Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XII

Capitolo XII

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CAPITOLO XII.

Arte e artisti.



Sommario: Gli artisti rappresentavano una nota allegra nella vita sociale. — Il caffè Greco e l’osteria di Zio. — L’istituto di belle arti e l’accademia di San Luca. — La scuola del nudo di Gigi. — Modello di Cristo in croce. — Alunni che divennero illustri. — Antonio Dal Zotto, Giulio Monteverde, Cesare Maccari e Giulio Cantalamessa. — Vertunni e Fortuny. — Bernardo Celentano e l’architetto Cipolla. — Arte industriale. — Commissioni più frequenti e meno retribuite. — Due commissioni al Celentano. — Tra Celentano e il cardinal Medici. — Il suo epistolario. — Muore dipingendo il Tasso. — È il maggior artista del tempo. — Vien sepolto a Sant’Onofrio. — Genio artistico del Fracassini e del Fortuny. — Formano col Celentano la triade dei pittori più famosi. — La scultura. — Adamo Tadolini e Pietro Tenerani. — Morte del Tenerani. — Sepolto in Santa Maria degli Angeli. — L’americano Story e l’inglese Gibson. — La contessa di Castiglione e i fratelli Caetani. — Il carnevale e gli artisti. — La festa di Cervara, sospesa per dieci anni, è ripresa nel 1859. — Ricordì umoristici. — Il 25 aprile 1857 a Sant’Onofrio. — Terzo anniversario della morte del Tasso. — Trasporto delle ceneri nell’arca del nuovo monumento. — Seduta all’accademia dei Quiriti. — Teresa Gnoli e Giannina Milli. — Il cardinale Gaude fa alla Milli una corte assidua. — Arrivo di Liszt nel 1861, e di Gounod nel 1869. — L’inno di Gounod per il Papa. — Amori di Liszt con la principessa di Wittgenstein — Loro tenero epistolario. — Pio IX nega il divorzio della principessa. — Muore il principe de Wittgenstein. — Sembrano prossime le nozze. — Liazt si chiude in Vaticano e prende gli ordini inferiori. — La principessa seguita ad amarlo. — Sua vita stravagante in Roma. — Benchè in abito ecclesiastico, Liszt ripiglia la vita mondana. — Si pubblica il suo carteggio con la De Wittgenstein. — Alcune lettere della principessa dopo il 1870. — Concerti musicali nella sala Dante. — La società del quartetto. — Mancanza di grandi sale per concerti.


Gli artisti formavano nella vita sociale di allora una classe affatto distinta, con una nota propria, schietta e geniale. Non c’erano circoli o clubs, e per una tradizione quasi secolare, si davano convegno al caffè Greco, in via Condotti, che era divenuto loro feudo e recapito, e campo chiuso delle loro dispute vivaci e iperboliche. Il caffè Greco, quasi a mezzo cammino tra via Margutta, sede degli studi e della scuola del nudo, e l’osteria [p. 208 modifica]di Zio, nell’angusta strada Tomacelli, era un posto elegante in confronto dei tre cameroni di quell’osteria, quasi a pian terreno, il primo dei quali serviva di convegno ai negozianti carbonari, genovesi di origine, che discutevano i loro affari, e il secondo e il terzo formavano il refettorio degli artisti. Saloni affumicati e malamente illuminati da lampade a olio, pendenti dal soffitto; pareti sporcate da disegni; panche primitive, e biancheria, che forse un giorno della settimana fu di bucato; ma quanta vita, e che copiosi pasti con pochi baiocchi! Il padrone, che tutti chiamavano Zio, era bonario coi suoi giovani clienti, e faceva loro credito, nè senza rischio, perchè quei clienti appartenevano alla classe più numerosa, e men provvista, dei cultori dell’arte.

La vita degli artisti si svolgeva, dunque, tra brevi confini. L’istituto di belle arti era a Ripetta, dov’è oggi, e v’insegnava pittura il Podesti; scultura, il Tenerani e il Tadolini; architettura, il Guaccerini e il Sarti. Com’è noto, era l’antica e gloriosa accademia di San Luca, cui toccava l’insegnamento dell’arte e la tutela dei monumenti, e che, possedendo un patrimonio, fatto in gran parte di lasciti, pagava, col concorso del governo, ai professori dell’istituto la tenue mercede. E vi era anche l’accademia o confraternita dei «Virtuosi del Pantheon», fondata nel 1481, e che aveva ed ha sede... nel campanile del tempio, in poche camere buie e quasi misteriose! La sua finalità era la tutela della morale nell’arte. Dopo la morte di Canova, la presidenza di San Luca si avvicendò fra il Tenerani, il Podesti, l’architetto Francesco Azzurri, morto di recente; e la presidenza del Pantheon l’ebbero diversi. L’accademia di San Luca e la confraternita dei Virtuosi davano inoltre pensioni e borse di studio, in seguito a pubblici concorsi, e doti alle zitelle, e intervenivano ufficialmente nelle grandi occasioni, e nei ricevimenti. dei cardinali, rappresentate dai propri soci in uniforme, con spadino, pantaloni bianchi, soprabito ricamato in oro od argento, e. cappello a punta, con piuma. In via Margutta vi era la scuola del nudo di Gigi, vecchio modello in riposo. Si narrava di lui che, facendo il modello di Cristo in croce, rimanesse legato per ore intere; e quando gli artisti, credendolo stanco, volevano scioglierlo dalla croce, dicesse romanamente: annamo, annamo.

[p. 209 modifica]In quello studio, che era scuola libera del solo nudo maschile, e di ciociare vestite, la polizia mandava qualche spione, in veste di amatore delle arti, ma i giovani se ne accorgevano, e lo canzonavano. Fra gli studenti, che in quegli anni frequentarono la scuola di Gigi, ricordo Giulio Monteverde, Antonio Dal Zotto, Cesare Maccari e Giulio Cantalamessa, venuti tutti in fama. Gli artisti dello Stato avevano bisogno, per rimanere a Roma, della carta di permanenza, da rinnovarsi ogni quindici giorni, e avevano l’obbligo di giurare fedeltà al Papa. Si pretese il giuramento anche da un giovane Bacchetti di Forlimpopoli, dopo che le Legazioni non fecero più parte dello Stato: il Bacchetti si rifiutò, e fu espulso.

