Saggi critici/«Cours familier de littèratur» par M. de Lamartine

«Cours familier de littèratur» par M. de Lamartine

../A' miei giovani. Prolusione letta nell'Istituto politecnico di Zurigo ../Dell'argomento della «Divina Commedia» IncludiIntestazione 29 marzo 2023 75% Da definire

«Cours familier de littèratur» par M. de Lamartine
A' miei giovani. Prolusione letta nell'Istituto politecnico di Zurigo Dell'argomento della «Divina Commedia»
[p. 65 modifica]

[ 28 ]

«COURS FAMILIER DE LETTERATURE»

par M. de Lamartine.


Bella cosa fare il critico! Sedere a scranna tre gran palmi piú su che tutto il genere umano; i piú grandi uomini, a cui noi altri plebei ci accostiamo con timida riverenza, vederteli sfilare dinanzi come umili vassalli, e tu che palpi loro la barba familiarmente, e con aria di sufficienza dici a ciascuno il fatto suo! Bella cosa, non è vero. Gustavo Planche, vedere il Tasso recitare il «confiteor» avanti al Salviati, il Corneillebalbettare una impacciata difesa innanzi allo Scudéry, e l’Alfieri flagellato a sangue dal terribile Janin!

Che sí che un bel giorno gli scrittori faranno anche loro la rivoluzione, e chiederanno a questi Minos in virtú di qual pergamena si facciano lecito di tiranneggiarli. E giá un piccol cenno ne ha fatto un indocile poeta, il quale, in un momento di cattivo umore, ha detto sul viso a Gustavo Planche, vedi audacia! che la critica infine infine cos’era? «la puissance des impuissants».

Gustavo Planche ri è inalberato, e, volendo anche lui salvare la societá (che sarebbe la societá senza la critica?), ha voluto mantener saldo il principio di autoritá ed inculcare il rispetto con una repressione severa: ha atteso al varco il poeta, e capitatogli sotto, lo ha fatto ben ballare.

Sissignore. Bisogna vedere con qual disinvoltura un Gufavo Planche tratta Alfonso de Lamartine; con qual [p. 66 modifica]sopracciglio censorio gli dice delle impertinenze; per poco non lo manda a scuola, o, per dir meglio, ve lo ha bello e mandato.

Se il libro del Lamartine sia bene o mal fatto, ciascuno ha il dritto di dire la sua. Ma farsi beffe del chiarissimo poeta, non degnare pur di discutere le sue opinioni, perseguirlo con l’ironia e col sarcasmo, questo non è né da uomo, né da critico. Oggi che si è perduto il rispetto a molte cose rispettabili, serbiamo almeno inviolata la riverenza a’ grandi ingegni.

Bella critica, dove si rivelano tante meschine passioni! Non so che utile se ne cavi, altro che di farci disprezzare sempre piú uomini e cose. Importa poco il sapere se Lamartine sia o non sia un gran critico. Gustavo Planche gli dice: — Voi credevate che fare una critica fosse cosí facile come fare un’ode; bisogna studiare, mio caro, studiare, come ho fatto io — . Mio caro Gustavo Planche, è possibile che tu abbi studiato molto, e Lamartine poco: fatto sta che, con tutti i tuoi studi, i tuoi articoli, mettiamoci pure i futuri, non valgono, non possono valere una sola di quelle tali odi: ecco la conclusione piú chiara che il buon senso del lettore tirerá da questi assalti personali. Tu morrai, non so se sei giá morto; e se pur desideri di passare ai posteri, raccomandati a Lamartine che ti faccia una risposta.

Si può fare una critica utile intorno a questo libro, o esaminando il contenuto, cioè a dire il valore dei giudizii dati dall’illustre scrittore, ovvero ponendo in discussione il suo criterio critico. Il primo assunto, lascio stare la mia insufficienza in parecchi punti, è oltre i termini di un articolo, richiedendosi un volume a volere tener dietro a tanti giudizi e si varii. Mi restringerò dunque senza piú all’altra parte, che mi sembra ancora piú importante, e che include fino ad un certo punto anche la prima.

Non bisogna chiedere ad uno scrittore piú di quello che ti vuol dare. Qui non trovi una teoria nuova dell’arte. Neppure vecchie teorie che l’autore si studii di ringiovanire o divulgare. Nessun vestigio di un sistema scientifico qualunque.

Il Lamartine ha voluto manifestare a’ lettori le impressioni che su di lui hanno prodotto i lavori letterarii di questo o quel popolo. — Se queste impressioni, ha pensato, posso [p. 67 modifica]comunicarie a’ miei lettori, io avrò svegliato in essi il senso estetico, che è sopito ne’ piú, non spento; li avrò disposti all’arte, o almeno invogliati alla lettura. — Ond’egli mira meno ad ammaestrare che ad educare: vuole che si senta prima di giudicare, e prende a questo effetto per base l’impressione.

Lo scopo è utilissimo. Le teorie astratte non sono buone che a gonfiarci di superbia, a darci una falsa sicurezza; giovano poco a formare il gusto e a stimolare le forze produttive: spesso nuocono. Nel primo anno dei miei studi d’italiano ero divenuto un famoso cacciatore di frasi e di parole; e mentre intorno a me si disputava caldamente, acchiappavo per aria le parole che uscivano, e dimandavo: — Questa è una frase italiana? è una parola del Trecento? — ; mi mandavano al diavolo ben di cuore. Pensando alle parole perdeva l’idea. Il simile avviene, con buona pace degli estetici, a parecchi di loro. Quando leggono, non si abbandonano ad un’ingenua contemplazione; non consultano, non analizzano le loro impressioni: possessori di tre c quattro formole, mentre l’uomo del popolo piange, essi dimandano gravemente se nella tale rappresentazione domina l’oggettivo o il soggettivo, il plastico o il pittoresco, l’ideale o il reale, ecc. Pensando al concetto, perdono il sentimento.

Le nude teorie non hanno efficacia a formare l’educazione estetica di un popolo. — Bisogna educare il popolo, — si dice. Che fare? Insegniamogli leggere, scrivere, un po’ di catechismo, un po’ di aritmetica: come se il male stesse solo nell’intelligenza e non anche, e piú, nel cuore! come se il ladro rubasse perché non sa i dieci comandamenti! È il cuore che dovete guarire. E parimente, se volete formare il pubblico gusto, è al cuore che dovete parlare.

Questo parmi abbia voluto il Lamartine, dando ai suoi discorsi la forma di conversazioni, intramettendo co’ ragionamenti racconti e descrizioni, e traducendo il pensiero «en images et en sentiments». Udite lui stesso:

Avant de vous donner la définition de la littérature, je voudrais vous en donner le sentiment. À moins d’être une pure intelligence, on ne comprend bien que ce qu’on a senti. [p. 68 modifica]
Egli narra le proprie impressioni, perché le si sveglino com’eco nei suoi lettori:

afín qu’ en voyant comment j’ai conçu moi-même, en moi, l’impression de ce qu’on appelle littérature, comment cette impression y est devenue passion dans un âge et consolation dans un autre âge, vous contractiez vous-même le sentiment littéraire.

Spende tutto il primo fascicolo a raccontare le sue prime impressioni letterarie; s’innamora di tutto che gli si offre innanzi; parla della filosofia indiana con una unzione che per poco non lo diresti un bramino; sta in estasi avanti a Sacountala come avanti alla Madonna. Fa il critico e fa il poeta; giudica, racconta,

dipinge, verseggia; guarda i poeti con una cert’aria di familiaritá, come se volesse dire: — Noi ci conosciamo — .

Ma se debbo giudicare anch’io dalla mia impressione, sento confusamente che l’autore non ha raggiunto il suo scopo. Non mi pare un libro serio. Non mi par destinato ad esercitare alcuno influsso sugli spiriti, né a produrre una di quelle potenti impressioni che non si dimenticano.

Eppure, nessuno ha cominciato a leggerlo con più simpatica riverenza verso l’autore. Se dovessi io pure correre indietro indietro ai primi anni della mia giovinezza, vi troverei accanto a tre o quattro ideali, innanzi a’ quali mi prostravo, Alfonso de Lamartine. E me l’immagino anche oggi, come in quella etá, il volto radiante di una luce soave, con la malinconica fiamma del genio negli occhi. Ma innanzi a questo libro sono rimaso freddo. Leggevo con raccoglimento, con grande aspettativa; sono rimaso freddo. Che è questo? È forse mio difetto? Sarebbe in me inaridita la fonte dell’entusiasmo? Dal mio cuore sarebbe fuggita la fede e l’amore? No, no. I disinganni non mi hanno scemata la fede, e il tempo ha potuto toccare i miei capelli, non il mio cuore. Quando una idea vera mi si presenta, la mi luce innanzi come una stella; quando leggo una bella poesia, per esempio il tuo Poeta morente, o Lamartine, sento nella mia anima una parte di ciò che agitava la tua nel caldo della [p. 69 modifica]ispirazione. Anche oggi non posso montare o scender di cattedra, che il cuore non mi batta forte e non mi tremino le membra, e talora ho sentita la mia giovinezza innanzi a taluni de’ miei uditori, vecchi di venti anni. Ma adagio; la penna mi porta tropp’oltre, ed eccomi giá in sul dire i fatti miei al pubblico, come Lamartine, senza avere la stessa scusa. Molti gliene fanno rimprovero, e lui giá degno di gloria reputano vano. Certo, amo meglio il disdegno del Leopardi e la modestia del Manzoni; ma quelli che accusano di vanitá la sua ostinazione al lavoro, farebbero bene d’imitarlo; la vanitá, che impone tanti sacrifizi, nobilita sé stessa e merita un piú degno nome. Fate quello che lui, e parlate pure di voi: sará un peccato veniale; ma io ho inteso a dire che i piú sciocchi sono i meno indulgenti.

Dicevo dunque che lo scopo propostosi dal Lamartine è eccellente, ma che non mi pare sia stato conseguito. Voglio ora raccogliermi e meditare un po’ per rendermi conto di questa impressione.

Quando il poeta compone, ha innanzi un fantasma che lo tira fuori dal suo stato ordinario e prosaico, gli agita la fantasia, gli scalda il cuore. Non crediate però ch’egli gitti sulla carta tutta intera la sua visione e tutte le sue impressioni. La sua penna riposa, ma non il suo cervello; rimane agitato, pensoso, la poesia si continua nella sua testa dove fluttuano molte altre immagini, parte proprie di essa visione, parte estranee e affatto personali. Il poeta, concedetemi il paragone, è un’eco armoniosa, che ripete di una parola solo alcune sillabe, ma un’eco animata e dotata di coscienza, che sente e vede piú di quello che ti dá il suo suono. Il critico raccoglie quelle poche sillabe, ed indovina la parola tutta intera. Pone le gradazioni ed i passaggi; coglie le idee intermedie ed accessorie; trova i sentimenti da cui sgorga quell’azione, il pensiero che determina quel gesto, l’immagine che produce que’ palpiti; spinge il suo sguardo nelle parti interiori e invisibili di quel mondo, di cui il poeta ti dá il velo corporeo. Il critico è simile all’attore; entrambi non riproducono semplicemente il mondo poetico, ma lo integrano, empiono le lacune. Il dramma ti dá la parola, ma non il gesto, [p. 70 modifica]non il suono della voce, non la persona; indi la necessitá dell’attore. Togliete alla poesia drammatica la rappresentazione e rimarrá necessariamente un genere monco ed imperfetto. Il simile è della critica. Si sono scritte delle dissertazioni per provare la sua inutilitá. Eh! mio Dio! La critica germoglia dal seno stesso della poesia. Non ci è l’una senza l’altra. Cominciate dunque dal distruggere la poesia.

Il libro del poeta è l’universo; il libro del critico è la poesia: è un lavoro sopra un altro lavoro. E come la poesia non è né una semplice interpretazione, né una spiegazione filosofica dell’universo; cosí il critico non dee né semplicemente esporre la poesia, né solo filosofarvi sopra. Non questo, e non quello: cosa dunque? La piú natural cosa di questo mondo: quel medesimo che fa il lettore.

E cosa fa il lettore? Aprite un libro e leggete. E quando l’immaginazione comincia a mettersi in moto, quando vedete drizzarvisi avanti tre o quattro creature poetiche, e la camera si trasforma in un giardino, in una grotta, e che so io, l’incantesimo è riuscito; voi siete ammaliati; voi vedete quello stesso mondo che brillava innanzi al poeta.

E notate: ciò che voi vedete non è solo quello che è espresso nel libro, ma tante altre cose, parte legate con la visione, parte accidentali, mutabili, secondo lo stato d’animo nel quale vi trovate.

Nel lettore dunque sono due fatti: l’impressione che gli viene dal libro e la contemplazione ingenua, irriflessa del mondo poetico. Mettete tutto questo in carta, e ne nascerá una descrizione del mondo immaginato dal poeta, mescolata d’impressioni, di osservazioni, di sentimenti, dove si mostrerá ancora la personalitá del lettore.

