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necchiava, seduto al solito posto nel vano della finestra. Uno sciame di mosche gli ronzava con petulanza intorno al viso, ed il vecchio, a quando a quando, scuoteva la testa a guisa di cavallo decrepito giacente presso la greppia, e le mosche allora si allontanavano turbinando per tornare subito a svolazzare più ardite su quella povera carcassa umana, ridotta oramai a un mucchio d'ossa e di cartilagini, in cui la vita si manifestava con moti meccanici.

Sino a dieci mesi prima il conte Innocenzo faceva tutti tremare, tutto piegare sotto l'impero della sua volontà e adesso egli stava a ludibrio di uno sciame d'insetti dispettosi, curvo, piegato in due, con le mani tremolanti abbandonate sulle coscie e con la faccia immota, sopra cui la stupidità aveva allacciata l'opaca sua maschera.

Germano sentì la fosca tragicità dell'antitesi, e poiché era infelice e tormentato dal rimorso pei giornalieri convegni con Balbina, sconvolto dall'ansia per le recenti parole del dottore, provò istintivo e profondo il rispetto per quello spetta colo di rovina.

Si avvicinò al vecchio conte, lo sollevò quasi di peso e gli offerse il braccio per fargli muovere qualche passo intorno alla stanza. Il conte Vianello fissò con occhio incerto il volto di Germano e rimase un attimo quasi a frugarsi nel pensiero, poi, forse scoraggito per la vana fatica, lasciò cadersi la testa sul petto e cominciò a camminare, trascinandosi dietro una gamba dopo l'altra.

Ma, da quel giorno, verso l'ora del tramonto il vecchio scrutava con ansia la porta della sala e appena l'aitante figura del giovane appariva