La società artistica era internazionale. Roma fu sempre il grande studio dell’arte nel mondo. I giovani, pensionati dai propri governi, alloggiavano negli edifizi appartenenti ad essi. Il Dal Zotto, pensionato dell’Austria, venuto a Roma nei primi giorni del 1866, abitò al palazzo Venezia; i napoletani, fino al 1848 alloggiarono alla Farnesina; dopo quell’anno, il governo pagò le pensioni per Roma, ma con l’obbligo ai pensionati di stare a Napoli, o di andare a Firenze. Gli artisti, dimoranti a Roma, senza alcun sussidio di governo o di accademie, non eran pochi; e se molti stentavano la vita, frequentando l’osteria di Zio, od altre anche più economiche, parecchi, o agiati di famiglia, o perchè ritraevano bastevoli guadagni dall’arte, vivevano con decoro, anzi Achille Vertunni, completamente romanizzato, menava vita quasi fastosa, e più tardi aprì in via Margutta un magnifico salone, con mobili di gran valore, e coi suoi migliori quadri esposti, e vi dava indimenticabili ricevimenti. Più tardi il Fortuny fece altrettanto nella sua casa fuori porta del Popolo. Bernardo Celentano visse da principio a dozzina presso la famiglia Arnoldi, e scriveva al fratello Luigi, nel giugno del 1854: «io qui a Roma sto perfettamente di buona salute, in mezzo ai più cari amici, tra i quali Cipolla e Vertunni. Godo di Roma da per tutto. Lavoro incessantemente con gran fatica e piacere, e posso assicurarti che non mi manca nulla, stando in questa degna famiglia Arnoldi». Per il rimanente, trascorreva il suo tempo fra la casa di Antonio Cipolla, già venuto in fama d’insigne architetto, e il caffè Greco, [p. 210 modifica]del quale parla nelle sue lettere, piene di strani entusiasmi, e di più strani sgomenti e pentimenti. Discorre in esse degli artisti, che avevano maggior grido, e ricorda Wurzinger, l’autore del famoso quadro L’Abdicazione di Wallenstein, Coghetti, Rievel, Consoni, dei quali, per singole ragioni, era ammiratissimo. Wurzinger lo sorprendeva per verità di scena, per l’espressioni colte alla perfezione, pel colore vigoroso, nel modo di dipingere tizianesco; Coghetti per disegno grandioso, corretto ed esuberante di vigoria; Rievel per gl’indovinati effetti di luce del sole, per colore, grazia, rilievo e verità, e Consoni per semplicità e correzione di stile puro, leggiadro ed attraente, per i bei tipi di testa e disegno gentile e purgato.


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La vita degli artisti era più sciolta che non sia oggi. Se i loro maestri dell’istituto di belle arti indossavano inappuntabilmente la marsina, e portavano il cappello a cilindro, gli scolari vestivano nei modi più bizzarri, ed ogni loro esagerata stravaganza veniva giustificata dal fatto che erano artisti. Vivevano con pochissimo, perchè si viveva con poco da tutti. Con soli tre scudi si abitava, e con venti baiocchi si mangiava largamente. Il mercato artistico era forse più facile del presente, ma la media dei prezzi assai più bassa. Si vendeva forse di più come quantità, non perchè gli stranieri fossero in maggior numero, ma perchè ogni straniero credeva di non aver ben compiuto il suo viaggio, o pellegrinaggio a Roma, senza acquistare un quadro di arte moderna, paesi a preferenza, ovvero una riproduzione delle opere dei più vecchi e rinomati scultori, quali il Tenerani, Adamo Tadolini; o dei giovani, come il Benzoni, il Lombardi, il Roggers, il Rossetti, l’Amici e Scipione Tadolini. Ebbero fortuna l’Eva e la Schiava di quest’ultimo, la Cieca di Pompei del Roggers, e moltissimo la Psiche, la Venere, e il Fauno del Tenerani, nonchè i suoi genii della Pesca, della Caccia, dell’Agricoltura e del Commercio. Se non furon queste le sole fonti della ricchezza del Tenerani, furono di certo fra le maggiori. Se gli stranieri volevano spendere di più, acquistavano riproduzioni del Thorwaldsen, o si facevano pelare dagli [p. 211 modifica]scultori dei rispettivi paesi. Oggi l’umanità sembra meno sensibile agl’impulsi dell’arte, ma, a giudicare dai nuovi altissimi prezzi, e dal numero straordinariamente cresciuto di pittori e scultori, e dall’aumentata produzione di arte industriale, si spende nel complesso molto di più.

Roma contava una ventina di studi di scultura, e oggi son tanti; e di pittura il numero è anche maggiore. In quel tempo la fotografia faceva le sue prime armi, nè lasciava supporre le sue future perfezioni; la volgare oleografia non era apparsa, e l’incisione costava troppo, nè era materia di gran mercato. I governi aiutavano, e con essi le corporazioni religiose, ma la produzione si pagava meno, ripeto, e non vi erano le Promotrici annuali, nè le grandi vendite, nè in America si era sviluppata la febbre degli acquisti di arte antica e moderna. Il primo gran quadro, commesso nel 1860 a Bernardo Celentano, dai gesuiti d’Irlanda, su raccomandazione del padre Curci, venne pagato milleciquecento scudi, e la somma parve straordinaria allo stesso artista. È da ricordare, che quel quadro, il quale rappresenta san Francesco Saverio nel Giappone, misura 10 × 18 palmi; e una commissione procuratagli dal Cipolla, di dipingere a fresco ventotto Madonnine nelle case dei cantonieri della strada ferrata, non gli fruttò che dugentottanta scudi, cioè dieci scudi per ciascuna, tutto compreso. Un ritratto di Pio IX, da lui dipinto per incarico del cardinale De Medici, fu pattuito trentacinque scudi, ma fu pagato trentadue, nè senza stento. In una curiosa lettera degli otto giugno 1857, il Celentano scriveva al fratello: «pel cardinale sto facendo l’arte del diavolo, ma ne uscirò a capo in questa settimana assolutamente». E il quindici dello stesso mese potè annunziargli che alla fine, dopo nove mesi dalla consegna del ritratto, era stato pagato con 32 scudi, e dice: «sono stato pagato al momento con dieci doppie romane, cioè 32 scudi e un paolo: egli (il cardinale) aveva convenuto col Cipolla per 35; comunque sia, sono arrivato a carpirglieli e basta». Il De Medici era facoltoso, e al Celentano aveva, come napolitanamente si costuma, lasciato sperare più di quanto non volesse mantenere.