Oso dire che questa specie di critica gioverá piú a formare l’educazione estetica di un popolo, che tutte le teorie. Se tre o quattro uomini di cuore avessero la felice ispirazione di fare delle letture a questo modo, desterebbero nell’anima rozza ed aspra delle moltitudini un sentimento di dignitá e di delicatezza che fruttificherebbe. [p. 71 modifica]

I più de’ lettori, rimasi un pezzo a contemplare quel mondo, lasciano stare e non ne serbano che una immagine confusa. Innanzi al libro rimangono passiva, si abbandonano al flutto delle loro impressioni, indi si raffreddano e se ne distraggono.

Supponiamo un lettore che abbia l’istinto della critica: non si stará a quelle prime impressioni; anzi, immergendosi nella visione, de’ pochi tratti del poeta comporrá tutto un mondo.

Questa maniera di critica è da pochi. I pedanti si contentano di una semplice esposizione, e si ostinano nelle frasi, ne’ concetti, nelle allegorie, in questo o quel particolare, come uccelli di rapina in un cadavere. I filosofi la stimano al di sotto di sé, e mentre il corpo si move, discutono gravemente sul principio e le leggi del moto; e, mentre leggono e gli uditori si asciugano gli occhi, essi pensano alla definizione del bello. I piú si accostano ad una poesia con idee preconcette; chi pensa alla morale, chi alla politica, chi alla religione, chi ad Aristotile, chi ad Hegel; prima di contemplare il mondo poetico lo hanno giudicato; gl’impongono le loro leggi in luogo di studiare quelle che il poeta gli ha date.

La critica ha giá fatto molto cammino quando ella è giunta a coglierti una concezione poetica ne’ suoi momenti essenziali. È un lavoro spontaneo nel poeta, spontaneo nel critico. Il poeta può ben prepararvisi con lunga meditazione, di cui si veggono i vestigi nel disegno, nell’ordito, ne’ caratteri, e spesso nell’ultima mano; ma ciò che vi è di vivente nella sua concezione è opera di alcuni di que’ fuggitivi momenti, che talora non ritornano piú: il critico può bene apparecchiarsi al suo ufficio con lunghi studii, de’ quali si veggono le tracce nelle osservazioni, distinzioni, paralleli, ecc.; ma quella sicurezza d’occhio con la quale sa in una poesia afferrare la parte sostanziale viva, la troverá solo nel calore di una impressione schietta e immediata.

A questo lavoro spontaneo si aggiunge un lavoro riflesso. Riposato quel primo fervore, se il critico è dotato ancora di genio filosofico, avendo giá innanzi a sé il mondo poetico nella sua veritá ed integritá, può domandargli: — che cosa sei tu? che cosa è colui che ti ha creato? — . [p. 72 modifica]

— Che cosa sei tu? — Può allora determinare il suo significato, il valore del concetto che l’informa, considerarlo per rispetto al tempo ed al luogo dov’è nato, assegnargli il suo luogo ed il suo significato nella storia dell’umanitá e nel cammino dell’arte, e contemplar le sue leggi nelle leggi generali della poesia.

— Che cosa è colui che ti ha creato? — E mi determinerá l’estensione e la profonditá del suo ingegno, le sue facoltá, le sue predilezioni, i suoi pregiudizi, le corde che risuonano nella sua anima, e quelle che mancano o sono spezzate, l’influsso che su di lui ha avuto il suo tempo, la sua nazione, la critica, la filosofia, la religione, l’arte; ciò che in lui vi è di spontaneitá e di riflessione, di originalitá e d’imitazione; e conosciuto l’uomo, può accompagnarlo nell’atto della concezione, e mostrare come sotto al suo sguardo amoroso si sia andato a poco a poco formando quel mondo che desta la nostra ammirazione.

Critica perfetta è quella in cui questi diversi momenti si conciliano in una sintesi armoniosa. Il critico ti dee presentare il mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena coscienza, di modo che la scienza vi perda la sua forma dottrinale, e sia come l’occhio che vede gli oggetti e non vede sé stesso. La scienza come scienza è filosofia, non è critica.

Ma questo quadro che sono andato delineando è una pura utopia, una repubblica di Platone. Se consultiamo la storia della critica, troveremo che ciascuno di questi elementi è venuto fuori nel tal tempo, e dopo di aver vinto l’antecessore ha regnato da assoluto padrone insino a che non è stato cacciato anche lui a sua volta. Questo, quanto alle cose; e quanto alle forme, ecco ciò che troveremo. Quando una dottrina è penetrata in tutte le classi, ed è generalmente ammessa, la discussione non cade più su’ principii, ma sull’applicazione. I principii diventano un semplice supposto, qualche cosa di convenuto; la forma dottrinale è riputata una pedanteria; la critica prende allora una forma che molto si avvicina all’arte; la scienza vi sta come un sottinteso. La critica francese è quella che piú si accosta a questo tipo; perché, quantunque abbia ultimamente accolte molte idee [p. 73 modifica]germaniche, queste vi rimangono al di fuori come un semplice ornamento, e coesistono col vecchio fondo. Se un critico francese vi parla di umanitá, di societá, se ti esce fuori anche lui con le sue formole, metti bene attenzione, e troverai che tutto questo non germina da una seria meditazione; che vi sta appiccato per moda, quasi pianta esotica, di cui il possessore non ha una chiara conoscenza; e attendi un poco, e vedrai che, volta e gira, ti comparirá a galla quel vecchio fondo, una critica formale e psicologica. Molti giudicano male della critica francese, perché la guardano a traverso di Boileau e Laharpe; ecco ciò che a parer mio la costituisce. Il critico francese ha un certo naturale buon senso e buon gusto, che gli fa cogliere le bellezze piú delicate, e la qualitá dell’ingegno che le ha prodotte. Citerò uno de’ piú antichi scrittori, il Montaigne (libr. III, cap. V):

Ce que Virgile dict de Vénus et de Vulcan, Lucrèce l’avoit dict plus sortablement d’une jouissance désrobée d’elle et de Mars

                               Belli fera moenera Mavors
Armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
Rejicit, aeterno devictus vulnere amoris;
.       .       .       .       .       .       .       .       .
Pascit amore avidos inhians in te, Dea, visus.
Eque tuo pendent resupini spiritus ore:
Hunc tu, Diva, tuo recubantem corpore sancto
Circumfusa super, suavis ex ore loquelas
Funde
                    

