Roveto ardente/Parte prima/IV

IV

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IV.

Era la Madonna di mezzo agosto, e il meriggio ardeva incandescente sopra la campagna annichilita per la caldura. Dal suolo screpolato salivano fiamme, quasiché la corteccia della terra ricoprisse un vasto incendio sotterraneo; e il sole, trionfando implacabile, lasciava cadere perpendicolarmente i suoi raggi, che ferivano l'occhio a guisa di liste metalliche incandescenti.

In lontananza, l'Adriatico somigliava alla groppa lucida d'un mostro assopito, e, in vicinanza, le cicale schiamazzavano discordi, rendendo più greve il fastidio della canicola.

Germano, dopo aver gettato lungi da sé giacca e cappello, si era disteso bocconi all'ombra di una quercia, attendendo pazientemente che il dottore tornasse dalla casa bianca, dove Flora stava inchiodata al letto da circa due settimane.

Ben presto infatti udì scricchiolare la ghiaia del viottolo e vide comparire la piccola persona del Giani. [p. 67 modifica]Germano eresse il petto e chiamò a voce alta:

— Dottore! Il Giani, che camminava in fretta, tenendo un fazzoletto bianco sciorinato sull'ampio cappello di paglia, guardò intorno a sè per vedere di dove la voce salisse, poiché Germano rimaneva com pletamente nascosto nel seno ombroso giacente fra l'albero e il folto canneto. — Chi mi cerca? — gridò il Giani col suo consueto tono collerico. — Germano Rosemberg — rispose il giovane dal suo nascondiglio; e senza muoversi, tanta era in lui la fiacchezza di tutte le membra, lan ciò oltre la quercia una grossa zolla per indicare al dottore dov'egli si trovasse. — Ah! sei tu? — esclamò il Giani, girando intorno alle complicate ramificazioni delle radici, che il tronco aveva distese per segnare il terreno con una fitta rete di vene legnose. — Perchè stai li in agguato? Germano lo interruppe, domandandogli con ansia: — E Flora? La faccia del dottore si oscurò, ed egli, asciu gandosi la fronte madida, rispose crollando il capo: — Ebbene, la faccenda non è allegra. — Dunque c'è pericolo? — esclamò Germano, coprendosi di pallore. — Non dire sciocchezze — rispose il Giani con aria seccata. — A diciotto anni non si muore, e poi, quando mi ci metto di buona voglia, so come si fa per prendere a pedate i becca morti. [p. 68 modifica]L'idea del dottore Giani che prendeva a pe date i beccamorti trasfuse a Germano un po' di coraggio e lo indusse ad approfittare dell'occa sione per ottenere dal dottore qualche notizia precisa circa le condizioni economiche dei Vianello.

— Senta - egli chiese, appoggiando al suolo le braccia conserte per farsene puntello alla fac cia: — lei, che da tanti anni è amico della fa miglia Vianello, mi spieghi bene l'imbroglio dei loro affari. Dev' essere una matassa assai arruf fata. Per quanto è ipotecata la casa bianca?

Il dottore divenne acre: — Volevo ben dire io che il tuo amore per quella povera ragazza fosse disinteressato. Eb bene, ti consiglio di lasciar Flora in pace, per chè, quando il vecchio conte sarà morto, e ciò av verrà assai presto, i creditori caleranno sulla casa bianca come un branco di cavallette e tro veranno molto meno di quanto devono avere. — Ma insomma per quanto è ipotecata la casa bianca? — insistè Germano, senza porre mente al tono iroso del dottore. — Credi forse che io sia pagato dal comune per fare la spia? No; io sono pagato per impe dire alla gente di morire prima del tempo. Ecco tutto — gridò il Giani. — Se hai bisogno di ficcare il naso nei fatti altrui, mantieni un poli ziotto e serviti. E io — soggiunse poscia fuori di sè — che ti credevo innamorato di Flora! Certo, sono stato un vero imbecille a pensarlo; ma tu, dal canto tuo, sei una vera canaglia. Germano fissò il dottore e disse coll'accento della più assoluta sincerità: — Vede! Se Flora abitasse lì, in mezzo a [p. 69 modifica]quel canneto e non avesse di suo che la pelle del corpo...

— Non ha niente di più, sta tranquillo — in terruppe il dottore alquanto rabbonito.

— Ebbene, la sposerei lo stesso; la sposerei anche se dovessi chiedere l'elemosina per mante nerla; ma perchè non cercare di sapere come stanno le cose, dal momento che il conte è im becillito, die la madre è quello che è, e che Flora non può intendersi di tali faccende? — Alla fine dei conti potresti anche aver ra gione — borbottò il dottore, e s' indusse aspie gare che la casa bianca era spogliata di ogni suo valore, che i debiti ne avevano rosicchiato persino le fondamenta e che egli stesso aveva dovuto litigare coi creditori, trattandoli da can nibali, per ottenere che essi lasciassero morire in pace il vecchio conte. Morto il nonno, Flora si sarebbe trovata in mezzo alla gente, senza protezione, senza istruzione, senza esperienza, senza nessun mezzo di procacciarsi la vita, si mile a un povero agnellino in mezzo a una torma di lupi affamati.