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L’arte non ebbe in quel periodo grandi affermazioni, tranne nella pittura, in cui impressero indimenticabili orme il Celentano, il Fortuny e il Fracassini, morti giovanissimi. L’epistolario del Celentano, pubblicato dopo la sua morte dal fratello Luigi, riproduce in parte la vita di Roma in quel tempo, e si legge con profondo interesse 1. Bernardo muore, dipingendo il Tasso, il suo capolavoro; e questo quadro, e il Consiglio dei Dieci gli assegnarono il primo posto fra gl’innovatori della pittura. Fortuny e Fracassini vengono dopo lui. Celentano si affermò il maggior pittore del suo tempo, e la morte sua, a ventott’anni, fu pubblico lutto a Roma e a Napoli.

Qual morte! Uscito per tempo e sanissimo di casa, verso le dieci era stato veduto fuori del suo studio a respirare l’aria rinfrescata, dopo la caldura de’ giorni precedenti, e aveva detto al pittore Pollak che quel fresco gli faceva molto bene. Più tardi l’udirono ancora cantare ad alta voce, com’egli usava. Alle undici e mezzo, a un tratto, posata la tavolozza e i pennelli, s’era posto a sedere, restando per alcuni minuti taciturno. A dimanda del modello, se qualcosa lo turbasse, aveva risposto: «un forte mal di capo». Quindi, alzatosi, s’era affrettato a rivoltare il Tasso al muro, riuscendo a muovere il pesante cavalletto, ov’era già situato in cornice; e poi nell’accostarsi al sofà, aveva chiesto un sorso d’acqua; e quando il modello andò a porgergli il bicchiere, trovò l’infelice caduto e privo di sentimento; e così, come l’ebbe alla meglio disteso, uscì fuori, in costume da Torquato, a gridare al soccorso! Cesare Fracassini, Guglielmo de Sanctis, Paolo Mei, il Vaini ed altri accorsero da’ vicini studi, insieme a Michele, il custode; poi sopraggiunsero Pompeo Dovizielli e il farmacista Apolloni, e quindi un primo dottore, e poi un secondo, il Magrini, che non si mosse più di là. Come oppresso da sonno profondo, Bernardo russava fortemente. Inutile la pietà e i rimedi: non diede più segno di [p. 213 modifica]ritorno alla vita. Poi comparve il prete con la stola e l’olio santo, e alle due e dieci minuti, fra gli amici esterrefatti, che accompagnavano genuflessi le ultime preci, il Celentano spirò.

Sette mesi dopo, il 6 febbraio 1864, fu tolto dalla tomba provvisoria, a San Rocco, e sepolto a Sant’Onofrio. Gli artisti vollero che lo stesso muro serrasse il poeta e il pittore e con l’assistenza del Cipolla, fu trasportata la salma lassù. Pochi anni dopo, sulla fossa fu murata questa iscrizione, dettata da Giuseppe Fiorelli:


A Ω
BERNARDUS CELENTANUS
pictor
neapoli natus obiit romae
anno mdccclxiii mense iulii die xxviii
vixit a·xxviii·m·v·d·iii
mater·fratres·soror
p.


Mariano Fortuny fece la sua prima affermazione nella mostra artistica del 1856, e guadagnò il gran premio. Il suo quadro, rappresentante un Matrimonio alla Vicaria di Madrid, fu giudicato una rivelazione. Nato a Reus in Catalogna nel 1838, contava appena diciotto anni, ed era alunno dell’accademia di Spagna. Seguì il generale Prim nella spedizione del Marocco; e l’Africa, sviluppando il suo genio di pittore forte ed originale, gl’ispirò quell’Incantatore di serpenti, ritenuto il suo capolavoro. Tornò con una miniera di studi. Fu anche acquarellista e acquafortista geniale, e l’iniziatore di quella pittura da salotto, così suggestiva: piccoli quadri disegnati stupendamente, con tocchi sobrii, ma vigorosi di colore, e pagati migliaia di lire. Egli esercitò una incredibile influenza nel mondo dell’arte, soprattutto nei giovani, e anche un po’ nei maestri, come il Morelli, e la risentirono in tutta Europa giovani e adulti, ma sollevò non poche critiche. Fu detto che la sua fosse arte senza contenuto, e i critici francesi la definirono superficiale e vuota. Morì a trentasei anni, lasciando una vistosa sostanza, e una quantità infinita di disegni e studi, che furono venduti a caro prezzo. È [p. 214 modifica]sepolto in Campo Verano, presso la tomba della famiglia Lovatelli.

Cesare Fracassini, nato ad Orvieto, morì quasi della stessa età; in seguito a perniciosa, che lo colse, mentre compiva gli ultimi freschi in San Lorenzo fuori le mura. Egli, il Mariani e il Grandi erano stati incaricati di quelle pitture, e le sue furono terminate dal Mei, suo discepolo. Era di piccola statura, e discorreva con difficoltà. Discepolo del Minardi, disegnava perfettamente; amico intimo del Celentano, apprese da lui il segreto dei colori e del sentimento. Avevano studio insieme, in quello stesso numero 33 di via Margutta. I suoi quadri sono grandiosi per ampiezza e felicità di disegno. Il Cristoforo Colombo fu acquistato dal Morgan, e i Martiri Gorgoniensi sono al Vaticano, quadro potente, innanzi al quale si rimane colpiti da terrore e da pietà. Riprodusse, in alcuni di quei personaggi, individui di sua conoscenza. Il giovinetto, che regge la scala, è il ritratto di Giulio Tadolini, suo scolaro; il vecchio sacerdote, che prega, è un veterano di Napoleone I, che aveva perduto un occhio a Marengo; e chi tira la corda è il modello «Arlecchino», notissimo nella famiglia artistica di allora. Quel quadro segnò il punto culminante della gloria del Fracassini. I teloni dell’Apollo, dell’ Argentina, e del teatro di Orvieto, segnano le tappe della sua carriera gloriosa. Giulio Tadolini ne levò la maschera, che si conserva a San Luca...


