermano gl’idealisti, non sono reali, e se il vero reale è senza spazio e senza tempo, sicché le azioni umane diventano una semplice apparenza, prive di valore morale. Per creare un’etica, Kant, Fichte, Schopenhauer hanno dovuto abbandonare il loro idealismo, e al mondo abbassato a fenomeno dare artificiosamente una certa realtá.
Oltre a ciò, il realismo non ha bisogno di alcun presupposto, senza il quale non possono funzionare altri sistemi, non di categorie, non di sviluppi dialettici e di successioni genetiche; esso entra nel suo oggetto immediatamente. All’uomo basta usare i sensi per giungere alla conoscenza, aiutato dalle forze e attivitá del pensiero, che corregge le illusioni, elimina le contraddizioni, alza la scienza a’ piú alti concetti e per induzione alle piú alte leggi, e le differenze e le opposizioni che pullulano ne’ primi passi del sapere, diminuisce a poco a poco nelle piú alte regioni. Al realismo non è bisogno che le differenze scompaiano del tutto, e che il dualismo tra corpo e spirito, essere e sapere, si risolva in una unitá superiore nel monismo. Non dice giá che sia impossibile, ma non ne ha necessitá, come Plotino, Spinoza e i filosofi dell’identitá; raggiunta anche, bisogna pur di nuovo calare alle differenze, per giungere col loro mezzo alla analisi e alla ricchezza dell’esistenza. E come al realismo non è bisogno alcun presupposto, né alcuna unitá superiore, cosí non gli è bisogno alcuno schema per la partizione della materia; non distribuisce le cose a due o a tre, ma segue le differenze come le dá l’oggetto, e usa quei concetti che conducono alla conoscenza delle leggi.
Perciò il realismo non ha sistema assoluto. L’ordine in cui apparisce un contenuto, è un concetto di relazione, al quale nell’oggetto non è nulla che corrisponda, e serve solo a facilitare la conoscenza. Nell’esistenza tutte le differenze, tutti i concetti alti e bassi e tutte le forze operatrici sussistono tutte insieme e l’una nell’altra. Un sistema è utile per apprendere e per insegnare, e secondo questo scopo si può usare questo o quel sistema. Si può cominciare dall’alto e sinteticamente scendere a’ particolari, e si può cominciare dal basso e salire analiticamente al piú generale. Si può cominciare in fisiologia dal sangue o da’ nervi e in giurisprudenza da’ dritti reali e personali o dal dritto dello Stato. In ciascuno di questi sistemi ci sono opere eccellenti, ciascuno ha i suoi vantaggi. Questo mostra che il sistema non nasce dalle cose, e che non c’è uno sviluppo genetico, su cui sia fondata la veritá e la necessitá del contenuto, come vuole l’idealismo. Costruzioni simili possono lusingare la vanitá, mostrando dalla cattedra acquistato con metodo dialettico quello che si è acquistato con l’esperienza. In questo metodo non ci è la necessitá, ci è piuttosto l’arbitrio. Il realismo è vólto interamente a sviluppare tutta la ricchezza che è nell’esistenza, e lascia la scelta del sistema al giudizio di maestri e discenti; dove l’idealismo pone sopra tutto il metodo e si travaglia intorno a quello, e lascia nell’ombra lo sviluppo del contenuto. Cosí la logica di Hegel non è se non un artificioso edifizio di puri concetti, che ti danzano intorno come spettri, e ti lasciano inappagato, perché non hai modo di valertene alla conoscenza del mondo esistente.
Certo è che tutti i sistemi originati dal puro pensiero offrono debole diga all’errore e al dubbio, e sono presto screditati, e non ci è modo di porre termine alle dispute. Il realismo offre una base di fatto, intorno alla quale concordano tutti gli uomini, e che tronca le dispute. Facile è correggere l’esperienza, ricondurre a leggi le sue illusioni, purgarla di ciò che di falso v’introduce l’immaginazione e il sentimento, provare e riprovare i suoi risultati con nuove e piú accurate ricerche. Né, fatta una nuova scoperta, cade tutto intero l’edificio, come dell’idealismo; il nuovo si adagia sul vecchio, e quando il nuovo sia tale che rovesci tutto l’edifizio, rimane pure un ricco materiale alla costruzione del nuovo.
Non solo il realismo nega gli altri sistemi, ma è un criterio eccellente a scoprire in essi il falso, mostrando dove si allontanano dalla natura e cadono in errori e contraddizioni. Con questo criterio il Kirchmann confuta Kant ed Hegel, e s’intrattiene lungamente nell’esposizione e confutazione del sistema ultimo, tanto celebrato: «la filosofia dell’inconscio». Hartmann dee il suo successo al metodo essenzialmente sperimentale e induttivo, che rende possibile a tutti di seguirlo nelle sue piú astruse o piú delicate concezioni. Ma se il metodo riposa sul realismo, l’autore vi contraddice nella sostanza con la sua ipotesi dell’«inconscio», di un primo essere senza spazio e senza tempo, co’ due suoi attributi, un inconscio ideale e un inconscio volere, e tirato da Schelling va a finire in un idealismo, che in molti punti può essere combattuto.