Quand je rumine ce «rejicit, pascit, inhians, molli, fovet, medullas, labefacta, pendet, percurrit», et cette noble «circunfusa», mère du gentil «infusus1», j’ay desdain de ces menues pointes et [p. 74 modifica]allusions verballes qui nasquirent depuis. A ces bonnes gens, il ne falloit d’aigue et subtile rencontre: leur langage est tout plein et gros d’une vigueur naturelle et constante: ils sont tout epigramme, non la queuë seulement, mais la teste, l’estomac et les pieds. Il n’y a rien d’efforcé, rien de treinant, tout y marche d’une pareille teneur: «contextus totus virilis est; non sunt circa flosculos occupati». Ce n’est pas une eloquence molle et seulement sans offence; elle est nerveuse et solide, qui ne plaict pas tant, comme elle remplit et ravit, et ravit le plus les plus forts espris. Quand je voy ces braves formes de s’expliquer, si vifves, si profondes, je ne dicts pas que c’est bien dire, je dicts que c’est bien penser. C’est la gaillardise de l’imagination, qui esleve et enfle les paroles: «pectus est quod disertum facit»: nos gens appellent jugement langage, et beaux mots les plaines conceptions. Cette peinture est conduitte, non tant par dexterité de la main, comme pour avoir l’object plus vifvement empieint en l’ame. Gallus parie simplement, par ce qu’ il confoit simplement. Horace ne se contente point d’une superficielle expression, elle le trahiroit; il voit plus cler et plus outre dans la chose; son esprit crochette et furette tout le magasin des mots et des figures pour se representer; et les luy faut outre l’ordinaire, comme sa conception est outre l’ordinaire. Plutarque dit qu’ il veid le langage latin par les choses; icy de mesme: le sens esclaire et produict les parolles, non plus de vent, ains de chair et d’os: elles signifient plus qu’elles ne disent.

Questo luogo del Montaigne vale tutta la poetica del Boileau. Nel notare con si squisito gusto le bellezze ch’egli sente in questi due luoghi di Lucrezio e Virgilio, egli stesso è esempio di stile «vigoureux et solide». Questa maniera di critica, e per le cose e per la forma, è quel vecchio fondo che resiste ancora alle nuove tendenze, e che si è mostrato con tanto splendore nel secolo passato e nel nostro. Il francese non s’indugia sulle teorie; va diritto al soggetto; senti nel suo ragionamento il caldo dell’impressione e la sagacia dell’osservatore; non esce mai dal concreto, indovina le qualitá dell’ingegno e del lavoro, e studia l’uomo per intender l’autore. Il tedesco al contrario non ci è [p. 75 modifica]cosa tanto comune che a forza di maneggiarla non te la storca, non te la ingarbugli; ammassa tenebre, dal cui seno guizzano a quando a quando lampi vivissimi; vi è al di dentro un fondo di veritá che partorisce laboriosamente. Parlo della tendenza, non di questo o di quello; mi sento al di sopra delle allusioni. Innanzi ad un lavoro d’arte vorrebbe afferrare e fissare ciò che vi è di piú fuggevole, di piú impalpabile; e, mentre nessuno, quanto lui, ti parla di vita e di mondo vivente, nessuno, quanto lui, si diletta tanto a scomporla, scorporarla, generalizzarla; e cosí, distrutto il particolare, egli può mostrarti, come ultimo risultamento di questo processo, ultimo in apparenza, ma in effetti preconcetto ed «a priori», una forma per tutt’i piedi, una misura per tutti gli abiti. Ne’ primordii di questa scuola, l’ardore della polemica, la novitá delle cose e le impressioni ringiovanite, davano allo stile un non so che di caldo e di appassionato che colora le idee. Ma ora che queste son divenute anche loro un vecchiume, eccole lá, che appena una salta fuori, tu sai giá tutte le altre che debbono venir dietro nella loro pallida astrazione. Niuna comunicazione fra il critico ed il libro; nessun abbandono, nessuno oblio di sé; il critico sta in guardia dal libro come dalla peste, ed, in luogo di studiarlo con amore e rimanere un pezzo tutto e solo ivi, rumina problemi, irrigidendo il volto ed il cuore. Gli si affaccia innanzi Giulietta o Cordelia? ed il nostro critico, freddo e severo, sta lí con l’occhialino a guardarla, e la povera donna sotto a quello sguardo disseccante si trasforma a poco a poco nell’idea della simmetria, dell’armonia e che so altro. È una nuova topica, nella quale i corpi piú differenti si trovano spolpati e divenuti un solo scheletro; una nuova scolastica, nella quale i fatti piú comuni tradotti nello stesso formolario non si riconoscono piú2. Nondimeno, sotto a questa scolastica ci sta sempre Aristotile e Platone: un fondo [p. 76 modifica]vivace d’idee originali e in parte vere, che s’insinuano nel pensiero europeo; un guardar da alto e da lontano, che ti presenta le cose sotto nuovi aspetti, allarga l’orizzonte, cancella le differenze artificiali, eleva il criterio, e in una linea chiude il germe di molti capitoli.

Il critico tedesco si pregia di tenersi al di sopra del senso volgare, e, se tu gli parli d’impressione, ti guarda con compassione. Il gran conto che fa Lamartine della impressione e la cura che si prende di volgarizzare la scienza, te lo scopre francese, popolo sensitivo e volgarizzatore per eccellenza. E se mi determinasse con precisione l’impressione che nasce dal tale lavoro d’arte, e cercasse di farne partecipi i lettori, non gli chiederei piú; avrebbe giá fatto un buon libro. Ma la sua impressione è esagerata, vaga e generale.

L’impressione per fare effetto dee esser vera; non bisogna crearsi una impressione di fantasia. L’entusiasmo non è merce comune, e l’ammirazione non è una febbre. Tra il lettore ed il critico ci dee esser una certa comunione o simpatia, perché l’impressione passi dall’uno nell’altro. Se vi mettete a troppa distanza, non vi conciliate fede, il lettore sta in guardia. Certo, le impressioni sono diverse secondo la coltura, il gusto, il sentimento di ciascuno, e secondo anche una certa disposizione d’animo in cui vi trovate. Il poeta può rappresentarmi la tale impressione, e aggiungere, fantasticare, colorire, perché il suo fine è di mostrarmi il tale uomo nella impressione che gli attribuisce, e non di giudicare il tale lavoro dalla impressione che produce. Ora, Lamartine si mostra qui piú poeta che critico, e credo, ciò dicendo, di fargli un elogio. Sembra che quando narra con tanto lusso di colori le sue impressioni, voglia dirci: — Vedete come sentivo io, Lamartine, con che potenza! con quale entusiasmo! — ; e non vedete qual maniera di impressione nasce da questo lavoro. Arrechiamone un esempio. Lamartine legge la Sacountala:

Je lus, je relus, je relirais encore... Je jetai des cris, je fermai les yeux, je m’anéantis d’admiration dans mon silence. J’éprouvai [p. 77 modifica]un de ces instincts d’acte extérieur que l’homme sincère avec soi-même éprouve rarement quand il est seul, et que rien de théâtral ne se mêle á la candide simplicité de ses impressions. Je sentis comme si une main pesante m’avait précipité hors de mon lit par la force d’une impulsion physique. J’ en descendis en sursaut, les pieds nus, le livre á la main, les genoux tremblants; je sentis le besoin irréfléchi de lire cette page dans l’attitude de l’adoration et de la prière, comme si le livre eût été trop saint et trop beau pour être lu debout, assis ou couché; je m’agenouillai devant la fenêtre au soleil levant, d’oú jaillisait moins de splendeur que de la page; je relus lentement et religieusement les lignes. Je ne pleurai pas, parce que j’ai les larmes rares á l’enthousiasme, comme á la douleur, mais je remerciais Dieu á haute vois, en me relevant, d’appartenir á une race de créatures capables de concevoir de si claires notions de sa divinité, et de les exprimer dans une si divine expression.

Una impressione tanto straordinaria fa pensare piú a Lamartine che al libro; e — Vedi che uomo!, dirá maravigliato il lettore; se qui non ha abbellito ed esagerato sé stesso, ha dovuto quest’uomo sortire da natura un sentire squisitissimo e quasi oltrenaturale — .

Con questa esagerazione si accompagna sempre il vago, l’indeterminato. La tale visione produce la tale impressione, ed il critico dee saper coglierla ne’ suoi particolari. Un «bello! bene! magnifico! sublime!» non significa nulla; è un primo scoppio confuso, vuoto di contenuto, semplice interiezione. E se talora Lamartine scende a’ particolari, questi stessi non hanno niente di proprio e di chiaro; l’impressione è falsificata, non solo perché portata ad un grado oltre la sua natura, ma ancora perché le sue qualitá sono vaghe ed improprie: ci manca la misura e la precisione. Chi legge, per esempio, che ne’ libri sacri dell’India «la pensée de l’homme s’élève si haut, parle si divinement, que cette pensée semble se confondre dans une sorte d’éther intellectuel avec le rayonnement et avec la parole même de Dieu», vede nell’autore l’intenzione di produrre un grand’effetto, di dir qualche cosa di grosso: e non dice nulla, e non fa alcun effetto. [p. 78 modifica]

Né basta che l’impressione sia misurata e precisa; bisogna pure che le sue qualitá sieno sostanziali e distintive. Supponiamo che l’impressione si manifesti con quella semplicitá e moderazione che è la faccia della veritá, e che i suoi particolari sieno proprii e chiari. In questo caso l’impressione non si può dir falsa, ma neppure ancor vera; non esiste ancora. Perché una cosa esista, devi mostrarmi le qualitá che la costituiscono, che fanno che sia. Or questo manca quasi assolutamente nel nostro critico. Prendiamo ad esempio il primo fascicolo. Prima di spiegarci che cosa è letteratura, ce ne vuol dare l’impressione, e ci racconta a questo effetto in che modo si è in lui destato il sentimento letterario. Di memoria in memoria giunge fino al punto che la madre gl’insegnava a compitare. Non so qual impressione possa provare un fanciullo che compita. Se gli tocca un pedante, si annoierá fieramente e gli tarderá di correre di nuovo ai suoi giocherelli; ma se ha un maestro accorto ed industrioso, il compitare sará esso stesso un giocherello. Non ci può qui dunque essere una impressione letteraria: e quello che l’autore ci dice delle lettere misteriose che unendosi formano le sillabe, le quali unendosi formano le parole, le quali coordinandosi formano le frasi, le quali legandosi generano, oh prodigio!, il pensiero; e tutte le dimande che seguono, come avvenga la trasformazione della lettera in pensiero, e che cosa è il pensiero, e le risposte che fa, sono riflessioni che sopraggiungono in altra etá, e che non hanno niente a fare con l’impressione del fanciullo. Nondimeno, per il fanciullo nostro il compitare non è il solito be-a-ba, ma una trasformazione di caratteri in pensieri, cioè a dire del sensibile nell’intellettuale, e ciò che è piú straordinario, questo stesso egli trova nel volto della madre. Quel volto, in cui la bellezza de’ lineamenti e la santitá dei pensieri «luttaient ensemble», quasi per compiersi l’un l’altro, gli porgea, piú che un libro, lo spettacolo «de cette trasformation presque visible de l’intelligence en expression physique, et de l’expression physique en intelligence». Con tutta la buona volontá è difficile trovare il piú piccolo aspetto di veritá in queste impressioni. [p. 79 modifica]

Accompagniamo ora Lamartine alla scuola, vero teatro dell’impressione letteraria. Chi non ricorda quanti affetti e immagini e pensieri si sono risvegliati nelle nostre menti giovanili, quando ci si mettea in mano una storia greca o romana, quando cominciavamo a spiegare un nuovo autore, quando ad ogni pagina disseppellivamo una parte di un mondo cosí simpatico alla gioventú per quella sua aria di liberta, e di grandezza? Sono impressioni incancellabili, che determinano in gran parte la nostra evocazione letteraria. E quando pensiamo che Lamartine, fanciullo di dodici anni, sapea giá comporre in greco, in latino e in francese, e che a quell’etá avea fatto un componimento, dove non ci è vestigio di rettorica, dove tutto è veritá ed ingenuitá, attendiamo ch’egli ci ritragga le gagliarde impressioni della scuola, che su di lui potevano tanto. E se ciò avesse fatto, avrebbe egli senza piú conseguito il suo scopo, e nelle sue impressioni avremmo noi sentite e ricordate le nostre; è un campo comune, dove l’autore si sarebbe incontrato co’ lettori. O io m’inganno, o era questa la parte sostanziale del suo lavoro. Ma il Lamartine ne tocca appena, ed ama meglio intrattenersi sopra alcuni fatti accidentali della sua vita, continuando a farci le sue confidenze. Ci parla di certe conversazioni estive tenute da suo padre con due altri su di un monte. In questo racconto l’importante è l’impressione che fanno su di lui queste dotte conversazioni. Ce ne è appena un cenno; ma ci si descrive minutamente la collina, il sedile, il sole, il cielo, e ci si fa il ritratto de’ tre sapienti, con soprappiú la vita di ciascuno. Leggevano Tacito, traducevano il Fedone, disputavano di politica e di filosofia. E Lamartine? quali erano le sue impressioni? che immagini, che pensieri suscitava ciò nella sua anima? Ecco tutto ciò che ne dice:

On conçoit quelle vive impression de la littérature de pareilles scènes, de pareils sistes, de telles lectures et de tels entretiens devaient donner á l’esprit d’un enfant.