— Ma sono qua io! — esclamò Germano. Quando Flora sarà mia moglie i creditori si tro veranno fra i denti un osso duro!

— Magnificamente detta — rispose il dottore — e sarà per me uno spettacolo sopraffino ve derti alle prese con quello stormo dì corvi che stanno coi becchi aperti e i gozzi spelacchiati a gracchiare intorno alla casa bianca. I-' odore di cadavere li alletta e ti prevengo che non sarà fa cile cacciarli via con gli artigli asciutti. Ad ogni modo sbranatevi, dilaniatevi, derubatevi pure. Ladri sono loro con i loro strozzinaggi; ladro [p. 70 modifica]— sei tu con le tue possidenze. Più v'azzuffate tra voi e più forte io batterò le mani.

Cosi parlava il dottor Giani, allontanandosi pel viottolo affocato; ma, in fondo al cuore, egli era assai felice che Germano amasse Flora e pen sasse a sposarla.

Sissignori, la terra è di tutti, le case appar tengono a tutti, la proprietà è un furto bello e buono, la ricchezza è una mostruosità, un vi gliacco insulto dei pochi contro i molti, e doveva finalmente arrivare il giorno, in cui, a ogni passo, si sarebbe posto il piede sopra un mucchio di dinamite. Allora i gaudenti avrebbero fatto in aria un'allegra danza e la gamba spezzata di un banchiere si sarebbe trovata a contatto col braccio spezzato di un generale e la testa, spiccata dal busto, di una duchessa,. avrebbe fatto il bocchino al mozzo capo di qualche damerino blasonato, e il sangue sarebbe grondato sulla terra a fecon dare sentimenti di universale fratellanza, e le mem bra, a lacerti, degli antichi padroni si sarebbero aggirate in ridda vorticosa fra il polverìo solle vato dalle macerie.

Ma nell'attesa di giorni così lieti non c'era, peral tro, niente di male che Flora diventasse ricca, sposando un imbecille danaroso.

Animato da tali benevoli pensieri il dottore arrivò alla farmacia di Novillara, dove cominciò a discutere rabbiosamente di politica col gruppo dei piccoli possidenti, sfaccendati per il giorno festivo!

Germano, intanto, rimasto immobile nel suo giaciglio di verdura, si andava tracciando tutto un piano di battaglia per riscattare dai creditori la casa bianca, e sorrideva tra sè, raffigurandosi [p. 71 modifica]il viso attonito e giulivo di Flora, quando egli l'avesse presa per mano e l'avesse condotta nella casa bianca, mormorandole all'orecchio, in quel l'orecchio color di rosa, trasparente e terso come conchiglia marina:

— La casa bianca è tua; sono io che te la regalo.

Cosa avrebbe detto Flora per ringraziarlo? Ella non avrebbe detto nulla; avrebbe sollevato verso di lui i cari occhi stellanti, umidi per amore e letizia, e gli avrebbe offerte le care lab bra porporine, odorose come fragole, dolci e te naci come uno sciroppo fortemente zuccherato. Ma egli, prima di sugger le labbra, l'avrebbe baciata a lungo, nella profonda fossetta del mento, nella fossetta profonda, ove pareva che il sorriso e le brevi parolette d'amore traessero origine, e dove i baci, dalla bocca chiesti e promessi, si an nidavano e tremavano, impazienti di sciogliere il volo.

Dal petto di Germano un sospiro doloroso esalò. La lontananza di Flora aumentava in lui la febbre dei sensi, anziché mitigarla. Alla pre senza di lei il desiderio taceva, addolcito dalla tenerezza ineffabile onde l'anima era invasa. Ogni atto di lei era fonte di nuova estasi; ogni parola emanava un fluido più squisito delle precedenti parole; ogni sguardo apriva un lembo più for bito di azzurro, per entro la cui cristallina pu rezza il pensiero si smarriva leggero e inebbriato; ogni tremolìo delle ciglia molceva il suo spirito; e la stessa rapida molteplicità delle sensazioni gli calmava i sensi, stordendoli e addormen tandoli.

Ma adesso gli elementi impuri, onde ogni a[p. 72 modifica]more sessuale è contaminato, salivano a galla e gli ricoprivano la superficie del pensiero di una bava rossigna, dalle cui piccolissime bolle in perpetuo movimento, grassi vapori sorgevano, e i vapori assumevano parvenze insidiose, e la fan tasia si faceva pascolo di quelle insidie, blanden dole voluttuosamente.