Certo, come nelle scienze, cosí nella filosofia è ammessa l’ipotesi a spiegare certe difficoltá, e in capo agli uomini di genio spuntano talora improvvise certe concezioni che conducono a ona nuova veritá. Ma il realismo, ammirando pure la genialitá, non s’acquieta alle concezioni oscure e contraddittorie, nelle quali è inviluppato il nuovo concetto, e desidera vederlo ben chiaro, deteiminato, libero da contraddizioni, concorde co’ risultati dell’esperienza, applicando a questi metodi e a queste prove geniali la stessa prova filosofica che adopera in tutte le scienze particolari. Ciò che corrisponde a questa prova, ritiene; tutto l’altro sará un bel gioco, ma non veritá e neppure avviamento a quella.
Ipotesi slmili sono comuni a tutti quasi i grandi filosofi. Platone ha le sue Idee; Aristotile la sua dottrina della divinitá nella metafisica; gli stoici l’indifferenza della virtú e del piacere; gli scettici l’impossibilitá di raggiungere il vero; gli scolastici l’armonia tra’ misteri della religione cristiana e la filosofia; Cartesio il dubbio universale; Spinoza l’unitá del pensiero e della estensione; Leibniz l’armonia prestabilita tra il sapere e l’essere; Kant la fenomenalitá dell’esistente; Fichte il subbietto-oggetto; Schelling la intuizione intellettuale; Hegel lo sviluppo dialettico. É naturale che nessun filosofo oggi, secondo questi esempii, può star contento alla solida base che loro offrono le scienze sperimentali, e fabbricano nuove ipotesi, e lá trovano il vero essere e mettono in loro servigio tutte le ricchezze dell’immaginazione e dei sentimento. Il vero filosofo realista ricusa questi aiuti, anche a costo di parere prosaico e noioso.
Il realismo non è una Minerva uscita ora improvviso dal cervello di un Giove; il suo principio è stato adoperato sempre, quantunque solo alla fine del Medio evo con severitá scientifica e consapevole. Bacone, Locke, fiume, gli enciclopedisti francesi, anche i moderni materialisti hanno lavorato alla sua formazione. L’esempio de’ naturalisti che sono giunti a cosí grandi risultati con l’osservazione e l’induzione, ha fortificato questo indirizzo. Le ultime ricerche sulle forme di relazione e di conoscenza, per ricondurre l’«a priori» alla sua vera natura, e a cagione de’ suoi legami con l’«a posteriori» non lasciarsi trarre in errore e mescolare l’uno con l’altro, provano ch’esso può seguire il penserò fino nelle piú alte regioni e nelle sue piú sottili operazioni. Non è l’empirismo, di cui Hegel potè dire che adopera le categorie senza critica e senza coscienza.
Del resto, il nuovo realismo può essere considerato ancora come una ulteriore formazione della dottrina di Hegel. Tutti i grandi pensieri dell’eminente filosofo, come l’identitá dell’essere e del sapere, la natura obbiettiva de’ concetti, il significato della moralitá nella storia del mondo e parecchi altri vi sono non solo ammessi, ma lavorati a nuovo, rimosso ciò che di oscuro e di contraddittorio, di falso mescolato col vero è lá dentro, tiratili fuori nella loro piena veritá in una forma chiara.
Il Kirchmann cosí terminando esprime il desiderio che la sua esposizione acquisti al realismo molti seguaci, e rimuova parecchi malintesi. Solo nel realismo possono i filosofi tedeschi uscire dal loro isolamento, dal ristretto circolo degl’iniziati e dei credenti, ed entrare in comunione vivente non solo con tutti gli uomini colti, ma anche co’ filosofi degli altri paesi civili.
Ed è appunto questo desiderio, che ha mosso me a dare di questa esposizione un’idea quanto ho piú potuto esatta a’ miei concittadini. Noi siamo generalmente disposti piú ad ammirare i tedeschi che a studiarli ed entrare nel pieno possesso della loro coltura. L’influenza del pensiero germanico sul nostro spirito è grande; ma appunto per questo, se vogliamo essere uomini liberi e non macchine, bisogna studiarlo questo pensiero e guardarlo da tutti i lati. Uno studio accurato del pensiero altrui rende noi originali, anche quando ci persuadiamo di appropriarcelo. Il Kirchmann ha fatto opera utile a circoscrivere in proprii confini il realismo, allontanandone le superficialitá grossolane dell’empirismo e le ipotesi frettolose del materialismo. Cosi ha rimossi molti preconcetti e molte ^obbiezioni, che nascono da simili confusioni.