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La scultura ebbe un avviamento più industriale che artistico, prevalendo le riproduzioni di soggetti biblici, mitologici, pompeiani o romantici. Adamo Tadolini, il discepolo prediletto di Canova, era vecchio; e dopo il monumento equestre a Bolivar nella città di Lima, e il David di piazza di Spagna, una delle quattro statue del monumento della Concezione, non fece altro di paragonabile al San Paolo di fuori della basilica Vaticana, e al San Francesco di Sales, che vi sta dentro, da lui eseguito per commissione di Carlo Alberto. Morì nel 1868, un anno prima del Tenerani, di cui fu rivale non inglorioso. In un interessante libro, pubblicato qualche anno fa, da Giulio Tadolini, [p. 215 modifica]nipote dell’insigne scultore, sono riferiti alcuni episodi della vita artistica di entrambi2. Il Tadolini non pubblica il nome del Tenerani, per riguardo, com’egli dice, ma fa intendere che il solito professore era il Tenerani, che pur non aveva da sperare altro in fatto di onori, e di ricchezze. Il Tenerani dava in quegli anni gli ultimi tocchi alla statua di Pellegrino Rossi, commessagli dal duca Mario Massimo, ed eseguiva ritratti di quante celebrità capitavano in Roma, nonchè il bozzetto del monumento per i soldati pontifici caduti a Castelfidardo. La statua del Rossi è una magnifica opera d’arte. Dagli orti Sallustiani, dove stette parecchi anni, emigrò nel palazzo Massimo ad Aracoeli. Il duca Emilio Massimo, e suo genero Prospero Colonna, dovrebbero donarla al Papa, a patto che sia collocata nel cortile del palazzo della Cancelleria, dove la tragedia fu consumata.

La commissione per il monumento di Castelfidardo fu data al Tenerani da una società di signori guelfi, preseduti dal principe Orsini, ed egli l’accettò di buon grado, e ne fece il bozzetto, che, dice il Raggi, di tutti i suoì a me pare il più bello3. Il concetto è contenuto in una memoria di mano dello scultore: «il divin Redentore accoglie le anime di quei generosi, che caddero a Castelfidardo, in difesa della religione e dei diritti della Santa Sede, combattendo nemici di numero assai maggiore di loro». Ma il monumento non fu eseguito, per la salute sempre più debole dello scultore, che si approssimava alla fine. Si doleva di non poterlo compiere, ma scriveva all’Orsini, in data 17 giugno 1868, che sarebbe stato compiuto da due suoi discepoli, l’Anderlini e il Cardelli. Da poco tempo è stato collocato in San Giovanni Laterano, nella cappella di Santa Severina. Il Tenerani, benchè tacciato dai critici di essere modellatore squisito, ma senz’anima, aveva formata una scuola, della quale furono alunni insigni Giovanni Strazza, Salvino Salvini, il Lucchetti, il Fabi Altini, il Lombardi, il Galletti, l’Anderlini, ed un po’ anche il duca di Sermoneta. Morì nel dicembre 1869, ed ebbe funerali [p. 216 modifica]sontuosi. Fra quelli, che seguirono il feretro, fu notato Cesare Cantù, che trovavasi a Roma per il Concilio Ecumenico. Fu sepolto in Santa Maria degli Angeli, e sul sarcofago si legge un’accademica iscrizione di Salvatore Betti. Fra gli scultori italiani, il Tenerani fu il solo che lasciasse veramente una fortuna; perchè, in fatto di cumular quattrini, gli scultori stranieri erano più abili degli italiani. Lo Story, americano, abitava da gran signore un appartamento al palazzo Barberini; e il Gibson, inglese, morto nel 1866 e allievo del Canova, lasciò una sostanza cospicua, valutata a due milioni. Era un purista, ma senza originalità: la sua creazione più notevole fu il Faeton; venne a Roma povero, e visse con la maggiore parsimonia, poichè era di un’avarizia estrema, comune fra gli scultori, per quanto rara nei pittori. Assiduo frequentatore del caffè Greco, vi si trovava tutte le mattine, col Galli, con l’Amici, con l’Anderson, e altri artisti; fu sepolto nel cimitero dei protestanti, a pie’ della piramide di Caio Cestio.

Un’artista di felice ispirazione era la contessa di Castiglione, Adele d’Affry, la quale, rimasta vedova di Carlo Colonna, si die’ all’arte, e aprì studio in via Flaminia, nella villa Martinori, e assunse il pseudonimo di Marcello. La D’Affry, nativa di Friburgo, era di statura giunonica, molto bionda e piacente, come sì è detto, aveva spirito e cultura; parlava di storia con Gregorovius, di musica con Liszt, di scultura con Tenerani; era piena di seduzioni, ma aveva il difetto di arrivare mezz’ora più tardi agl’inviti a pranzo, e non se ne corresse mai. Una sera dal conte di Sartiges arrivò a pranzo finito. Pareva che le mancasse il criterio del tempo. Nel 1863 espose a Parigi un busto in marmo di Bianca Cappello, che fu lodato e premiato; nel 1865 una Gorgona, e n’ebbe elogi; e per la scala dell’Opéra eseguì un lavoro colossale: una Pitonessa in forme seducenti, che anche oggi vi si ammira. Morì non è molto, assai innanzi negli anni.

Artisti erano i fratelli Caetani, Michelangelo, duca di Sermoneta, ed Enrico. Questi dipingeva assai bene ad acquerello, e il duca era stato geniale scultore in legno, avanti di perdere la vista, e, come ho detto, fu discepolo del Tenerani.

