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L'orologio del castello di Novillara suonò le due e i rintocchi dell'ora vibrarono sopra i campi, come sopra i rottami di una città incendiata, di cui gli edifizi fossero stati distrutti, ma dove le fiamme guizzassero ancora, stanche e sazie di preda, lambendo i residui della rovina.

Le membra a Germano pesavano quasi di piombo; il sangue gli circolava tardo, simile a onda di metallo fuso, e il volto era bianco, affi lato sotto le ciocche spioventi dei capelli.

Egli non pensava più e nemmeno fantasticava. Avrebbe voluto alzarsi, andare alla sua villa, im mergere le braccia e la testa nella vasca del suo giardino e sdraiarsi nella poltrona di vimini della sua veranda; ma una prostrazione insuperabile lo teneva inchiodato bocconi al suolo, nel verde na scondiglio, celato a ogni sguardo dal tronco della quercia e dalle foglie del canneto.

A un certo punto ebbe 1' impressione di una sbarra di ferro che gli gravasse sulla nuca; fece uno sforzo per sollevarsi e invece ricadde più pesantemente e chiuse gli occhi per non vedere al di là del canneto, il bagliore della terra riarsa.

Le cicale erano insopportabili con il loro te dioso ritornello. Che cosa dicevano, che cosa vo levano quelle bestie pettegole, ciancianti intermi nabilmente da un ramo all'altro per l'eterna lun ghezza dei meriggi estivi? Certo, l'argomento delle loro ciance non doveva essere vario, perocché ripe tevano sempre lo stesso verso gemebondo, simile a rumore di porta che strida sui cardini rugginosi.

— Fa caldo! Fa caldo! Fa caldo! — grida vano in coro le cicale; poi, dopo un momento di sosta ripigliavano con suono più lungo, più alto, più stridulo: