Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XIII
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CAPITOLO XIII.
Diplomazia e Congresso di Parigi.
Il Corpo diplomatico subì in quegli anni vari mutamenti nella rappresentanza francese, sarda e napoletana. La condizione degli ambasciatori francesi era così difficile ed equivoca, che quasi tutti cercavano distrazioni nelle frivolezze della vita mondana, e tranne il Sartiges, che vi si trovò nel tempestoso anno 1867, gli altri, nel complesso, furono uomini mediocri. Solo perchè tali, potevano accomodarsi ad una situazione sostanzialmente falsa, come quella di rappresentare una nazione liberale, che aveva, con la forza delle armi, ripristinato il potere assoluto dei Papi, e un sovrano, ch’era lo spirito men clericale di Francia: un idealista alla ricerca di componimenti fra tendenze ed interessi, sovente i più opposti. Questo sovrano, che aveva il culto dell’amicizia e della gratitudine, e la fede nei principii di nazionalità e d’indipendenza, conosceva bene le condizioni dello Stato del Papa, dove contava amici fra i compagni di Università e di cospirazione, nonchè numerosi congiunti, che sovveniva largamente, nessuno eccettuato, anche i men bisognosi. Egli sognava una riforma tutta ideale del governo pontificio, singolarmente nelle Legazioni e nelle Marche: una riforma, che sanasse le vecchie piaghe, con oneste amministrazioni laiche, e soprattutto senza il puntello delle armi austriache. Éra un sovrano plebiscitario, che aveva dovuto uscire dalla legalità per entrare nell’ordine, e anche per questo, tra il pensiero e l’azione sua correva spesso tale distanza, che l’azione, singolarmente negli ultimi anni, riusciva fiacca o paralizzata, e qualche volta in opposizione del pensiero. I suoi ambasciatori a Roma di rado ne penetrarono la mente, nè erano in grado di fare opera politica, che meritasse tal nome, sia perchè il loro potere era diviso con i comandanti militari, che si credevano veri proconsoli; sia perchè, non ostante le scambievoli manifestazioni di fiducia, la Santa Sede non fu mai convinta della sincerità di Napoleone III e del suo governo: epperò ogni consiglio era accolto con diffidenza, o se ne voleva trovare un secondo fine. Il solo governo, che godesse costantemente la fiducia del Papa, fu quello dell’Austria, e in ciò la Santa Sede non veniva meno alle sue tradizioni. Gli ambasciatori austriaci a Roma erano davvero i più graditi e i più ascoltati, mentre il lavoro diplomatico dei rappresentanti francesi si riduceva, in sostanza, ad una schermaglia di anticamera. Il De Rayneval, succeduto al Baraguay, mostrava tendenze clericali, ed apparteneva difatti a quella categoria di scettici e clericali insieme, che fiorirono in Francia a tempo del secondo impero; e il Gramont, che gli successe, era un personaggio più teatrale che politico, un guascone fastoso, un bell’uomo amante di feste e di conviti. Così si andò avanti, senza gravi incidenti, fino al 1860.
Al De Thile, ministro di Prussia, che sostituì il De Usedom, era succeduto, alla sua volta, prima che il Papa tornasse, il Reumont. La tradizione nella rappresentanza prussiana era mantenuta dal notissimo dottor Alerz, chiamato già a Roma per curare il naso di Gregorio XVI, attaccato da umor salso. Il Bouteneff, ministro di Russia, noto per i suoi fastosi ricevimenti, fu richiamato, e gli successe il barone Kisseleff, che sposò più tardi donna Francesca Ruspoli, vedova di Giovanni Torlonia. La Spagna contava una numerosa ambasciata, con a capo il Martinez de la Rosa, succeduto a don Giuseppe del Castillo, il quale aveva sostituito, nel dicembre del 1852, il conte di Colombi, morto nell’ottobre di quell’anno, e sepolto nella chiesa di Monserrato. Segretario dell’ambasciata era il Gonzales d’Arnau, divenuto argomento di riso per le sue passioni infelici. Il vecchio conte Spaur seguitò a rappresentare la Baviera a Roma, e a Napoli; il principe Lamoral de Ligne, il Belgio; il signor Mouttinho de Lima Alvarez e Silva, il Brasile, sostituito poi dal De Figueiredo, che restò a Roma parecchi anni, simpatico e gradito alla società, soprattutto pei ricevimenti, che dava al palazzo Savorelli, e nei quali la sua signora, inglese di nascita, faceva graziosamente gli onori di casa. Egli rappresentava il Brasile anche presso il granduca di Toscana. Il Portogallo fu rappresentato prima da don Petro Nigueis de Carvalho, e poi dal Saldanha, un ricco e strano signore, che fittò per sè tutto il palazzo del Bramante a Scossacavalli, quando non servi più alle feste del Torlonia, dopo la malattia della principessa. Il Saldanha studiava omeopatia con passione, e pubblicò un libro su questo argomento. Quando traversava le vie, nel suo equipaggio di gala, coi domestici indossanti giubba verde, calzoni rossi, e calze bianche, richiamava la generale attenzione; e dopo che gli fu fatto notare, che erano quelli i tre colori della bandiera italiana, ne fu così compiaciuto, che, uscendo dai pontificali di San Pietro, soleva, prima di tornare a casa, fare un lungo giro per la città.
