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A' miei giovani. Prolusione letta nell'Istituto politecnico di Zurigo

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A' miei giovani. Prolusione letta nell'Istituto politecnico di Zurigo
Le «Contemplazioni» di Victor Hugo «Cours familier de littèratur» par M. de Lamartine
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A’ MIEI GIOVANI

Prolusione letta nell’Istituto politecnico in Zurigo.


                                                                             Considerate la vostra semenza; Fatti non foste a viver come bruti Ma a seguitar virtude e conoscenza.

Il giorno in cui do principio alle mie lezioni, soglio sempre fare ai miei giovani un po’ di discorso cosí all’amichevole, quasi preludio a quell’armonia intellettuale che a poco a poco si andrá formando tra noi. E lo fo per iscritto, come uomo che pone molta cura nel suo abbigliarsi la prima volta che si dee presentare in una casa rispettata. Non dimando se questo si costumi qui: cosí facendo, non adempio ad un uso, ubbidisco al mio cuore.

Siate dunque i benvenuti, miei cari giovani: il vostro professore v’indirizza un affettuoso saluto. Rivedo con piacere i miei amici dell’anno passato, li ringrazio della fidanza che pongono in me e mi rallegro con essi della loro costanza ne’ buoni studi. Quanto ai nuovi, facciano animo; troveranno qui de’ buoni compagni che li accoglieranno con cordialitá, ed un maestro zelantissimo del loro bene, che si studierá di agevolar loro la via. Formiamo, miei cari, formiamo una sola famiglia, raccolti qui per intrattenerci dimesticamente e passare un’ora piacevole in compagnia di due scrittori, co’ quali abbiamo giá [p. 54 modifica]stretto conoscenza: Dante e Manzoni. Questo anno prenderá parte alle nostre conversazioni anche un terzo, Ludovico Ariosto; e, quando egli vi si presenterá col suo risolino amabile chiedendo l’ingresso, son certo che gli farete festa, e volentieri lo accoglierete tra voi. Apparecchiamoci, miei amici, ad udire questi grandi uomini con la serietá del rispetto: sono conversazioni, dalle quali uscirete educati, nobilitati, piú contenti di voi.

Secondo l’ordinamento dell’Universitá politecnica federale, questi studi non sono obbligatorii. Sono obbligatorie quelle lezioni solamente di cui avete necessitá per l’esercizio della vostra professione: tutto l’altro è lasciato a vostra libera elezione. Come in un altr’ordine d’idee la legge vi obbliga a non fare il male, ma non a fare il bene, cosí voi siete obbligati a studiare per vivere, per provvedere a’ vostri bisogni materiali; ma quanto alla vostra educazione intellettuale e morale, voi non avete alcun obbligo legale. Il governo ve ne dá i mezzi; se non volete giovarvene, se non sentite come uomini l’obbligo morale di educare la vostra mente ed il vostro cuore, sia pure: vostro danno e vergogna.

In effetti, con le sole lezioni obbligatorie, qualunque tu sii che te ne possi contentare, tu non sei ancora uomo, tu sei, permettimi ch’io te lo dica, un animale bello e buono. — Un animale ragionevole, mi risponderai, che sa la matematica, la fisica, la meccanica. — Certamente, e perciò animale colpevole, che ti sei servito della ragione unicamente a scopo animale. In effetti, ditemi un po’, miei giovani, quando costui avrá passata la sua giornata a lavorare per procacciarsi il vitto, empiutosi il ventre, inumidita la gola, fatta una bella digestione; in che costui differirá dal suo mulo o dal suo asino, che anch’egli ha passata eroicamente la sua giornata tra il lavoro e la mangiatoia? Un giorno confortavo allo studio delle lettere un mio giovane amico di Napoli, il quale stette un pezzo muto a sentir le mie belle ragióni; poi, come a chi fugge tutto a un tratto la pazienza: — Sai, disse, che ti credevo un po’ piú uomo? Che diavolo! Bisogna ben ragionare. Credi tu che una terzina di Dante mi possa toglier di dosso i miei debiti, o che tutti gl’Inni [p. 55 modifica]del Manzoni mi dieno un buon desinare? Filosofia, letteratura, storia! a che prò? per finire in uno spedale? Oibò! io studierò il Codice, farò un bell’esame e sarò fatto giudice. Che bisogno ha un giudice di Dante o del Petrarca? — . Come vedete, è questo un magnifico ragionamento dal punto di vista asinino. E costui non aveva ancora diciotto anni! E parlava giá a questo modo! Crebbe rozzo, salvatico, plebeo; divenne giudice; ed oggi questa bestia togata divide il suo tempo tra le condanne a morte, ai ferri, all’ergastolo de’ suoi stessi compagni, ed i buoni bocconi.

Non credo che sia questo l’ultimo scopo che l’uomo si debba proporre, e che Dio ci abbia data l’intelligenza per provvedere alla pancia, come ha dato gli artigli e le zanne alle belve. Voi siete in un’etá, nella quale, impazienti dell’avvenire, ciascuno se lo figura a sua guisa. Quali sono i vostri sogni? che cosa desiderate voi? Fare l’ingegnere? è giusto: ciò dee servire alla vostra vita materiale. Ma, e poi? Oltre la carne vi è in voi l’intelligenza, il cuore, la fantasia, che vogliono esser soddisfatte. Oltre l’ingegnere, vi è in voi il cittadino, Io scienziato, l’artista. Ciascuno si fa fin da ora una vocazione letteraria. Né vi maravigliate. Poiché la letteratura non è giá un fatto artificiale; essa ha sede al di dentro di voi. La letteratura è il culto della scienza, l’entusiasmo deU’arte, l’amore di ciò che è nobile, gentile, bello; e vi educa ad operare non solo per il guadagno che ne potete ritrarre, ma per esercitare, per nobilitare la vostra intelligenza, per il trionfo di tutte le idee generose. Questo è ciò ch’io chiamo vocazione letteraria; e voi m’intendete, o giovani, voi, ne’ quali l’umanitá ogni volta si spoglia delle sue rughe e si ribattezza a vita piú bella.