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Le feste del carnevale avevano gli artisti per organizzatori e personaggi, e così pure la mascherata di Cervara. Dal 1849, cioè dal ritorno degli austriaci nel Lombardo-Veneto, non si era più celebrata la caratteristica mascherata, e solo fu ripresa nell’aprile del 1860, e con così grande solennità, che se ne volle perpetuare la memoria in una pergamena sottoscritta da quelli, che vi presero parte, e oggi posseduta dal Circolo degli artisti tedeschi. Com’è noto, la festa di Cervara era promossa da loro; e poichè in quegli anni il paese di Germania, ufficialmente più noto, era l’Austria, così, dopo la guerra del 1859, tornò la concordia tra gli artisti tedeschi e italiani in Roma, e Cervara servì da suggello. Bizzarro spettacolo, del quale i superstiti parlano con esaltazione! Tutta Roma corse a porta Maggiore a vedere il ritorno, ma la polizia impedì ai carri di varcare la porta, e gli artisti mascherati dovettero tornare a piedi. Francesco Iacovacci ricorda che, vestito da guerriero romano, percorse a piedi il lungo tratto da porta Maggiore a casa sua. La mascherata di Cervara è un’altra reminiscenza della vecchia Roma. Oggi la tenuta, dove erano le famose grotte, o cave di tufo, è attraversata dalla strada ferrata di Sulmona, e appartiene da più anni a Giuseppe Pinelli, che ne ha fatta una delle più fertili dell’agro. Allora apparteneva ai chierici di Santa Maria Maggiore. La descrizione degli antichi, caratteristici bagordi, rimane nei libri. Anche l’ordine cavalleresco del baiocco e del mezzo baiocco, di cui il Thorwaldsen si fregiava il petto, nelle grandi occasioni, e il re Luigi di Baviera chiese la concessione, dopo aver assistito ad una festa, è puro ricordo storico. Quest’ordine era concesso dai generali, comandanti la cavalleria, e la «somareria» di Cervara. La mascherata era militare, con armi di legno e lame di stagnola; s’interrogavano le streghe prima di mangiare e di bere, e prima di far ritorno in Roma; v’era una gerarchia, chiamata stato maggiore, e a capo di tutti, un generalissimo, che fu per molti anni Carlo Werner, padre del capitano dei corazzieri di re Umberto. Alla festa di Cervara non prendevano parte le donne; occorrendo rappresentare ninfe, sibille, odalische, o eroine dell’antichità, il sesso forte si camuffava da sesso debole, ed ogni [p. 218 modifica]artista era guerriero o donna, secondo il caso, o l’inclinazione. L’ultima festa di Cervara si compì nel 1873, ma riuscì fredda. La Roma di Cervara è finita anch’essa, come quella dei «barberi» e dei «moccoletti».

Il 25 aprile del 1857 si compì nel monastero di Sant’Onofrio una cara festa. Vi si inaugurò, in occasione del terzo anniversario secolare della morte del Tasso, il monumento innalzato da Pio IX al cantore della Gerusalemme. Dal modesto loculo le ceneri furono trasportate nell’arca, dove s’erge la statua modellata dal Fabris, e molto criticata, perchè davvero il Tasso è in attitudine teatrale. Ma la festa riuscì commovente. Salirono in quel giorno l’erta di Sant’Onofrio monsignor Milesi, ministro dei lavori pubblici, il principe Orsini, senatore di Roma, i dignitari del vicariato, per la esumazione delle ossa, che furono descritte e registrate con rogito speciale, e poi chiuse in altra urna, insieme ad una pergamena, sottoscritta dai presenti. Vi andarono pure i cardinali D’Andrea, Altieri, Gaude, e parecchi diplomatici. Il marchese Gian Pietro Campana, presidente dell’accademia di archeologia, portava dodici commende.

L’accademia dei Quiriti tenne una straordinaria adunanza nell’anfiteatro, dove sorge la vetusta quercia. Il professor Domenico Bonanni pronunziò il discorso inaugurale; il duca Giovanni Torlonia recitò un componimento molto applaudito; Domenico Gnoli, giovanissimo, e sua sorella Teresa declamarono belle poesie d’occasione, ma chi mandò in visibilio l’uditorio fu Giannina Milli, affermatasi in quell’occasione felicissima poetessa estemporanea. Non poteva dirsi bella; aveva trent’anni, copiosa e nera capigliatura, occhi neri penetranti, e un pallore sul volto, che le aggiungeva una gran simpatia. Il galante cardinal Gaude andò ad esternarle i sensi della sua ammirazione, mentre il cardinale Altieri brontolava curiose maldicenze, che provocavano l’ilarità dei vicini. Il cardinale Gaude era complimentoso, sino all’inverosimile, con le signore; e proprio in quei giorni si narrava come egli, ad una giovane e bella principessa romana, che era nell’ultimo mese di gravidanza, facendo gli augurii che questa si compisse felicemente, si permettesse quasi di lambire con la mano il seno di lei, dicendo, con un sorriso untuoso: «e tante felicità anche a questo birichino».

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Due grandi artisti visitarono Roma in quegli anni, Francesco Liszt nel 1862, e Gounod nel 1869. Gounod era stato pensionato all’accademia francese di villa Medici, e nel 1839 aveva guadagnato il grand prix de composition musicale. Un sentimento religioso esagerato lo spingeva alla carriera ecclesiastica, e da villa Medici passò al seminario romano, ma vi restò poco tempo. Tornando a Parigi, prese moglie; e tornato a Roma nel 1869 fu ospite nella stessa villa Medici del signor Hebert, direttore dell’Académie Impériale de France, anzi abitò la camera, che fu di Galilei, quando venne in Roma la seconda volta, ospite di Piero Guicciardini. Visse vita di riposo, e volle assistere alle cerimonie della settimana santa; compose un inno per Pio IX, eseguito il giorno 11 aprile 1869, dalle bande militari, sulla gradinata di San Pietro, in occasione del 50° anniversario della prima messa di Pio IX. L’inno fu ripetuto il giorno seguente sulla piazza di Siena, a villa Borghese, dopo la rivista, che il generale Kanzler passò alle truppe pontificie. Gounod pareva entusiasta del Papa, ma non si prestava fede ai suoi entusiasmi, e venne trattato con freddezza, perchè si vedeva in lui il diavolo del Faust! Frequentò poco i teatri, ma apprezzò i professori di Roma, giudicandoli intelligenti musicisti. Qualche sera visitava la principessa Ruffo Scilla, che aveva alloggio in via Sistina al n. 57, e che gli fece un bel ritratto al carbone. Andò via nell’estate, e non vi tornò più.