Germano non si raffigurava più Flora sottile ed eretta nella pace luminosa dei campi, con la veste candida svolazzante tra i rami a guisa del l'ala di una farfalla, coll'esile collo emergente dall'apertura della gonfia giacchetta alla marinala, quale egli aveva costume di vederla e di sognarla per il passato; no, egli se la raffigurava adesso col viso acceso, gli occhi brillanti, le labbra soc chiuse ed aride, i capelli disciolti sopra le spalle imperlate di sudore e uscenti nude dalle coltri; egli se la raffigurava col petto anelante e le braccia protese, come 1' aveva vista sei giorni prima, quando, mercè la regalia di alcune lire alla contadina che assisteva Flora, egli aveva ot tenuto di entrare nella stanza di lei e di avvici narsi al suo capezzale.

— Il tifo è contagioso — aveva gridato Flora con accento disperato. — Va via! Va via! Io voglio che tu vada via!

E Germano, per calmarla, aveva dovuto an darsene, dopo averle fatto giuramento solenne che mai avrebbe osato tornare. E non era più tornato, infatti, anche perchè il dottor Giani gli aveva imposto di lasciar Flora tranquilla. Ma, da quel giorno, egli se la vedeva sempre dinanzi così ardente e discinta, e si sarebbe davvero po tuto credere che la fanciulla gli avesse trasmesso nelle vene il contagio della sua febbre. [p. 73 modifica]L'orologio del castello di Novillara suonò le due e i rintocchi dell'ora vibrarono sopra i campi, come sopra i rottami di una città incendiata, di cui gli edifizi fossero stati distrutti, ma dove le fiamme guizzassero ancora, stanche e sazie di preda, lambendo i residui della rovina.

Le membra a Germano pesavano quasi di piombo; il sangue gli circolava tardo, simile a onda di metallo fuso, e il volto era bianco, affi lato sotto le ciocche spioventi dei capelli.

Egli non pensava più e nemmeno fantasticava. Avrebbe voluto alzarsi, andare alla sua villa, im mergere le braccia e la testa nella vasca del suo giardino e sdraiarsi nella poltrona di vimini della sua veranda; ma una prostrazione insuperabile lo teneva inchiodato bocconi al suolo, nel verde na scondiglio, celato a ogni sguardo dal tronco della quercia e dalle foglie del canneto.

A un certo punto ebbe 1' impressione di una sbarra di ferro che gli gravasse sulla nuca; fece uno sforzo per sollevarsi e invece ricadde più pesantemente e chiuse gli occhi per non vedere al di là del canneto, il bagliore della terra riarsa.

Le cicale erano insopportabili con il loro te dioso ritornello. Che cosa dicevano, che cosa vo levano quelle bestie pettegole, ciancianti intermi nabilmente da un ramo all'altro per l'eterna lun ghezza dei meriggi estivi? Certo, l'argomento delle loro ciance non doveva essere vario, perocché ripe tevano sempre lo stesso verso gemebondo, simile a rumore di porta che strida sui cardini rugginosi.

— Fa caldo! Fa caldo! Fa caldo! — grida vano in coro le cicale; poi, dopo un momento di sosta ripigliavano con suono più lungo, più alto, più stridulo: [p. 74 modifica]— --- Cantiamo! Cantiamo! Cantiamo! — Cantate pure, maledette bestiacce — bor bottò Germano incollerito, sentendo che cedeva al sonno. — Cantate pure; ma verrà 1' inverno e cre perete! Le cicale all'inverno non ci pensavano e da ogni ramo, da ogni virgulto, dalla cima dei grossi alberi, dalle ripiegature dei grossi tronchi, da ogni frasca ricurva, da ogni gruppo di fronde, daH'incartocciamento di ogni foglia, il coro stu pidamente dispettoso, ripeteva: — Fa caldo! Fa caldo! Fa caldo! e, dopo una sosta, s'incitava a riprender la nenia, gridando; — Cantiamo! Cantiamo! Cantiamo! E Germano si addormentò di un sonno dolo roso, di quel sonno che rende assolutamente morte le membra, e impedisce ogni movimento più lieve, pur lasciando il pensiero sospeso e vagante in una semilucidità. Al di là delle palpebre soc chiuse le forme ondeggiavano con parvenze di fantasime e i sommessi rumori della campagna gli giungevano all'orecchio traviati, dando al ronzìo di un insetto il fragore di onda vorticosa, e al fruscio delle fronde il suono misterioso di voci bisbiglianti a complottare un delitto. Germano si lamentava nel sonno a quando a quando. Perchè nessuno veniva a scuoterlo dal torpore? Egli aveva perfetta coscienza del luogo e dell'ora; egli sapeva di dormire al riparo della quercia; sapeva che si sarebbe destato fra poco; sentiva il canto delle cicale; si ricordava perfino di tenere in fresco nella grotta alcune bottiglie di vino vecchio da bersi alle sei con alcuni amici, che dovevano arrivare dalla città; eppure [p. 75 modifica]aveva paura, e lo invadeva un bisogno affannoso di muoversi, uno spasimo, un'ansia, il presenti mento confuso di un pericolo che lo sovrastava e che egli non avrebbe potuto, nemmeno voluto combattere. La persona diventava sempre più greve, il pensiero sempre più vigile. Le foglie del canneto ebbero un fruscio leggero. Forse una bestia s'insinuava tra le canne, strisciando cauta verso di lui. I capelli si rizzarono sulla fronte di Germano.