Ben so che molti oggi non hanno della letteratura la stessa opinione. Lascio stare coloro che ne fanno una mercanzia e dicono: — In un secolo industriale e commerciale siamo per nostra disgrazia letterati, facciamo bottega delle lettere — ; e vendono parole, come altri vende vino o formaggio. Non vo’ profanare questo luogo, né spaventare le vostre giovani menti, mostrandovi nudo questo meretricio traffico dell’anima. Ben vo’ parlarvi di alcuni altri. A quello stesso modo che certi [p. 56 modifica]scono oggi la civiltá alla libertá, soddisfattissimi che loro si promettano strade ferrate e traffichi e industrie e qualcos’altro di sottinteso; cosí alcuni non osano di difendere la letteratura per sé, e la nascondono sotto il nome di coltura. Se raccomandano questi studii, gli è perché dilettano ed ornano lo spirito, compiono l’abbigliamento, vi fanno ben comparire. Leggono, come vanno a teatro, per divertirsi; fanno provvisione di aneddoti, di motti, di argomenti per acquistarsi la riputazione di uomini di spirito; quello che lodano ne’ libri, biasimano nella vita. E se qualche povero uomo accoglie seriamente quello che legge e vi vuol conformare le sue azioni, gli è un matto, una testa romanzesca, un sentimentale, e che so io. No, miei cari. La letteratura non è un ornamento soprapposto alla persona, diverso da voi e che voi potete gittar via; essa è la vostra stessa persona, è il senso intimo che ciascuno ha di ciò che è nobile e bello, che vi fa rifuggire da ogni atto vile e brutto, e vi pone innanzi una perfezione ideale, a cui ogni anima ben nata studia di accostarsi. Questo senso voi dovete educare. E che? I cinque sensi che abbiamo comuni con gli animali sono necessarii, e questo sesto senso, per il quale abbiamo in noi tanta parte di Dio, sarebbe un lusso, un ornamento di cui si possa far senza? Non cosí è stato giudicato da’ nostri antichi: ché in tutt’i tempi civili l’istruzione letteraria è stata sempre la base della pubblica educazione. Certo, se ci è professione che abbia poco legame con questi studi, è quella dell’ingegnere; e nondimeno lode sia al governo federale, il quale ha creduto che non ci sia professione tanto speciale e materiale, la quale debba andare disgiunta da un’istruzione filosofica e letteraria. Prima di essere ingegnere voi siete uomini, e fate atto di uomo attendendo a quegli studi detti da’ nostri padri umane lettere,’ che educano il vostro cuore e nobilitano il vostro carattere, deli Non posso meglio conchiudere il mio dire, che parlandovi di un uomo, il quale vi potrei proporre come tipo di quella perfetta concordia ch’esser dee tra lo scrivere e l’operare. Alessandro Manzoni, a cui dobbiamo tante dolci ore passate nella lettura del suo romanzo, ha sortito da natura una eguaglianza di [p. 57 modifica]animo, per la quale tutte le sue facoltá si temperano e si accordano. Vi è in lui la calma e la serenitá dell’uomo intero, che lo distingue dall’infelicissimo Giacomo Leopardi, anima scissa e discorde. Questa musica o misura interiore è visibile, ne’ suoi scritti e nella sua vita: trovi in lui la modestia del pensiero congiunta con la temperanza dell’azione. Esempio raro di uno spirito semplice e sano in un’etá gonfia e malata, dove gli scrittori o ti fanno pallide copie della realtá, come il Rosini, o trascendono in pazze e tumide fantasie, come il Guerrazzi. Il tipo manzoniano è un accordo del reale e dell’ideale in quella giusta misura che dicesi vero. A quelli, i quali affermano che la letteratura vi porta fuori del reale in un campo fantastico e immaginario, e che vi toghe il giusto criterio delle cose nella pratica della vita, si potrebbe rispondere con l’esempio del Manzoni, in cui il senso storico o reale è tanto profondo. Sono falsi e incompiuti quei poeti che guardano le cose da un lato solo, e di quello fanno la misura e la ragione del loro ideale. Quantunque il Manzoni sia ne’ particolari dell’invenzione e dello stile mente affatto italiana, pure nei fondamenti del suo mondo poetico è umano, o, come oggi dicesi, cosmopolita. Vede le cose con la serenitá di un Iddio che abbraccia con vista amorosa tutto il creato; non ci è uomo o cosa che egli non alzi in un certo spirito universale di caritá e d’amore, in che è posta la sua idea religiosa; e in mezzo alle misere querele di quaggiú risuona la sua voce sempre amica e pacata:

                                    Siam fratelli, siam stretti ad un patto!                               

Di che nasce quella sua universalitá che gli fa guardare le cose nella loro interezza con si squisite transazioni, con si giuste gradazioni, di modo che non ci è altezza tanto superba, e sia anche Napoleone, che non sia levata in quella sfera superiore, e ridotta al suo giusto valore. Attirati soavemente in questo mondo sereno, sentiamo tranquillar le tempeste dell’animo, raddolcire i nostri cuori, fuggir da noi tutte le cattive passioni. Sicché possiamo dir del Manzoni quello che fu detto di Schiller, [p. 58 modifica]che, se non è il piú grande dei poeti, è il piú nobile, il piú simpatico, quello a cui vorremmo piú rassomigliare.

Vi ho detto cosí alla grossa quello che mi è venuto in mente intorno ad uno scrittore, del quale a suo tempo vi dovrò intrattenere lungamente. Ma ciò che vi ho detto è bastante a farvi estimare una poesia, che non si trova nella raccolta delle sue opere, che è ignota a moltissimi, e di cui voglio farvi dono, quest’oggi. È scritta nel marzo del 1821, quando gl’italiani si levavano da ogni parte per redimere la loro patria dallo straniero, ed è indirizzata a Teodoro Koerner, il Tirteo della Germania, morto sui campi di Lipsia, combattendo per il suo paese. Ve la leggerò prima, poi vi farò alcune osservazioni:

                              

MARZO 1821

alla illustre memoria
di
TEODORO KOERNER
poeta e soldato
della indipoendenza germanica
morto sul campo di lipsia
il giorno xviii d’ottobre mdcccxiii
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria.