Liszt era giovanissimo quando venne la prima volta, nel 1838. Frequentò le cerimonie della cappella Sistina, ispirandosi alle musiche del Palestrina, e dei grandi maestri di arte sacra. Vi tornò nel dicembre del 1861, quando la sua fama si era affermata nel mondo, e con forti commendatizie del duca di Weimar per il duca di Sermoneta. Non poteva dirsi un bell’uomo; era vigoroso; aveva i tratti del volto assai marcati, e profondo e imperioso lo sguardo; portava i capelli a zazzera, e la faccia nuda di peli. Prima che arrivasse, erano note in Roma le sue vicende amorose, ed i suoi rapporti con la principessa Carolina Sayn de Wittgenstein, che l’aveva preceduto a Roma da circa due anni, per affrettare lo scioglimento del suo matrimonio col principe e feld-maresciallo russo, in seguito al quale [p. 220 modifica]scioglimento ella doveva sposare Liszt. Questa principessa polacca fu uno dei tipi più bizzarri della società romana. Nasceva Iwanowska; cattolica, aveva sposato a 17 anni il principe de Wittgenstein, protestante e più anziano di lei. S’innamorò del Liszt nel 1847, quando egli andò a Kiew per un concerto. Si rividero a Odessa, e poi altrove, e fu nel 1848 che ella lasciò la Russia, dopo aver liquidato un milione di rubli della sua dote. Condusse seco la sua figliuoletta, e seguì Liszt in Germania. Gli amori son rivelati dalle lettere folli di entrambi. La principessa non contava trent’anni; era romantica, fantastica, espansiva, vivacissima, coltissima ed amava stranamente la musica. Fu addirittura suggestionata dal Liszt, che le scriveva lettere alla Werther, e della cui sincerità sarebbe permesso dubitare, dopo quanto segui nel 1865. Basta un’occhiata al volume4. Dice in una lettera: bon jour, mon bon ange! on vous aime et vous adore du matin au soir, et du soir au matin; e in un’altra: on vous attend et on vous bénit, chère douce lumière de mon âme! Un’altra del 1858 incomincia: Je vous bénis, vous rends grâces, et vous aime du plus profond amour. E ancora: Mon dieu! que vous m’avez écrit de belles et sublimes choses, dans votre lettre. Elles m’ont sillonné l’âme. E nella stessa lettera: Espérons en Dieu, qui comme dit Saint Augustin «a bien pu nous créer sans nous, mais ne peut nous sauver qu’avec nous». Chiude alcune lettere così: mille tendresses et benedictions. E in una del 19 aprile 1858 scoppia in questa invocazione melodrammatica: O Caroline, je voudrais que vous ayez incessamment joie de cette conscience, qu’à chaque heure de chacune de mes journées; mon ame vous bénit et vous glorifie! E in un’altra esclama: Oh nos belles heures d’Eilsen! Quand les reprendrons-nous? Ces 18 jours d’attente encore vont être si mornes et si longs! Chère adorable et adorée Caroline, au nom du Ciel et de notre amour, ayez soin de vous et conservez-vous du mieux qu’il se pourra, par la patience et l’espérance d’un avenir qui est proche. Songez que je suis tout par vous, comme j’espère que je serai tout pour vous. Mon [p. 221 modifica]âme ressemble en ce moment è cel enfant qui crie au-dessous de votre chambre. Chantez-moi cette Dumka, qui sera mon océan et mon ciel à jamais! E nella domenica delle Palme del 1851, che cadeva il 13 aprile, scriveva: Voici les premières violettes du printemps. Je vous les envoie à vous qui étes mon printemps éternel, et ma fleur emparadisée! Croyez-moi, Caroline, je serais aussi fou que Roméo, si je le trouvais fou!

Liszt non ha segreti per la principessa, e le lettere sono tanti punti cronologici della sua vita. I pensieri intimi, le vanità, che erano tanta parte della sua natura; le fantasie, i pentimenti, gli orgogli, le piccole e più inconcepibili civetterie; i compagni d’arte e le sue figlie naturali, nulla egli nasconde alla sua amica. Un giorno le chiede sessanta dollari in prestito, da dover dare a Wagner, sul punto d’intraprendere un viaggio. Il volume comprende il carteggio di tredici anni, dal febbraio 1847 al dicembre 1859, cioè dalla prima conoscenza in Kiew, fino al termine del soggiorno della principessa a Weimar. La principessa, dopo aver maritata l’unica figlia Maria, nel 1859, al principe Costantino Hohenlohe Schillingfirst, aiutante di campo dell’imperatore d’Austria, venne a Roma nel maggio del 1860, per ottenere, come si è detto, lo scioglimento del matrimonio, che il principe, di religione protestante, aveva già ottenuto. Non era nella società romana un mistero, che questa signora, ricca, coltissima e stranissima, appena sciolto il primo matrimonio, avrebbe sposato Liszt. E quando il matrimonio fu sciolto, e tutto si apparecchiava per la cerimonia, Pio IX, non si sa bene per quali motivi, negò il permesso. Due anni dopo, il 10 marzo del 1864, il principe di Wittgenstein mori; la principessa fu libera, e si riparlò delle nozze; ma Liszt spari dal mondo e andò a chiudersi in Vaticano, e la mattina del 25 aprile 1865, nella cappella di monsignore Hohenlohe, prese gli ordini minori! D’allora vesti da prete, e mandò fuori le sue carte da visita: L’abbé Liszt, au Vatican.


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Dal dicembre del 1861 al 1865, il Liszt era venuto parecchie volte a Roma, e, per stare più da vicino alla principessa, alloggiava all’albergo Alibert. La principessa abitava nella casa di [p. 222 modifica]via del Babuino al n. 89, al terzo piano, quella stessa appartenuta all’architetto Valadier, che vi morì, come ricorda la lapide murata sul portone. Nel 1860 ella toccava i quarant’anni, nè poteva dirsi bella, ma era piacente e piena di charme. Non viveva che di Liszt e per Liszt. Leggeva e scriveva molto; col Visconti e col De Rossi visitava antichità, musei e gallerie; frequentava l’Università, e rimaneva lunghe ore a parlare coi professori; andava di rado a teatro, e solo all’Apollo quando il principe Torlonia le offriva il suo palco; preferiva assistere alle cerimonie religiose, e spesso rimaneva qualche settimana nei conventi di stretta clausura, avendone ottenuta particolare licenza dal Papa. Uscendone, rivelava con molto spirito la vita intima dei conventi. E quando, alla vigilia delle nozze, Liszt si chiuse in Vaticano, evidentemente per non più sposarla, ella seppe mostrarsi superiore alla sua disgrazia. L’ardore per il maestro non si spense, nonostante l’egoismo di lui; ne parlava infiammandosi, e qualche superstite lo ricorda. Fra i personaggi, che andavano da lei, era il cardinale Antonelli, non meno di due volte al mese. La principessa stette ventisette anni a Roma, senz’allontanarsene mai. In estate chiudeva ermeticamente la casa, e viveva nella più perfetta oscurità, con una sola candela accesa sopra una gran tavola, coperta di fiori, e dove leggeva, scriveva e faceva colazione. Riceveva gli amici, che andavano a trovarla, a lume di candela, e con queste parole: eh bien vous trouverez drôle ma manière de vivre; mais je me moque du soleil, cette grande source de chaleur. Ici je suis à Rocca di Papa. Finiva per ridere anche lei, avendo molto spirito, ovvero usciva in vettura poco prima, o dopo il tramonto del sole, passeggiando fuori le porte, perchè l’aria delle strade, ella diceva, era come quella d’un forno; o usciva anche più tardi col chiaro di luna, per visitare il Fôro, il Colosseo, il Campidoglio, la via Appia e gli acquedotti. Usciva quasi sempre sola, e scriveva alla sua amica Adelheid von Schorn: vous savez maintenani toute la beauté de ma solitude!