Egli volle gridare, ma dalla gola appena un rantolo uscì. E il canneto aveva un fruscio sem pre più frequente, sempre più prossimo. Un odore indistinto di cosa viva giungeva alle nari di Germano, un odore acuto che egli non cono sceva, ma che gli faceva aggricciare la pelle di tutto il corpo. Il canneto si aprì vicino a lui col rumore dell'acqua agitata da due robuste brac cia natanti, e nel calore dell'aria, corse vicino al viso del giovane il calore più intenso dell'alito uscente da un petto, di cui egli udiva il respiro. Germano soffriva orribilmente e aveva paura paz zamente. Era desto oramai. Sapeva, sentiva di avere qualcuno presso di sè, e non poteva muo versi, non poteva urlare.

Uno sfioramento quasi impercettibile sopra l'a vambraccio nudo, un tocco lieve come di bestia, che tenti la pelle col velluto della zampa prima di conficcare le unghie nella carne, ruppe il le targo di Germano, il quale balzò in piedi, riu scendo finalmente a cacciar fuori dalla gola il grido che lo soffocava.

— Signor Germano, perchè grida così? — disse Balbina, guardandolo fisso coi chiari occhi a fior di testa e sorridendo di un risolino canzonatore. [p. 76 modifica]Germano rimase smarrito per un istante, non riuscendo a rendersi esatto conto della realtà e scrutando intorno a sè con torbido sguardo.

Balbina continuava a fissarlo e da quegli occhi chiari e ostinati veniva a lui un malessere insop portabile.

Gli pareva che migliaia di piccoli insetti cam minassero per la sua cute e che dentro il cranio un martello picchiasse assiduo. Stava in piedi, addossato al tronco della quercia, senza riuscire ancora a raccapezzarsi bene.

Balbina si avanzò di un passo e gli si trovò tanto vicina che Germano vedeva il palpito della gola di lei e poteva seguire il corso di una stilla di sudore scendente, pian piano, dall'attaccatura del collo e dilatantesi presso l'agitata rigonfia tura del seno.

La ragazza rideva sottovoce, a sussulti ner vosi, e il candore voluminoso del petto, in gran parte scoperto, era solcato da molte minute in crespature, come la superficie di un lago sotto la luna, quando un pesce passi e guizzi a fior d'ac qua, sommergendosi subito e scomparendo nelle profondità dell'onda.

— Io sono vestita alla peggio — ella disse --Fa tanto caldo.

Germano si passò a più riprese la mano sulla fronte e si gettò indietro le ciocche arruffate dei capelli.

— Mi dispiace di aver'e messo paura. Balbina soggiunse, dopo un momento di si lenzio, tirando a sè un ramo pendulo e comincian do, per vezzo, a mordicchiarlo. — Le belle ragazze non fanno paura — ri spose Germano affettatamente spavaldo, vergo[p. 77 modifica]gnoso e irritato del suo stupido terrore di poco fa e del suo strano turbamento di adesso.

I denti di Balbina, aguzzi e bianchi come pi gnoli appena sbucciati, stringevano forte il ramo e somigliavano, così infissi nel legno grigiastro* a un dop io giro di perle orientali divise da un bizzarro fregio di argento brunito.

--· Sì, sono bella — disse Balbina con orgo glio pacato e, buttato via il ramo, spuntò, con gesto rapido, le due grosse forcine che le tenevano stretti i capelli a sommo del capo e squassò l'ac cesa chioma fulva, che le scese in ampio volume sopra le spalle.

Un odore di cosa viva, quell'odore stesso che Germano aveva percepito nell'incubo, gli salì vio lento al cervello e lo stordì.

Enigmatica e procace, con le forme esuberanti, le vesti leggere e scomposte, con la fiammante criniera entro cui le dita di lei si agitavano per renderne più appariscente la massa e per farne esalare più tormentoso il profumo, Balbina pa · reva l'immagine dell'Estate lasciva e perfida, quando essa matura veleni e serpenti, febbri e delirio.

Germano, fuori di sè, le afferrò le braccia per respingerla, per cacciarla via e liberarsi da quel contatto che lo rendeva furioso.

— Vada via! Se ne vada! — e la scuoteva con violenza, ma senza lasciarla, perchè le dita gli rimanevano attaccate, come in virtù di cala mita, nelle fresche, sode carni di lei.

— Non mandarmi via — Balbina mormorò e gli occhi le rilucevano tra il velame dei capelli, che adesso cadevano spioventi sul viso; e la bocca rossa si avanzava di tra il bagliore della chioma, [p. 78 modifica]quale chiazza di sangue che brilli sopra la giubba di una leonessa ferita.

Quel colore di sangue rese furibondo Germano, il quale si precipitò su Balbina e l'abbattè ai piedi della quercia, convulso, ansimante, squas sandola rabbiosamente.

Da allora cominciò per il povero ragazzo una vita d'inferno. Di tacito accordo egli e Balbina s'incontravano ogni giorno, durante le ore cani colari, nell'insenatura formata dal suolo fra il tronco della quercia e il limite del canneto.

Germano, disteso bocconi, attendeva alla so lita ora col cuore gonfio d'ira, col proposito fer mo d'insultare la ragazza, appena ella sporgesse di tra il verde frusciante delle canne la testa fulva, spiando cauta da sinistra a destra, pari a volpe, che scruti, ed esiti, e fiuti, col muso in aria e le quattro zampe raggruppate e frementi, pronte per la fuga al più lieve sentore di peri colo. Bastava il rosseggiare dei capelli di lei per accendere nel sangue di Germano un iroso fer vore di battaglia; bastava che fissasse gli occhi di lei sporgenti e chiari, dove guizzava beffarda l'intesa di una secreta complicità, perchè Germano fosse assalito dalla voglia di annientare Balbina come si annienta una bestia malvagia, che fa non pertanto tremar le vene e i polsi col fascino della sua animalità onnipotente.

— Cosa vuoi? — egli le diceva, balzando in piedi e parlandole concitato. — Ti avevo detto di non venire più.

--- E tu perchè sei tornato, allora? — ella rispondeva, conscia oramai del suo potere.

Germano, cui il fermento della collera ribolliva nel sangue, tentava spegnere nelle braccia di lei [p. 79 modifica]— il tormentoso, inesplicabile martirio di una sete di febbricitante, che l'amara bevanda non sarebbe mai riuscita ad estinguere; poi l'allontanava da se, torvo, ostile, con le labbra contratte, come di chi abbia sorbito da una coppa nauseabonda.

— Vattene! — le diceva a denti stretti. — Vattene e non tornare!

Ella scompariva di tra le foglie del canneto senza salutarlo, senza una parola di lagno o pro testa per il congedo brutale di Germano.

Ma intanto sul viso di lei, ogni giorno più pal lido, guizzava un risolino enigmatico ogni giorno più beffardo.

Le lettere, che in questo mezzo Germano scri veva a Flora, erano lunghe, appassionate, inge nue, a brevi periodi isolati, legati a casaccio me diante congiunzioni fuori di posto, e impregnate di quell'aroma speciale emanante dagli inni dei rudi poeti primitivi, dove il pensiero ha l'anda tura goffa e deliziosa di un bimbo cui la nutrice allenti il sostegno delle dande, e in cui il senti mento spuntatimido come una rosa marzolina che tremi per un attimo in cima allo stelo e si sfogli subito, abbandonando i suoi petali tra gli ispidi rovi di un ciglione.

Il giovane, che fino allora aveva considerato il calamaio quale raffinato strumento di tortura, trascorreva adesso ore e ore chiuso nella sua stanza a scrivere, scrivere, ripetendo sempre le stesse cose, ma gustando un puerile intenerimento a tracciare sul foglio i cinque segni ond'era com posto il nome di Flora. Poi, con la lettera in tasca, si recava a gironzare nei pressi della casa bianca, allungando il collo per iscorgere al di là della siepe la piccola persona del dottor Giani, [p. 80 modifica]che, verso il crepuscolo, si avanzava a grandi passi, col cappellaccio di paglia calato sugli occhi e in mano un giornaletto incendiario, letto da lui con meditazione concentrata.

Germano gli si avvicinava come se niente fosse, e, mentre il dottore ripeteva ad alta voce i brani di qualche articolo di suo gusto, il giovane gli lasciava destramente cadere la lettera nell’ampia tasca della giacca.

Il dottore sarebbe diventato furibondo se si fosse accorto della soperchieria; eppure, appena giunto presso il letto dell’inferma, le offriva sbadatamente il modo di frugargli nella tasca con la furtiva manina scottante e di ritrarne la lettera, che era per Flora la più refrigerante delle bevande e la più benefica delle pozioni.

Quando poi Flora s’impazientiva per il lento procedere della malattia e contava sulla punta delle dita il numero delle settimane già trascorse a letto, il dottore saltava su tutte le furie e domandava a Flora perchè ella non si scrivesse da sè una ricetta miracolosa che inducesse il tifo a correre come un levriere, anziché camminare a passi di tartaruga.