La Svezia e Norvegia avevano un semplice console, e la legazione dei Paesi Bassi era formata dal ministro, conte De Lie de Kerke-Beauffort, e da un addetto onorario e cancelliere, nella persona di un certo cavalier Magrini, il quale indossava costantemente una marsina bleu con bottoni dorati, e portava una farfalla all’occhiello dell’abito, insegna di un ordine cavalleresco, che nessuno seppe mai qual fosse. Gli Stati Uniti d’America seguitarono ad esser rappresentati dal signor Lewis Cass, un misantropo, chiuso nel suo appartamento all’albergo Meloni. I romani lo tenevano in conto di un selvaggio, ma il Cass era un brav’uomo, pieno di carità, e nelle offerte per beneficenza la sua era sempre la maggiore. Gli successe lo Stockton, poi il Rufus-King. E infine il giovane conte Esterhazy, elegantissimo nel suo costume ungherese, rappresentò interinalmente l’Austria, ma, non essendo ammogliato, tenne chiusi i saloni del palazzo di Venezia. Gli successero via via il Colloredo, il barone de Bach e l’Hübner, che riaprirono quei saloni, gareggianti con quelli del palazzo Colonna.
L’Inghilterra non aveva un ministro, ma un attaché distaccato dalla legazione di Firenze. In quei primi anni ministro d’Inghilterra a Firenze fu il marchese di Normamby, e attaché a Roma lord Lions, cui successe, come incaricato d’affari, Odo Russell, del quale si parlerà di proposito.
Più che difficile, sarebbe inutile tener conto dei vari mutamenti nel personale del corpo diplomatico. In quei primi anni Roma fu la lanterna magica della diplomazia europea. Le sole rappresentanze, che non mutarono, anzi finirono coi propri Stati, furono quelle di Toscana e di Modena. Il Bargagli era il decano del corpo diplomatico a Roma, poichè vi stava da prima del 1848, e aveva raggiunto Pio IX a Gaeta; e perciò egli aveva le più larghe conoscenze nel mondo romano; e la maggiore fiducia di Pio IX e dell’Antonelli. Abitava il palazzo di Firenze, e vi dava frequenti feste, benchè si dicesse che, dopo la mezzanotte, non ci fosse più una bottiglia di Champagne, o di Bordeaux, e neppure di Chianti. Era un tipo pieno di amabilità, nè mancava di arguzia. Luigi Simonetti rappresentava il duca di Modena, e il ducato di Parma non aveva rappresentante.
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I rapporti con le corti italiane, tranne con la Sardegna, furono sempre cordiali; e con la Toscana cordialissimi, sino al punto che si rifece il concordato, furono sottoscritte convenzioni doganali, commerciali e ferroviarie; e di accordo, si cercò di stabilire una lega, o confederazione politica a comune difesa fra gli Stati della Penisola, eccetto, naturalmente, il Piemonte. Vi è un libro quasi ignoto, che getta molta luce su quegli avvenimenti; ed è il volume, che scrisse il Baldasseroni, ultimo presidente del Consiglio di Leopoldo II1. Si ha in esso la conferma ufficiale, che dopo la restaurazione dell’antico regime, per iniziativa del governo toscano, secondato dal pontificio, si tentò questa lega, prendendo occasione dalla conferenza, che si sarebbe tenuta a Roma nel primo semestre del 1851, fra i rappresentanti della Santa Sede, di Toscana, di Parma e di Modena, per «il negoziato della via ferrata centrale italiana», secondo la frase del Baldasseroni; e fra la Toscana e la Santa Sede, per definire il nuovo concordato, rimasto in sospeso dopo i casi del 1848. Ma cosa davvero impreveduta: nè l’Austria, nè Napoli fecero buon viso alla lega. L’Austria vi consentiva, ma ricusava di parteciparvi, e il governo di Napoli lasciò intendere, che fra Roma e gli altri Stati d’Italia non fosse possibile alcuna lega, o confederazione; rifiutò di mandare a Roma un rappresentante per prender parte alla conferenza, e respinse persino l’offerta che Napoli ne fosse la sede.