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Anche a Roma, dove dette vari concerti, Liszt si affermò inesauribile compositore di rapsodie, di sinfonie, di oratorii, di variazioni, ma soprattutto di rapsodie, essendo egli ungherese, [p. 223 modifica]e fortissimo pianista; ma non vi destò i morbosi entusiami di Germania e di Francia. A Roma riusciva poco simpatico per la sua blague, e per una tendenza erotica comicissima, per cui, atteggiandosi a conquistatore, iniziava con occhiate provocanti e parole sdegnose, tenere o mistiche, una corte compromettente alle signore, che gli piacevano, e che si permetteva baciare troppo liberamente. Sensuale e sentimentale, romantico e prosaico, secondo i casi, non mai modesto, egli esercitò un gran fascino sulle donne, e molte ne innamorò e conquise. A Parigi aveva sollevato una specie di fanatismo, per cui, quando suonava, gli tagliavano i capelli della zazzera, senza che egli mostrasse di avvedersene; gli rubavano i guanti, che posava sul piano, e una sera gli portarono via il cappello e il bastone; ma a Roma non vi fu nulla di simile, anzi un giovane patrizio, accortosi della corte iniziata alla sua signora, gli fece intendere che poteva risparmiarsi le visite. La maggiore intimità l’ebbe in casa Caetani, e fu compare di battesimo del secondo figlio di Onorato.

Liszt non si ordinò mai prete, ma vestì da prete finchè visse, non usando mai il tricorno e la sottana. Lasciando il Vaticano, vagò di convento in convento, si diceva per fare gli esercizi ed apparecchiarsi al suddiaconato. Al monastero del Rosario a monte Mario, andò a visitarlo Pio IX, memore che nel 1864 lo aveva invitato a Castelgandolfo, e che un giorno, suonando Liszt la casta diva, il Papa ne fu così compreso che, accostatosi al piano, canticchiò, accompagnato dal maestro, la famosa aria del Bellini. Poi Liszt passò al convento di Santa Francesca Romana al Fôro, dove andava a trovarlo lo Sgambati, suo allievo prediletto e allora giovanissimo. Quando nel 1866 fu data alla sala Dante la sua sinfonia dantesca, il Liszt ne affidò la direzione al giovane alunno, e ne fu così soddisfatto, che gli regalò una bacchetta d’ebano, col suo nome inciso in argento e la data del concerto. Lo Sgambati diresse pure l’altra sinfonia, il Cristo, eseguita nel giugno del 1867, in occasione del centenario di san Pietro.

Il caso veramente strano della sua tonsura, e i rapporti con la principessa di Wittgenstein, che durarono sempre, avevano provocato delle indiscrezioni, in seguito alle quali si era saputo che il maestro aveva due figlie naturali, nate dalla contessa [p. 224 modifica]D’Agoult, che nasceva viscontessa di Flavigny: Blondina, moglie di Emilio Ollivier, e Cosima, che prima fu moglie del maestro Hans de Bulow, e poi divorziò per sposare Riccardo Wagner. Nei due saloni di casa Caetani e di casa Rospigliosi, Liszt era accolto con riguardi, ma senza entusiasmo. La sua aria da poseur, e da conquistatore gli alienava le maggiori simpatie. Nessuno osava pregarlo che suonasse; anzi Onorato Caetani, quando lo vedeva entrare nel salone, si affrettava a chiudere il pianoforte. In casa Rospigliosi si mostrava meno stitico, ma, nonostante tutto, la sua conversazione era piena d’interesse. Egli aveva conosciuto gli uomini più eminenti d’Europa, nè sempre taceva delle sue fortune amorose, anzi lasciava confermare la voce, che fosse stato anche l’amante di quella signorina Duplessis, che Alessandro Dumas figlio immortalò nella Signora dalle Camelie, e il Verdi nella Traviata, e che avesse passato con lei una stagione a Compiègne. In abito da ecclesiastico egli seguitò, anche dopo il 1870, a frequentare la principessa polacca, nella quale gli anni e i disinganni non avevano diminuita l’esaltazione per lui, che, divenendo vecchio, si era malamente ingrassato, inghiottiva con difficoltà, e soffriva di stomaco.


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Interessante è il volume, che la principessa Maria Hohenlohe ha dedicato al Liszt, e che comprende il carteggio di lui con la principessa di Wittgenstein nei primi tredici anni della loro relazione amorosa, e che ho innanzi ricordato. Nella prefazione è detto, che, poichè la città di Weimar non ha ancora innalzato un monumento a Liszt, la principessa ha voluto innalzargliene uno, pubblicando il carteggio intimo di lui, con la madre. E come non bastasse questo volume, n’è venuto fuori di recente un altro sullo stesso argomento, scritto dalla signorina Adelheid von Schorn, dal titolo: Franz Liszt et la princesse de Willgenstein, tradotto dal tedesco dal signor De-Sampigny, e pubblicato a Parigi5. La von Schorn fu l’affettuosa confidente, negli ultimi anni, dell’uno e dell’altra, che la chiamavano nôtre [p. 225 modifica]Providence. Anche in questo volume le notizie e le confessioni son tante. Le lettere della principessa alla Schorn, a proposito di Liszt, sono stranissime. In una del 30 marzo 1870, ella scriveva: Liszt sera bien longiemps absent de Rome. Pour mon cour, c’est une affliction, quoique je m’identifie de loin au plaisir, qu’il aura à entendre son admirable Cantate de Beethoven. E le chiede notizie di lui, e la prega con le più tenere espressioni di assisterlo e di confortarlo. In una lettera dice: Ecrivez-moi encore sur Liszt, chère enfant. Dites-moi s’il est fatigué de son voyage et s’il a déjà épuisé sa provision de force accumulée à Tivoli! Ecrivez-moi, là-dessus, de Nordheim. Là vous aurez le temps.