— Ma il tifo — egli gridava, gonfiando le gote e agitando in avanti le braccia — se ne ride di medici e medicine; il tifo prende le cose con tutto suo comodo, e nessuna barba di professore è mai giunta a farlo sloggiare prima del tempo! — e se ne andava, pensando che quell’animale di Germano doveva avere scritto una lettera troppo breve, dal momento che Flora trovava lunghi i giorni della malattia.

Ma le lettere di Germano non erano mai brevi, e Flora sapeva d’altronde disporre del contenuto [p. 81 modifica]di esse con tale parsimonia, che una lettera di quattro pagine bastava a tenerle compagnia per intere giornate. Anzitutto bisognava decifrarne la calligrafia tozza e tonda; poi comprendere il senso delle parole; poi misurare la portata delle frasi; poi paragonare l'ultima lettera con le precedenti, per vedere se ci fosse nulla di cambiato nel modo di esprimersi di Germano; poi contare quante volte fosse scritto il nome di Flora; poi, finalmente, chiudere gli occhi per ripetersi a fior di labbra le amorose parole e le appassionate invocazioni.

Anche sua madre le scriveva, ma le lettere di Adriana erano diventate rare, laconiche, chiuse in buste, di una squisita tinta violacea, con una leggerissima filettatura aurata. Dai primi di luglio Adriana non iscriveva più da Roma, di dove nell'estate fuggivano tutte le persone ragguardevoli, compreso l'onorevole Montefalco, il caro amico previdente e provvidente, il quale aveva voluto che Adriana si recasse al mare, poscia a Vallombrosa.

Adriana era delicatissima di salute; il morale di lei era rimasto terribilmente scosso per la tragica fine dell'indimenticabile marito, e l'onorevole Montefalco non nascondeva le sue gravi preoccupazioni in proposito.

Durante la malattia di Flora erano giunti saltuariamente alcuni telegrammi, che dovevano essere stati redatti in modo affrettato, tra l'ora del bagno e quella della colazione. L'ultimo di essi, con risposta pagata, era concepito così:

«Vivo per te in tremendissime ansie. Parto fra un'ora per una gita di piacere a Venezia. Dammi notizie. Guarisci». [p. 82 modifica]E, a distanza di due settimane, era pervenuta una lettera datata nuovamente da Rimini e in cui si parlava di una grande festa di beneficenza. La lettera descriveva minuziosamente l'abbigliamento indossato da Adriana per la mondana solennità: una veste di crespo verde pallido su trasparente color di rosa.

«Non trovare strano — ella scriveva – che io abbia deposti gli abiti di lutto prima dell'anno stabilito dalle consuetudini. L'onorevole pensa che il nero aumenta la mia tristezza, e i grandi dolori non amano fare pompa di sè. Ordinai dunque due soli abiti neri, nell'occasione della sventura, e li ho indossati pochissimo, molto più che la sarta me li aveva fatti assai male».

Fosse la febbre, fosse la debolezza estrema, o il profumo troppo acuto esalante dal foglio violaceo, fosse il nome di Montefalco che, nel semi delirio, le evocava alla mente la figura di un uccellaccio dal ventre pennuto e dagli artigli adunchi, fatto è che la lettera di Adriana pose l'inferma in tale stato di agitazione da far perdere la bussola al dottor Giani, il quale, uscendo dalla casa bianca, rispose con una bestemmia formidabile alle interrogazioni di Germano e scomparve dietro la siepe del viottolo, imprecando contro il suo ignobile mestiere, che lo obbligava ad affannarsi e ad appassionarsi per gli altrui malanni.

Germano, a testa china, seguitò a camminare verso la casa bianca, per entrare un momento nella sala a pianterreno, dove il vecchio conte viveva nel più completo abbandono.

Quando Germano entrò il conte Innocenzo, son[p. 83 modifica]necchiava, seduto al solito posto nel vano della finestra. Uno sciame di mosche gli ronzava con petulanza intorno al viso, ed il vecchio, a quando a quando, scuoteva la testa a guisa di cavallo decrepito giacente presso la greppia, e le mosche allora si allontanavano turbinando per tornare subito a svolazzare più ardite su quella povera carcassa umana, ridotta oramai a un mucchio d'ossa e di cartilagini, in cui la vita si manifestava con moti meccanici.

Sino a dieci mesi prima il conte Innocenzo faceva tutti tremare, tutto piegare sotto l'impero della sua volontà e adesso egli stava a ludibrio di uno sciame d'insetti dispettosi, curvo, piegato in due, con le mani tremolanti abbandonate sulle coscie e con la faccia immota, sopra cui la stupidità aveva allacciata l'opaca sua maschera.

Germano sentì la fosca tragicità dell'antitesi, e poiché era infelice e tormentato dal rimorso pei giornalieri convegni con Balbina, sconvolto dall'ansia per le recenti parole del dottore, provò istintivo e profondo il rispetto per quello spetta colo di rovina.