Il Baldasseroni rivela molti particolari; dice che i rappresentanti di Toscana, di Modena, e Parma si riunirono a Roma, sotto la presidenza del cardinale Antonelli, e stabilirono le basi della confederazione, e convennero sui modi di portarla ad effetto; ma si vide però», osserva, «che se almeno il regno di Napoli non prendeva parte alla lega, le sarebbe mancato il nerbo principale della forza necessaria a darle politica consistenza». E fu deciso di far nuove pratiche, intese a persuadere quel governo, che la lega non era un’utopia, come pareva che a Napoli si ritenesse. Il Baldasseroni, confermando quanto aveva asserito il Gennarelli in vari suoi scritti polemici, pubblica il contenuto della nofa verbale, in cui sono definiti gli scopi della lega, che erano due: «la conservazione dei governi coalizzati, dando, con l’unione delle forze rispettive, a tutti ed a ciascuno di loro la solidità e il vigore necessario per impedire il male, e procurare il bene dei propri paesi; e la garanzia della sicurezza e tranquillità delle popolazioni, all’ombra di governi forti ed insieme paterni».
Si voleva ad ogni costo il consenso di Napoli; e poichè il Granduca trovavasi in quella città, i membri della conferenza dettero al Baldasseroni l’incarico di recarvisi, e tentare l’ultimo sforzo, non tanto col Re, quanto col ministro degli affari esteri, Giustino Fortunato, che si sapeva contrario a quel progetto. E qui sarà bene riferire le parole del Baldasseroni: «Nel presentare alla Maestà Sua quel disegno, fu bene spiegato come non fosse, se non che uno schema da discutersi, e che intanto portava la soscrizione di tutti i ministri convenuti in Roma, per dare così una prova, che l’affare era iniziato col concorso di tutti, e con fiducia di portarlo concordemente a termine. S. M. accolse favorevolmente l’officio; prese particolare interesse al disegno esibitole, ed il Granduca potè nutrire più che una ragionevole speranza dell’adesione dell’augusto suo cognato. Non fu così presso il ministro degli affari esteri, marchese Giustino Fortunato, che rimase coerente alle considerazioni per le quali, fin dal principio, si era mostrato non equivocamente mal disposto verso la lega, non sapendo trovar luogo ove potesse esserne parlato, nè soggetto, che per conto del Regno potesse prendervi parte. Il marchese Fortunato riposa nella quiete del sepolcro, e questa circostanza non ci permette riprodurre qualche episodio, almeno singolare, nelle comunicazioni avute con lui. Ma quello che abbiamo accennato spiega il vero motivo, per cui il progetto sostanzialmente aborti, sebbene per rendere meno inofficiosa la repulsa, si strascicassero per qualche tempo e per scritto alcune trattative che non potevano condurre a resultato alcuno. Il governo delle Due Sicilie volle persistere nella sua politica di abituale astensione nelle cose italiane, ed anche di assoluto isolamento degli altri governi della penisola. Esso disgraziatamente esageravasi i vantaggi della sua posizione geografica, quando consolavasi di esser posto dietro la muraglia di Tartaria, cioè, disgiunto per il territorio pontificio dagli altri Stati italiani; però, e per questo, e perchè giudicava di potere incontrare. diminuzione anzichè aumento di forze nel congiungersi con principi che non avevano, nè il numero delle sue truppe, nè delle sue navi, non volle vincolare minimamente la propria condotta politica alla loro, nè interessarsi a quella che essi avrebbero seguita». Era sincero il Re? Forse. Di certo egli era soggiogato dal pregiudizio dell’indipendenza, per cui, ad un po’ per volta, finì per alienarsi non le sole potenze italiane, ma, per un motivo o per l’altro, quasi tutte le porsnze di Europa, e il Regno finì senza compianto.