Il libro della Schorn, che è davvero l’istoria d’un’anima esaltata d’amore, è assai più interessante dell’altro, perchè, più vario, e potrei dire più moderno, riporta alcuni brani caratteristici di lettere della principessa, circa la nuova vita sociale, che si apriva in Roma, dopo il XX settembre. Ella scriveva così: Rome va perdre de plus en plus tout ce qui attachait certains cours à elle. Les jours du Saint-Père sont comptes, et après lui il y aura sans doute ici des moments orageux, auxquels personne ne désire assister..... La vie sociale, le grand monde est tout, naturellement tout débandé. La société est divisée en deux camps. Là où vont les uns, les autres ne vont pas, ce qui donne des tiraillements sans fin. Mais cela ne me dérange pas; il y a de plus tristes choses! E in un’altra lettera del 9 luglio 1875, scriveva: Minghetti est venu bavarder une bonne heure auprès de moi. Pauvre homme! Combien il a vieilli depuis un an! Il est tout courbé, sa figure a déjà tout l’affaiblissement de la vieillesse avancée. Son esprit est toujours vif, mais le corps est atteint à ce point que je me demande s’il recouvrera jamais sa santé d’autrefois. Il m’a dit combien sa femme a été charmée de faire le voyage avec vous..... Il Minghetti era in quell’anno presidente del Consiglio dei ministri, e la Schorn aveva fatto un viaggio in Germania con donna Laura, nel giugno del 1875. Viaggiava con la Minghetti il senatore Francesco Brioschi, di cui la Schorn scrive: Pendant ces quelques jours, à Munich, j’eus de petits différends avec Brioschi. Jamais je n’avais entendu d’homme parler de la religion avec une si grande [p. 226 modifica]liberté. Mes cheveux s’en hérissaient sur ma tête et ses opinions m’impressionnaient d’autant plus fortement que je le savais un homme parfait et attaché au devoir. E in’una lettera del marzo 1876, dopo la famosa crisi, la Wittgenstein scriveva alla Schorn: Mme Minghetti est plus belle que jamais: elle va à Bayreuth où vous la verrez. Minghetti s’est reliré avec beaucoup de dignité, après un très beau discours. Ils restent à Rome.

Il libro della Schorn si chiude con la morte dei due protagonisti. Liszt mori il 31 luglio 1886 a Bayreuth, presso sua figlia Cosima Wagner, un anno dopo Wagner; e la principessa non gli sopravvisse che otto mesi. Morì a Roma nel marzo del 1887, mentre faceva dei progetti di viaggio per l’estate. Fu assistita da sua figlia, e dalla sua intima amica, la principessa Giulia Orsini, alla quale confessò che le era dolce la morte, per unirsi a lui, e le affidò più di venti volumi stampati, da pubblicarsi non prima di venti anni dopo la morte. Sono studi morali, religiosi ed estetici, secondo mi assicura la principessa Orsini. Ella ed il Liszt s’erano fatto testamento scambievole, e fu lei l’erede universale del maestro, ma non pare che il Liszt lasciasse alcuna sostanza. La Wittgenstein fu sepolta nel cimitero teutonico a Santa Marta.


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Non paragonabili ai concerti del Liszt, ma interessantissimi per valore musicale, erano quelli, che nella sala Dante davano durante la quaresima, i maestri più celebri, italiani e stranieri. Ramaciotti, Sgambati, Furino e Pinelli avevano fondata la società del Quartetto, e i concerti da essa organizzati erano vere feste dell’arte, come quelli della Filarmonica romana, che avea la sua sede al palazzo Pamphyli in piazza Navona. Vennero a Roma in quegli anni parecchie celebrità musicali; e, fra gli altri, ebbero successi clamorosi il Rubinstein e il Thomas, arpista quest’ultimo della regina d’Inghilterra. Queste celebrità venivano a Roma a ricevere il battesimo dell’arte; e per quanto la società indigena non prendesse vera passione ai concerti, e il gran pubblico fosse formato da stranieri, soprattutto inglesi e tedeschi, bastavano poche principesse, qualche cardinale e alcuni monsignori, per dare questo battesimo. E poi vi era la scuola dei cantori di [p. 227 modifica]San Salvatore in Lauro, che provvedeva alla cappella Vaticana; e quella di Santa Cecilia, al Ferro di cavallo a Ripetta, ma non da paragonarsi in nessun modo alla presente Santa Cecilia, una delle poche e ben riuscite istituzioni nuove di Roma.

Non vi era réclame per gli artisti, che quella delle commendatizie, e le maggiori eran fatte ai principi, ai dignitari della corte, ed ai principali albergatori, anzi erano questi, che collocavano il maggior numero di biglietti, anche per loro interesse, s’intende. Pubblico speciale quello dei concerti, che si distingueva particolarmente dall’aria rassegnata, più che da un sentimento di compiacenza, scoppiante in entusiasmo. Anche oggi, per questa parte, il mondo è cambiato. La sala Dante non c’è più. Per quanto fosse poco adatta, fredda d’inverno, ed anche buia, e avesse un ingresso impossibile, era nel centro della città; e in tanti anni, con tante nuove costruzioni, Roma non ha ancora sale da concerti, nè da accademie, nè da conferenze degne dei nuovi tempi, tranne forse quella di Santa Cecilia. Rimangono le vetuste sale del collegio Romano e del Nazzareno per le conferenze: sale fredde e nude, e con infissi da medio evo. È solo da sperare, che tal bisogno sia veramente soddisfatto dalla grande opera, che si compie per onorare Vittorio Emanuele in Roma.


Note

  1. Bernardo Celentano, Notizie e lettere intime, pubblicate dal fratello Luigi. Roma, tipografia Bodoniana, 1883.
  2. Ricordi autobiografici di Adamo Tadolini, pubblicati dal nipote Giulio. Roma, tipografia di Balbi Giovanni, 1900.
  3. Oreste Raggi, Della vita e delle opere di Pietro Tenerani, libri 3. Firenze, Lemonnier, 1880.
  4. Franz Lizt’s Briefe auf die Fürstin Carolyne Sayn-Wittgenstein. Herausgegeben von La Mara. Leipzig, Druck und Verlag von Breitkopfe Härtel, 1899.
  5. Dujarric et C., editeurs, 1905.