Si avvicinò al vecchio conte, lo sollevò quasi di peso e gli offerse il braccio per fargli muovere qualche passo intorno alla stanza. Il conte Vianello fissò con occhio incerto il volto di Germano e rimase un attimo quasi a frugarsi nel pensiero, poi, forse scoraggito per la vana fatica, lasciò cadersi la testa sul petto e cominciò a camminare, trascinandosi dietro una gamba dopo l'altra.

Ma, da quel giorno, verso l'ora del tramonto il vecchio scrutava con ansia la porta della sala e appena l'aitante figura del giovane appariva [p. 84 modifica]- nel vano di essa, il conte faceva l'atto di volersi alzare e si aggrappava con ambe le mani al braccio di lui, come se quella esausta senilità sperasse attinger vigore da quella giovinezza trionfante.

Fu così che, sulla fine di ottobre, dopo circa tre mesi di malattia, Flora sorprese il nonno e Germano a passeggiare adagio intorno alla sala, mentre la pacata luce di un meraviglioso pomeriggio autunnale entrava per le due finestre spalancate.

Flora aveva lasciato il letto da una settimana e il dottore le aveva assolutamente vietato di restare in piedi più di tre ore; ma ella si sentiva cosi leggera, dalla campagna, immersa languidamente nel riposo dell'autunno, salivano onde di vita cosi fragranti, che Flora, dopo essersi avvicinata alla finestra e aver bevuto a sorsi larghi e lunghi l'ossigeno dell'aria inebbriante come liquore, volle tentare di scendere le scale e, appoggiandosi al muro, sostando a ogni gradino, portandosi ripetutamente le mani agli occhi per vincere il capogiro, arrivò presso la soglia della sala e rimase in piedi, appoggiata allo stipite della porta, tanto si sentiva vacillare.

Germano, nel voltarsi per nuovamente attraversare la sala in tutta la sua lunghezza, vide la giovanetta davanti a sè, più alta, più snella, di una pallidezza diafana e di una purezza immateriale nel candore del bianco accappatoio di flanella, che le scendeva a fitte crespe dal collo alla caviglia.

Un fazzolettino di seta bianca, cingente la fronte a foggia di benda monacale e annodato dietro la nuca, aggiungeva grazia alla oblunga [p. 85 modifica]magrezza del viso, dove i profondi, limpidi oc chi cerulei brillavano di un riso tenue, come due piccoli laghi aperti fra la neve e in cui il cielo si rispecchi.

Germano la contemplava estatico. Quel tanto di poesia che ciascun essere umano porta con sè, quasi retaggio di vita anteriore più armoniosa e più pura, palpitò allora nell'anima di Germano, ed egli conobbe il brivido divino onde l'ideale inebbria le vene, quando esso fol gora dalle sue regioni inesplorate, balena e di legua, lasciando dietro di sè odore quasi di am brosia. Il giovane non ebbe coraggio di avvicinarsi a Flora. Temeva che ella fosse morta, che quella par venza immacolata fosse lo spirito di lei e che, al menomo moto, si facesse vapore e svanisse a confondersi con la trasparente lucentezza del1' aria. — Germano — ella mormorò, e la voce di lei era fievole — Germano, ho paura di cadere. Germano si divincolò dalla stretta del vecchio, che rimase barcollante in mezzo alla sala, e corse a Flora per sorreggerla. Le circondò l'esile corpo con le braccia, ma senza toccarla, timoroso di farle male, forse di spezzarla, tanto ella gli ap pariva fragile. ·--- Sono molto brutta? — ella chiese, e, nella interrogazione, il sorriso errò per le care labbra scolorite e si arrestò, annidandosi nella cupa fos setta del mento. Egli non poteva rispondere; le cadde in gi nocchio davanti e, ruppe in singhiozzi affannosi. Flora sapeva di essere amata appassionata[p. 86 modifica]mente; ma vedersi Germano annichilito davanti, con la giovane persona sbattuta dall'impeto del pianto, la inquietava e la rapiva di gioia ad un tempo.

— Germano! Germano! — ella ripeteva, sfio randogli con la punta delle dita i capelli — Ger mano, non piangere così. Alzati, Germano, alzati!

Egli, sempre ginocchioni, sempre con la fronte piegata, accennava di no col capo, e i singhiozzi seguitavano a scuotergli le spalle con sussulti rari e profondi, quasi sradicati con uno strappo dalle più secrete làtèbre dell'anima.

— Basta, Germano — implorava Flora, stretta alla gola dal contagio del pianto. — Basta, mi fai male --- e poiché la convalescente si chinava verso di lui soavemente pietosa, il giovane le prese le mani con atto devoto, in esse nascose la faccia e in esse versò, con le lacrime onde le gote erano cosparse, tutte le brutture di quei tre mesi.