ODE

                              
                                         Soffermati sull’arida sponda.
Volti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel nuovo destino,
Certi in cor dell’antica virtú,
Han giurato: non fia che quest’onda
Scorra piú tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l’Italia e l’Italia, mai piú!

                              
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                                         L’han giurato: altri forti a quel giuro
Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell’ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Giá le destre hanno stretto le destre;
Giá le sacre parole son porte:
O compagni sul letto di morte:
O fratelli su libero suol.

     Chi potrá della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell’Orba selvosa
Scerner l’onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell’Oglio le miste correnti,
Chi ritogliergli i mille torrenti
Che la foce dell’Adda versò.

     Quello ancora una gente risorta
Potrá scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati.
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.

     Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto
Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede sul suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo:
L’altrui voglia era legge per lui;
II suo fato, un segreto d’altrui;
La sua parte, servire e tacer.

     O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v’è.
                              
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                                    Non vedete che tutta si scuote.
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de’ barbari piè?

     O stranieri! sui vostri stendardi
Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito
V’accompagna all’iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni
Dio rigetta la forza straniera;
Ogni gente sia libera, e péra
Della spada l’iniqua ragion.

     Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de’ vostri oppressori.
Se la faccia d’estranei signori
Tanto amara vi parve in quel dí;
Chi v’ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell’itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v’udí?

     Si, quel Dio che nell’onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
Che non disse al germano giammai:
Va’, raccogli ove arato non hai;
Spiega l’ugne; l’Italia ti do.

     Cara Italia! dovunque il dolente
Grido usci del tuo lungo servaggio;
Dove ancor dell’umano lignaggio
Ogni speme deserta non è;
Dove giá libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura.
Dove ha lacrime un’alta sventura.
Non c’è cor che non batta per te.

                              
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                                         Quante volte sull’Alpi spïasti
L’apparir d’un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne’ deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno a’ tuoi santi colori,
Forti, armati de’ proprii dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.

     Oggi, o forti, sui volti baleni
II furor delle menti segrete:
Per l’Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito de’ popoli assisa,
O piú serva, piú vil, piú derisa
Sotto l’orrida verga stará.

     Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d’altrui,
Come un uomo straniero, le udrá!
Che a’ suoi figli narrandole un giorno
Dovrá dir sospirando: «Io non v’era»;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata in quel di non avrá.
                              

Trovate in questa poesia tutte le qualitá che vi ho indicate nel genio del Manzoni. Non è una Marsigliese, neppure una poesia del Berchet, potentissimo de’ nostri poeti patriottici. Ne’ versi di costui sentite una certa profonditá di odio che spaventa, la tristezza dell’esilio, l’impazienza del riscatto, ed un tale impeto e caldo di azione*che talora vi par di sentire l’odore della polvere ed il fragore degli schioppi: qui è il suo genio. La poesia del Manzoni non è solo un inno di guerra agli italiani, ma un richiamo a tutte le nazioni civili; la parola del poeta è indirizzata agli italiani ed ai tedeschi insieme. In tanta concitazione di animi non gli esce una sola parola di odio, di vendetta, di [p. 62 modifica]bassa passione, lontano parimente da ogni jattanza: non vi è il fremito e la spuma della collera, ma la quieta temperanza di un animo virile. Recherò ad esempio le prime strofe in cui si parla del giuramento. Gl’italiani non vi sono rappresentati nell’atto della collera, con gesti incomposti, con grida selvagge, con occhi scintillanti; ma in attitudine scultoria, «assorti nel nuovo destino», presenti a sé stessi e consapevoli, con gli sguardi rivolti al Ticino, ’come a fatto irrevocabile, parati al sacrifizio, sospinti da dovere e non da inimicizia. Il giuramento non viene da entusiasmo poco durabile, ma da calmo e solenne proposito; onde le ultime parole, che precedute da vanti e da furori produrrebbero il riso, trovano fede ed inteneriscono, come ciò che è vero e sentito:

                                    O compagni sul letto di morte,
O fratelli su libero suol!
                              