Siamo giunti quasi alla fine del libro, e non siamo ancora usciti dall’infanzia. Quale si sia l’importanza di questi fatti. [p. 80 modifica]non abbiamo propriamente una impressione letteraria. Viene l’adolescenza. Qui le impressioni si affollano.

È allora che cominciamo a comprendere ciò che prima si è solo messo nella memoria, e ci troviamo in vera comunicazione col passato. Un libro nuovo è un avvenimento; la lettura è una febbre; facili all’entusiasmo, ai pianti, agli sdegni, alle ammirazioni; diresti che il cuore desidera di commuoversi. Sentiamo nel tempo stesso anche noi il bisogno di produrre; in mezzo alla imitazione e alla rettorica comincia a rivelarsi una parte di noi; ciascuno ha un po’ del poeta; immagini e sentimenti escon fuori con la facilitá con la quale l’acqua trabocca da un vaso pieno. Se il Lamartine vuol destare ne’ suoi lettori l’impressione della letteratura, che altro ha a fare se non rappresentarmi secondo veritá le impressioni di questa etá? Ma egli ha spese tante pagine a parlarci della sua infanzia, che giunge in sul serio del lavoro e si trova giá di aver finito.

Eccoci dunque alla vecchiezza, al «senectutem delectant». Lamartine vuol farci sentire le consolazioni che ci vengono dalle lettere. — Il lavoro che fo, egli dice, lo fo per forza, e nondimeno mi è caro. — Lo scopo che si propone richiede ch’egli ci conti le segrete gioie del lavoro, quella specie di dolce ebbrezza, di estatico oblio che accompagna lo scrittore quando la fantasia è concitata e il cuore è caldo; quella quietudine di spirito che ci conforta quando, dopo attraversate tante tempeste, ci ritiriamo in tranquilla conversazione coi libri. Invece di mostrarci le consolazioni del lavoro, ci parla lungamente delle sue pene, de’ suoi disinganni, tal che, in conclusione, quando chiudiamo il libro, in luogo di dire: — Quanto è bello lo studio! — , diciamo: — Povero Lamartine! — .

Onde nasce questa poca serietá di scopo, questa inconsistenza e inconseguenza nell’ordine delle idee? È una domanda che subito mi si è presentata allo spirito. E nondimeno vo’ prima stabilire il fatto, e poi ne investigherò la cagione.

L’impressione non è che una semplice base. Posta una impressione vera, precísa e determinata, il critico sentirá il bisogno di addentrarsi nel mondo poetico, cogliendone le parti sostanziali [p. 81 modifica]e determinandolo. Lamartine cita ed espone, come si fa nell’infanzia della critica: vale a dire, mette sotto l’occhio del lettore questo o quel luogo che lo ha piú impressionato. Gli è come se io, per far comprendere le bellezze di un quadro, lo mostrassi altrui, dicendogli: — Mira l’occhio! e guarda il naso! — . Il che significa: — Io ti mostro il quadro, e la critica la farai tu — .

Poi che il critico ha acquistata una chiara coscienza del mondo poetico, può determinarlo, assegnandogli il suo posto ed attribuendogli il suo valore. È ciò che si dice propriamente giudicare o criticare. Non è sempre necessario che al giudizio preceda l’impressione e la visione; talora è un sottinteso. È necessario però che il critico, prima di mettersi a giudicare, abbia una impressione distinta ed una perfetta coscienza del contenuto, ancorché non lo esprima: altrimenti dará nel vago, difetto di molti critici francesi; o nell’astratto, difetto di molti critici tedeschi. Una critica senza quella doppia base è spesso erronea, sempre poco coscienziosa.

Ne’ suoi giudizii Lamartine tiene doppia via. Alcune volte ti fa il ritratto dello scrittore, e per questo lato appartiene alla critica psicologica francese. I suoi ritratti non vo’ dire che siano sempre veri; ma certo sono meravigliosi di colorito. Veggasi fra l’altro il ritratto di Louis de Vignet, di Auguste Bernard e di Lainé (Entretien, X, pp. 237, 248 e 274). Ma in critica, se si vuol sapere che cosa è l’autore, gli è per sapere che cosa è il libro. Mi fate il ritratto del Lamennais. Noi vogliamo trovare in voi altra cosa che in Mirecourt. Non ci è grande uomo che non sia piccolo per qualche verso, che non paghi il suo tributo alla carne di cui è impastato; abbandonate a Mirecourt questa parte terrestre: vi sono de’ miserabili che non veggono nella creazione altro che il fango. Per noi quello che importa il piú non è il sapere come guardava Lamennais, come declamava: attendiamo da Lamartine che ci misuri l’uomo, ci determini le sue facoltá, c’inizii alla conoscenza delle sue opere. E se a questo ci dee condurre il suo ritratto, fatelo pure, ma di maniera che la conoscenza dell’uomo ci aiuti alla conoscenza dello scrittore: il [p. 82 modifica]rirattot è mezzo e non fine. I francesi sono attissimi a questo genere di critica, e citerò il sommo di tutti, Villemain, che in questo genere è egregio. I ritratti di Lamartine sono impressioni o reminiscenze personali, come si fa in un libro di memorie, che hanno il loro interesse, ma non è un interesse critico; sono semplici materiali, buoni al piú per un critico futuro. Nel tale salone ho conosciuto il tale; bocca cosí, fronte cosí, occhi cosí, vestiva, parlava, gestiva cosí e cosí; questi particolari, abbelliti da una ricca immaginazione, io li leggo con curiositá e con piacere; ma io ho il libro avanti, e dimando: — E poi?— . Rimangono li, sterili, senza scopo. È una critica abortita.

Altre volte il Lamartine s’innalza ad una certa sintesi. Abbraccia con una sola occhiata tutta la vita di una nazione e di un tempo, studiandosi di afferrarne i caratteri principali. L’impulso è partito di Alemagna, e l’esempio è stato seguito in Francia: citerò fra gli altri Victor Hugo, Edgardo Quinet, Robert Felicité Lamennais.