Il vecchio conte era rimasto immobile nel cen tro della sala e annaspava con le dita a guisa di chi, avvolto nell'oscurità, cerchi e non trovi a tentoni il consueto punto d'appoggio.

Germano e Flora avvertirono lo smarrimento del conte e si sorrisero dolcemente, guardandosi negli occhi, come si sorridono due sposi inna morati ai pavidi vezzi del loro unico fantolino. Germano sostenne energico, col braccio destro, il greve corpo vacillante del vecchio, sorresse coll'altro la persona lieve della giovanetta, e, così uniti, procedettero adagio verso la finestra, di dove i campi apparivano di un colore di rosa morta per il riflesso del blando rossore onde il cielo, ad occidente, era soffuso. [p. 87 modifica]— Guarda la campagna — diceva Flora — è tutta color di rosa — ed ella stessa s'intonava alle delicate sfumature di quella tinta, e intorno al collo e di su per le gote il sangue affluiva, dando alla pelle il colore di una perla incasto nata presso a un rubino.

— Guarda! Guarda! — Flora mormorava, sollevando la piccola mano per accennare verso il punto estremo dell'orizzonte, dove il color della rosa moriva, a poco a poco, nel colore di una ciarpa aurata, di tessuto cosi leggero e mobile, da accogliere e riflettere ogni più mutevole can giar della luce.

— Guarda, Germano, guarda! — e Germano guardava infatti, guardava e ammirava, ma egli non aveva bisogno di muovere l'occhio. A lui bastava contemplare il volto di Flora per vedere adunate nel sorriso di lei tutte le bellezze del cielo e della terra.

Da quel pomeriggio egli interruppe senz'altro i suoi convegni con la Tebaldi, e, avendola in contrata una mattina in mezzo ai campi, si fermò con lei un momento per ispiegarsi, acciocché tra loro non permanesse neppure l'ombra di un ma linteso. Le parlò gentile, quasi affettuoso, attra versando il giovane un periodo di bontà singo lare, e non pose mente allo strano mutamento avvenuto nella ragazza, di cui le forme erano più turgide e il volto più scarno, velato da una espressione intraducibile di sofferente stanchezza'.

— Sono contento di averti incontrata — egli disse — per farti capire che il tempo delle scioc chezze è finito. Del resto, noi rimarremo amici, e a quello che è stato non ci si pensi più.

Gli occhi di Balbina ebbero un lampo di scherno. [p. 88 modifica]--· Non pensarci più — ella rispose — è più presto detto che fatto. Saranno state sciocchezze, forse, ma le sciocchezze, come le serpi, hanno la coda lunga.

— Certo, certo; ma quando uno dei due non vuole più saperne, l'altro deve rassegnarsi --- disse Germano con accento deliberato, senza pre occuparsi d'indagare il senso delle parole di Balbina.

— Anche questo è giusto — la ragazza af fermò, e accompagnò le parole con una risatina canzonatoria. — Di sole due cose peraltro non dimenticarti, Germano. Prima di tutto che io ero onesta, poi che sono giovane, molto giovane, e che, data la mia età inferiore ai diciotto anni, potrei farti avere parecchie seccature.

Il Rosemberg non afferrò la minaccia chiusa nelle parole di Balbina e, per tagliar corto a un dialogo che lo infastidiva, concluse scherzoso:

— Sei molto giovane, certo; basta guardarti per saperlo. Quanto alla tua onestà, bisognerebbe che fossi tu a pigliarti il gusto di metterla in dubbio. Io — e la fissò bene, come per tacita, solenne promessa — mi farei strappare la lingua avanti di proferire parola contro di te.

— Grazie, grazie — rispose Balbina, ridendo forte, e gli voltò le spalle; ma, fatti pochi passi, si fermò, si volse dalla sua parte, gli lanciò obli quamente un' occhiata schernitrice, poi gii disse ancora: — Potrei farti avere parecchie seccature. Ricordati.

Germano riprese zufolando la sua via, imme more, spensierato, persuaso, nella sua spavalda inconsideratezza di aver tutto liquidato, tutto sal dato con poche parole di spiegazione.

Balbina, gli ardenti meriggi estivi, le smanie [p. 89 modifica]— passate, i passati disgusti, la malattia lunga di Flora, le trepidazioni, gli affanni, tutto era sva nito lontano, come dileguano i vapori maligni di una inestricabile foresta, dimora di streghe e di mostri, appena un' ascia poderosa rompa il vi luppo dei rami ed apra adito al sole, trionfal mente.

I giorni trascorrevano per Germano in radiosa uniformità, e l'estate di San Martino rideva giu liva più di una primavera, intorno al rifugio in cantato della casa bianca, allorché la catastrofe scoppiò inaspettata, simile a ciclone che d'im provviso si scateni e tutto spezzi e travolga.