Gli altri oggetti della conferenza di Roma coi rappresentanti di Firenze, Parma e Modena ebbero risultati positivi, sia per gli accordi ferroviari, sia per la ratifica del concordato con la Toscana. L’idea ghibellina di Pietro Leopoldo non informava più la politica ecclesiastica della Toscana. Nel 1848 era intervenuto il protocollo del 30 marzo con la Curia romana, ma di esso il Ridolfi voleva servirsi per arrivare alla lega politica col Papa, e quindi abbondò in concessioni. La lega non fu stretta, e il concordato non venne ratificato. A Gaeta, nel comune esilio, Leopoldo II e Pio IX s’intesero, e al ritorno nei rispettivi Stati, furono riprese le trattative. Venuto a Roma il Baldasseroni, con l’assistenza del Bargagli, ch’era a conoscenza dei precedenti ne- . goziati, furono discussi gli articoli controversi; e smesso per il momento il pensiero di un concordato pieno e perfetto, il quale abbracciasse tutte le materie concernenti la Chiesa e lo Stato, e fatte molte riserve dalle due parti, e col concorso del De Rayneval, che dette consigli e prestò uffici, la ratifica ebbe luogo il 25 aprile 1851. Si chiamò «concordato solenne e definitivo»; e il primo articolo conteneva una vera abdicazione dei diritti dello Stato, perchè diceva così: «L’autorità ecclesiastica è pienamente libera nelle incombenze del sacro suo ministero. È dovere dell’autorità laicale concorrere coi mezzi, che sono in sua facoltà, a proteggere la moralità, il culto e la religione, l’effetto d’impedire e rimuovere gli scandali che l’offendono, come pure di prestarsi a dare alla Chiesa l’appoggio che occorra per l’esercizio dell’autorità episcopale». Inoltre erano riconosciuti i tribunali ecclesiastici, e chiamati a giudicare nelle cause matrimoniali giusta il Concilio di Trento; riguardo agli sponsali, l’autorità ecclesiastica giudicava della loro esistenza e valore all’effetto del vincolo, che ne derivava, e degl’impedimenti, che avrebbero potuto nascere. La Santa Sede non faceva difficoltà, che le cause criminali degli ecclesiastici, per tutti i delitti comuni, venissero deferite al giudizio dei tribunali ordinari; gli ecclesiastici potevano scontare la pena in locali separati, e ad essi specialmente destinati negli stabilimenti penali: e i beni ecclesiastici venivano liberamente amministrati dai vescovi e dai rettori delle parrocchie, secondo le disposizioni canoniche.
Il Baldasseroni, naturalmente, non ne raccolse allori e inni; il concordato divenne argomento di biasimi e di sarcasmi, e fu d’allora, che gli arguti toscani mutarono il nome di Sua Eccellenza Baldasseroni in quello di Sua Baldanza Eccellenzoni. Ma per le condizioni politiche dei due Stati non era possibile, dice il Baldasseroni, fare altrimenti; e scrive a sua difesa: «il motivo che a ciò lo induceva, era quello che oggi non si apprezza, e non si vuole apprezzare, e che pur condusse anche i ministri austriaci a modificare le leggi giuseppine, assai più che qui non si facesse per le leggi del primo Leopoldo. A quegli uomini di Stato i tempi apparivano tanto cambiati, e le condizioni sociali venute a tal punto, che era oramai fuor di luogo il timore che la Chiesa soverchiasse il principato civile; laddove ben altri nemici minacciando questo e quella, ed insieme con loro i fondamenti dell’ordine e della società, era saggio e prudente consiglio che i due poteri, lasciati i vecchi rancori, e deposta una emulazione senza motivo, unissero le loro forze a difesa comune».
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Le diplomazie di Napoli e Sardegna subirono non poche variazioni, e la Sardegna più ancora di Napoli. Con la partenza del conte Ludolf, che, rimanendo presso il Re, seguitò ad avere il titolo di ministro di S. M. siciliana a Roma, il palazzo Farnese non rivide più gl’interessanti ricevimenti, ai quali facevano gli onori di casa la contessa, e sua figlia Norina, affascinante di grazia e di brio, e che sposò più tardi il generale Pianell: ricevimenti resi più importanti dalle conferenze dantesche del duca di Sermoneta. In una di esse il duca annunziò avere avuta l’idea di scolpire la statuetta di Caronte con le ali tese, che ebbe fortuna in commercio.