Ogni critica ha il suo supposto. Questa critica s’indirizza alla parte piú colta di una nazione, perché suppone una seria conoscenza de’ particolari nel critico e ne’ lettori. Volete abbracciarmi in una vasta sintesi la vita letteraria di una nazione; volete rinchiudermi in una linea un volume? bisogna che voi conosciate bene tutto il volume; altrimenti la vostra linea sará una vuota generalitá, destituita di ogni valore. Diciamo profondo uno scrittore quando in un pensiero ne comprende molti e molti altri: il carattere di questa critica deve essere la profonditá. Si è credute! al contrario che niuna cosa fosse piú facile di questa critica a vapore. Bella cosa! In una pagina io so quello che i miei padri dovevano imparare in piú volumi. E con questa pagina in corpo mi metto a parlare a dritta e a sinistra di Oriente e di Occidente, con tutta l’insolenza dell’ignoranza. O tu che logori i tuoi occhi sui libri, mi fai compassione; questa pagina mi dispensa dallo studio. Il critico volgare fa a un dipresso lo stesso ragionamento. Sta come aquila sulle cime e disdegna di guardare in giú. A’ suoi pari basta il dire: — Vedete ch’io sto in alto e posso vedervi tutti; — ma non perciò si [p. 83 modifica]prende l’incomodo di guardare. Che ne nasce? Delle passeggiate, come con giusto disdegno le chiamava il Guizot, o, per uscir di figura, delle cicalate sorto il nome di sintesi. Sono dolente di dover porre tra costoro l’illustre poeta; ma credo che la maggior testimonianza di rispetto ch’io possa dargli è di dirgli umilmente quello che mi sembra la veritá. Niuno piú di lui ama le idee generali, ma niuno vi è meno atto. Vede un piccolo lato delle cose e lo prende pel tutto; talora non vede nulla, e cade nel vago. In poche pagine ti parla dell’Inghilterra, dell’Alemagna, dell’Italia, della Spagna e fino dell’America; sono magnifiche parole, ma vuote; un terreno arido coperto di fiori. Niente de’ caratteri determinanti di ciascuna letteratura; infilza nomi a nomi, e a ciascuno appicca un epiteto, che gli viene innanzi secondo l’idea confusa che ha dello scrittore. Nei grandi critici un epiteto è spesso un carattere, tutt’una critica. Lamartine, in luogo di guardare quello che in uno scrittore è incomunicabile, e che costituisce la sua personalitá, ciò che lo distingue da ogni altro, si arresta a qualche somiglianza superficiale, e ribattezza un uomo dandogli il nome di un altro. Cosi Goethe è Orfeo ed Orazio ad un tempo, Klopstock è l’Omero, Schiller l’Euripide dell’Alemagna, Walter Scott è un Boccaccio serio ed epico; Monti è un dantesco come Dante, Niccolini è un Machiavelli, Ugo Foscolo un Savonarola, Canova un Fidia.

Ma non sempre il Lamartine giudica cosí gli scrittori a passo di corsa, dispensando epiteti, che, usciti fuori alla ventura nel caldo e nell’impazienza dello scrivere, esprimono il vago ed il confuso che è nel suo animo. Di tanto in tanto si arresta su qualche teoria o su qualche scrittore, e ne tratta «ex professo». Tale è il suo esame della filosofia indiana, la sua teoria del progresso, le sue idee sullo stile, il giudizio di Lafontaine, di Bossuet, di Dante, ecc. Ci è sintesi in apparenza; nel fatto ci è un particolare che prende per generale. Quel benedetto particolare gli fa impressione e diviene esso l’universo e gli toghe la vista del rimaneiite. Si tratta, per esempio, della letteratura francese. Cade nella vecchia questione de’ classici e de’ romantici: i ali furono imitatori, i tali furono originali. Ond’è ch’egli vede [p. 84 modifica]nelle cose quello solamente che ha attinenza col suo concetto, e tutto ciò che non ci entra è cacciato fuori: il soggetto rimane piú grande di lui. Nasce una storia di profilo, un misto di luce e di ombra, ed il piú importante non è quello che luce.

Un altro esempio. Lamartine non vede che l’ombra di Dante, l’ombra dietro alla quale corrono i cementatori e che fugge loro davanti. Non potendo sciogliere il nodo, lo taglia. A che affaticarsi intorno a questa parte misteriosa? Non ne porta il pregio. Voi credete ci sia qualche cosa di profondo: non ci è nulla. E, siccome ha preso quest’ombra pel corpo, stimando che in quell’incompreso sia posta la sostanza della poesia dantesca, dunque, si affretta a conchiudere: — La Divina Commedia presa nel suo insieme non è poesia; è una gazzetta fiorentina, una «cronaca rimata»; sopravvive per una ottantina di bei versi. — Partendo da un concetto ch’egli crede generale, e che è cosí parziale, si angusto, la parte del libro piú dal volgo dotto apprezzata e la meno importante3, qual maraviglia è che la sua mente non possa misurare tutta intera l’opera piú vasta che abbia concepito lo spirito umano? Le cose restano sempre superiori a’ suoi concetti: la sua lampada rischiara poco e male; e perché gli oggetti gli si mostrano nell’ombra e trasfigurati, invece di prendersela con la lampada, se la prende con loro.

Conchiudiamo. Le sue impressioni sono esagerate, poco precise, poco deteminate. Niuna schietta contemplazione del mondo poetico: citazioni, esposizione e parafrasi. La sua critica psicologica è monca; la sua sintesi è falsa. A volte qualche paradosso, che nasce dal suo veder le cose da un lato solo; nessuna vera originalitá, nessuna profonditá, nessun indizio di seria meditazione, nessuna costanza nel seguire uno scopo. Ripeto la mia domanda: — Onde nasce tanta inconsistenza e inconseguenza? — .