Cosi i dolori del popolo lombardo sono rappresentati con la sublime semplicitá di Silvio Pellico; quanto men concitata è la narrazione, tanto piú solenne è il rimprovero. Il poeta non mira a destare rabbia contro gli oppressori, ma compassione verso gli oppressi: onde in mezzo al clangore delle spade spira non so che di tenero e di flebile che commove senza infiacchirti.

                                         Cara Italia!  .       .       .       .       .
.        .        .        .       .       .       .       .
Dove ha lagrime un’alta sventura,
Non ci è cor che non batta per te.
     Quante volte sull’Alpi spïasti
L’apparir d’un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne’ deserti del duplice mar!
                              

Sono rimembranze di dolori, d’illusioni, di desiderii congiunte con la fermezza e La santitá del proposito; nasce per questo popolo pietá, ammirazione o rispetto.

Tale è il linguaggio nobile che il Manzoni tiene agli Italiani. Nello stesso tempo egli volge la parola al Tedesco, non come [p. 63 modifica]nemico, ma come fratello. Ragiona senza pedanteria; ammonisce senz’acerbitá; nel suo rimprovero vi è tanta dolcezza! Mentre il germano affila la spada contro un popolo oppresso, ei gli fa lampeggiare dinanzi l’immagine di Dio, «padre di tutte le genti», al cui cospetto i popoli sono fratelli. Mentre il germano affila la spada, ei gli si presenta tenendo amicamente per mano Teodoro Koemer, diletto da quanti hanno cuore tedesco, il cantore e il guerriero dell’indipendenza germanica. Bel giorno fu quello per il popolo tedesco! Dopo lunga pazienza si leva in armi contro lo straniero entratogli di forza in casa; si ode per i campi risuonare il grido di libertá e d’indipendenza; i governi invitano tutte le nazioni a francarsi dal giogo straniero; nelle battaglie di Lipsia corrono a stormo le genti strette intorno al loro poeta... Il Manzoni raccoglie queste onorate rimembranze e le rimette loro davanti, rimprovero vivente. Cosí la poesia s’innalza al di sopra degli odii e delle collere terrene, prendendo per base la fratellanza universale, l’eguaglianza di tutti i popoli innanzi a Dio: è la musa del Manzoni!

Ciò ch’io vi sono andato toccando non è che il concetto nudo e grezzo della poesia. Non è necessario che un argomento sia concepito in questo o quel modo; Berchet, Leopardi, Koerner, Manzoni lavorano la stessa materia con diverso concetto. Ciò che importa è che stabilito una volta il concetto, l’esecuzione vi corrisponda; il valore estetico di un lavoro procede non dall’idea, ma dalla sua manifestazione. L’idea costitutiva di questa poesia è animata da una libera felice ispirazione? è vinta la sua natura astratta? la forma, perduta ogni cruditá, si è immedesimata con lei?

Miei cari, ora che siamo discesi nel campo estetico, voi sapete il metodo. Voi dovete considerarmi come un condiscepolo; noi formiamo una piccola conversazione; ciascuno dice la sua e discutiamo. Io voglio che voi non istiate lí con la bocca aperta e occhi levati a raccoglier le parole dell’oracolo, con niun altro incomodo che d’imprimerle nella vostra mente. Voi dovete avvezzarvi a pensare col vostro capo, a trovare il vero, a sentire la gioia di averlo trovato voi stessi. Perché la discussione sia [p. 64 modifica]bene apparecchiata, desidero che due tra voi si leggano e si studiino bene la poesia, e ci dicano il loro avviso. Scelgo a questo uffizio due studiosissimi giovani, un tedesco e l’altro italiano, voi, miei dilettissimi amici, Zuberbühler e Marozzi. Deh! come voi con fraterna comunanza d’idee lavorate insieme, e come qui, nella libera Svizzera, figli di razze diverse e nemiche e serve in casa loro, strettasi la mano e accomunata l’opera, si hanno creata una patria, possano un giorno italiani e tedeschi, fatta la giustizia, abbracciarsi, lavorando per la comune libertá al santo grido:

                              

Siam fratelli! siam stretti ad un patto!

                              

[Nella «Rivista contemporanea», a. IV, i856, vol. VIII, pp. 289-90.]