Pure non è riuscito, mi pare, ad acquistare molti aderenti al suo realismo, come dottrina. Sotto questo aspetto la sua esposizione non mi pare compiuta né persuasiva. Pochi potranno partecipare al suo odio d’iconoclasta verso l’immaginazione e il sentimento, che pur coesistono nello spirito accanto al pensiero e gli danno lume e calore. E se lo traviano e l’ingannano. stia pure in guardia; ma è un’esagerazione il cacciarli fuori, come se lo spirito potesse dividersi in fette. Pochi pure potranno disconoscere, come fa lui, la presenza del pensiero nella percezione, ancorché in modo inconsapevole, e la sua importanza primaria nel principio conoscitivo. Se è vero che senza percezione non ci può essere conoscenza dell’essere, è anche vero che senza pensiero non ci può essere percezione. È inutile disputare del prima e del poi, coesistono ed operano insieme. Io fo di berretto alla percezione; ma non posso cacciar via il pensiero. Il realismo potrebbe stare, credo io, senza queste e simili esagerazioni.
Soprattutto potrebbe stare come metodo. Il realismo, come dottrina, difficile è non caschi nel materialismo e nel sensismo, come in Locke e Condillac. Il realismo come metodo è quello di Bacone e di Galilei, e questo fu uno de’ piú grandi progressi che abbia fatto lo spirito umano. E se l’abuso del pensiero e il progresso delle scienze naturali ha ricondotti gli uomini in questa via, non abbiamo che a rallegrarcene.
Quanto a questo, il Kirchmann è pienamente riuscito, e non si può che accettare con riconoscenza tutte le sue osservazioni, e far voti che il realismo penetri anche nella filosofia, seguendo la via percorsa giá da molti valorosi.
Abbiamo tutta una serie di principii economici, morali, filosofici, sui quali è vivuta la presente generazione. È bene si faccia la controprova e ciò che la pura speculazione ha suggerito, si metta al saggio dell’esperienza. Poiché il puro pensiero non giunge ad acquistar fede a’ suoi risultati, e i sistemi pullulano e la fede scema, stiamo all’esperienza, e dove l’esperienza non giunge, siamo modesti, non affrettiamo le conclusioni.
Il realismo è la revisione generale delle nostre credenze ed opinioni, e se la filosofia moderna può aver qualche orgoglio, è questo appunto che molti de’ suoi principii reggono a questa revisione.
Il realismo incoraggia gli studii serii, introduce nell’uso della vita pratica, distoglie dalle ipotesi e dalle generalitá, indirizza al possesso della realtá, restaura la fede nell’umano sapere, prepara una nuova sintesi, il secolo nuovo, ammassando nuovi materiali.
Molti si scoraggiano, e dicono: — Fine della metafisica — , come prima si diceva: — Fine della poesia — . Ma la metafisica e la poesia sono eterne, e hanno i loro tramonti, ma hanno pure il loro ricomparire sull’orizzonte. Giá vedete quanta metafisica pullula in mezzo al realismo. E cosa sono la selezione naturale, il principio dell’ereditá e della evoluzione, l’Inconsciente, gli stati interni degli atomi, se non conati metafisici? Ciò che ci dee dolere piuttosto è questa soverchia fretta di metafisica, forse piú come uno strascico di antica abitudine, che come vero risveglio, effetto di nuova e sufficiente preparazione.
Notevole è però che tutti questi concetti non escono da costruzioni di pura speculazione, com’era per lo innanzi, ma sono dati come effetto di lunga e paziente osservazione delle cose, allargata e alzata a legge per opera di ardite e ingegnose induzioni. Sono gl’istrumenti del realismo che costruiscono nuove metafisiche. Costruzioni del puro pensiero non hanno piú credito e séguito. La metafisica non corre piú, se non ha per suo passaporto almeno in apparenza il realismo.
Il Kirchmann può dunque esser contento, e dichiararsi soddisfatto in gran parte. Siamo in pieno realismo. La nuova generazione ci corre dietro con Io stesso furore, col quale noi altri correvamo appresso ad Hegel in illis temporibus.
Del resto, realismo o idealismo, l’importante pe’ giovami è di studiare, studiare assai. Il miglior sistema è lo studio. E solo da’ seni studii nasce la grandezza di un popolo.
Un popolo che studia è sempre libero ed originale. Oggi un progresso c’è. Ma non siamo ancora né liberi né originali.
[Nella «Nuova Antologia», gennaio i876.]