Lamartine non ha un ingegno filosofico. Non ha né tale larghezza da comprendere la veritá in tutto il suo significato, né tale penetrazione da coglierne le parti sostanziali, e [p. 85 modifica]soprattutto non ha la pazienza dell’analisi. Gli è mancata ancora una educazione filosofica. Poca dimestichezza con la scienza; nessun abito del meditare, nessun concentramento di tutte le facolta in uno scopo. È uomo d’impressione e d’immaginazione. Quello che per gli altri è meditare, per lui è un fantasticare; le dottrine filosofiche sono per lui «des réves»; l’idea non gli si presenta che attraverso una immagine. Ha un certo intuito del vero che gli si rivela a lampi; e quando s’incontra con la veritá, è maraviglioso di eloquenza. Ma quel vero non sa accarezzarlo, fecondarlo, svolgerlo; la sua immaginazione è uno spirito ribelle, che lo porta a sbalzi di cosa in cosa; che non gli lascia percorrere tutta una serie d’idee; che gitta il disordine nella sua intelligenza, e gli toghe ogni stabilitá di disegno, ogni serietá di scopo, ogni concordanza di mezzi. La sua sintesi non è una totalitá organica che si dispiega a mano a mano secondo le sue proprie leggi; ma è un’anarchia d’idee provenute da diverse fonti, dalla tradizione, dalla educazione, dai pregiudizii, dalla moda, da’ libri, dai piú opposti sistemi, affogata in un flutto d’immagini. L’immagine è la filosofia della idea, il suo velo trasparente: in lui é spesso una maschera o una nube. Gli è perché, a volere che l’immagine illumini l’idea, si richiede che questa stia innanzi allo spirito netta e precisa. Dante intuisce l’idea anche piú astrusa e meno accessibile con uno sguardo sicuro; indi l’evidenza scultoria e la proprietá della sua immagine, che è come acqua limpida che ti lascia ire con l’occhio giú nel profondo. Lamartine non ha ancora ben chiara l’idea, e giá corre all’immagine, contento di somiglianze e di rapporti estrinseci e superficiali. Diresti che l’idea sia per lui un semplice pretesto per cacciar fuori una bella immagine.

Lamartine è un ingegno incompiuto. È potente di immaginazione, vivace d’intelligenza, non paziente, non meditativo, non profondo. E se avesse avuto coscienza di sé, avrebbe fatto quello solo che può e sa fare. Ma l’immaginazione è un ospite pericoloso; e perché noi possiamo tutto ben dire, ci persuadiamo che possiamo tutto dire. Fu un tempo che egli accoppiava a questo donò prezioso dell’immaginazione l’entusiasmo, l’amore [p. 86 modifica]e la fede. Eco delle idee popolari, se ne impadroniva, se ne innamorava, ed era in certo modo il segretario della pubblica opinione. Piaceva tanto vedere quelle idee cosí magnificamente addobbate, cosí luccicanti. L’idea presa assolutamente ha sempre un po’ di vero e un po’ di falso; vuoisi circoscriverla, metterla in rapporto con le condizioni della sua esistenza, trovare la serie a cui appartiene e assegnarle il suo posto: questo fa il filosofo. Il sofista si serve di quella parte di vero per accreditare l’altra parte di falso. Lamartine non è un sofista; ha l’anima nobile e la coscienza onesta: che fa? Sopprime il falso e ti presenta il vero, in buona fede: qualitá eminente, non di filosofo, ma di oratore. Anche nelle cause piú cattive, come in quella del gesuitismo, ciò ch’egli difende non è il falso. È facile ad illudersi; cede alle impressioni, si appassiona per ciò di cui parla, e s’innalza fino ad un Urico entusiasmo. Vengono nuove impressioni; le sue idee cangiano, ma non cangia il suo cuore: vi trovi lo stesso culto del vero, la stessa onestá d’intenzione, la stessa elevatezza di sentimenti. È l’oratore nato della gioventú e del popolo. Non sei però ben certo se quell’entusiasmo, quell’accento di convinzione abbia profonde radici. Spesso nasce con l’impressione e muore con quella: è un calore d’immaginazione; la sua musica risuona ancora nelle nostre anime, ed egli l’ha giá dimenticata. E dico la sua musica, perché in fondo in fondo l’idea è per lui un accessorio, e ciò che piú gl’importa è di gittare negli orecchi torrenti di armonia. Ora la sua fede è morta; l’avvenire gli si è chiuso e non vive che del suo passato. Prende a trattare una quistione, ed il suo passato lo incalza e vi si ficca in mezzo; pensa a Foscolo, a Monti, a Rossini, e tosto fi pianta per raccontarci la sua visita alla duchessa d’Albany. Scherza troppo con la sua materia, e non si scherza impunemente. Odia il riso, che egli chiama, non mi ricordo piú dove, cosa diabolica, privilegio di Satana: sempre le cose vedute da un punto solo. Eppure, mentre fa professione di serietá, non è facile trovare ora qualche cosa di serio nella sua anima. L’antico Lamartine è morto: de’ tanti uomini che vivevano in lui non è rimasto, com’egli ci assicura, che un solo, [p. 87 modifica]l’uomo di lettere. Dubito ch’egli sia stato mai altro che questo, se per uomo di lettere si dee intendere, come egli crede ed ha torto, colui che sappia ben dire. Montaigne ne aveva un ben piú alto concetto: non sapeva egli concepire il ben dire senza il ben pensare. Gli manca ora la serietá del pensiero e della fede: gli lesta la parte teatrale, una immaginazione non doma, segregata dalle forze intellettuali, che per antico abito gli presta ancora i suoi colori, come un orologio che continua a suonare per un lesto di corda che dura ancora.

Prendiamo, o lettori, prendiamo il libro delle Meditazioni, e inebriamoci di poesia. Vi troveremo il nostro Lamartine che destò in noi e desterá ne’ posteri quello entusiasmo e quella fede di cui è ora in lui spenta la fonte. Sia con lui crudele chi può; quanto a noi, prostriamoci con mesta riverenza innanzi ad un ingegno che muore.

[Nella «Rivista contemporanea», a. V, i857, vol. IX, pp. 57-76.]

  1. «Molli, fovet, medullas, labefacta, percurrit, infusus.» Allude a’ seguenti versi di Virgilio:
                                   Dixerat; et niveis hinc atque hinc diva lacertis
    Cunctantem amplexu molli fovet. Ille repente
    Accepit solitam flammam, notusque medullas
    Intravit calor et labefacta per ossa cucurrit;
    Non secus atque olim tonitru quum rupta corusco
    Ignea rimo micans percurrit lumine nimbos:
    .       .       .       .       .       .       .       Ea verba locutus
    Optatos dedit amplexus, placidumque petivit
    Conjugis infusus grernia per membra soporem.
                        
  2. Vi è un luogo di Montaigne, stupendo di buon senso e di stile, che qualifica questa maniera: «Mon page jaict l’amour et l’entend; lisez luy Leon Hebreu et Ficin; on parle de luy, de ses pensèes et de ses actions, et il n’y entend rien. Je ne recognois pas chez Aristote la plus part de mes mouvemens ordinaires: un les a couverts et revestus d’une autre robbe pour l’usage de l’eschole. Dieu leur donne bien faire! Si j’estois du mestier, je naturaliserois l’art autant comme ils artialisent la nature. Laissons lá Bembo».
  3. La parte allegorica