Giacomo de Martino, venuto come incaricato d’affari ai primi del 1858, rivelò subito la sua indole vivace e curiosa. Penetrò nel mondo aristocratico, e divenne intimo di casa Rospigliosl; die’ mano ai lavori di restauro del palazzo Farnese, che consistevano nel distruggere gli ammezzati, scoprendo i magnifici cassettoni, e le preziose pitture del Caracci, e ridonando ai saloni il presente splendore. Ricordo, che l’attuale gabinetto dell’ambasciatore di Francia era la vecchia cucina. Il De Martino prometteva un gran ballo per il giorno, in cui sarebbero finiti i lavori, e anche per festeggiare le nozze del duca di Calabria, ma poi, com’è noto, quelle nozze si compirono con la morte del Re, e il ballo andò in fumo. La legazione di Napoli, potendo competere in grandiosità con le maggiori, anzi vincendole tutte, presentava, fra la sua sede e la sua rappresentanza, la contraddizione più stridente. Non più ministri, ma incaricati di affari, o reggenti incaricati di affari; e i suoi rappresentanti, in fatto di mondanità, non furono superiori ai colleghi della legazione di Sardegna. Fra i giovani diplomatici di Napoli figuravano il giovane marchese di Campodisola, ch’era un Del Pezzo di Caianiello, e il duca d’Altomonte, un Gravina Comitini di Sicilia, morto di recente; e si erano succeduti, col titolo di reggenti incaricati d’affari, il duca di Santopaolo, il marchese di San Giuliano, Severino Longo di Napoli, da non confondersi con i San Giuliano di Catania. Il Campodisola e l’Altomonte, giovanissimi e valorosi, avevano vinto il concorso bandito nel giugno 1850 per l’alunnato diplomatico, e il Campodisola iniziò la sua carriera diplomatica a Roma, dove venne come aggiunto. Riuscirono anche in quel concorso il Fava, il San Martino di Montalbo, mandato a Roma nel 1853, anch’egli come aggiunto; Emilio Cavacece, l’Anfora di Licignano e Domenico Carbonelli. Qualcuno è vivo, anzi, il barone Saverio Fava, già ambasciatore negli Stati Uniti, è senatore del regno, ed è vigoroso di mente e di corpo. E quando nel giugno del 1860 il De Martino fu chiamato a Napoli, per assumere il ministero degli affari esteri, la legazione di Roma fu retta dal principe di Altomonte, che sposò una delle contesse Cini. Il Campodisola era stato trasferito a Berlino nel novembre del 1858, e vi restò, come segretario d’ambasciata, fino al maggio del 1860. In qualità di segretario accompagnò il marchese La Greca a Parigi, e vi rimase fino alla caduta dei Borboni, ottenendo negli ultimi tempi l’incarico di prendere in consegna la legazione dal marchese Antonini, richiamato, e reggerla fino all’arrivo del nuovo ministro, ch’era il Canofari. Ma le cose precipitarono; ed egli, dopo l’arresto del padre, nel 1861, tornò a Napoli, dove ebbe molta parte nell’amministrazione del municipio. Era uomo di valore, e si spense dopo il 1870. Il duca di San Martino di Moltalbo, al quale devo molte di queste informazioni, morì a Roma, tre anni or sono.
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Le mutazioni nella diplomazia sarda, fra incaricati di affari e ministri interini, furono frequentissime, dal 1851 al 1859. Dal marchese Ippolito Spinola, che fu il primo, dopo la restaurazione, al conte Della Minerva, che fu l’ultimo, si successero non meno di cinque rappresentanti. Benchè quei diplomatici s’imponessero il maggior riserbo, quasi studiando di non fiatare, i rapporti fra i due Stati non furono mai cordiali, e corsero più volte il pericolo di essere rotti. Sin dal primo ministero d’Azeglio erano cominciati i dissidi, con l’abolizione del foro ecclesiastico, essendo ministro di giustizia e culti il conte Siccardi, e si era proseguito col disegno di legge sul matrimonio civile. Dopo il connubio fra Cavour e Rattazzi, la politica ecclesiastica del Piemonte si accentuò sempre di più in senso anticlericale. All’abolizione del foro ecclesiastico, e al matrimonio civile seguì, nel 1855, il disegno, ancora più radicale, della soppressione delle comunità religiose. Ce n’era abbastanza per far montare in bizza il pontefice, il quale aveva scritto a Vittorio Emanuele quella memorabile lettera, datata da Castelgandolfo, il 19 settembre 1852, che fu un grido di guerra. Il Papa la fece pubblicare prima ancora che arrivasse a destinazione. «Noi», diceva egli, «scrivemmo a Vostra Maestà che la legge non è cattolica; e se la legge non è cattolica, è obbligato il clero di avvertire i fedeli, anche a fronte del pericolo che incorre. Maestà, noi Le parliamo anche a nome di Gesù Cristo, del quale siamo vicario, quan- tunque indegno, e nel suo Santo Nome le diciamo di non sanzionare questa legge, che è fertile di mille disordini.
«La preghiamo ancora di voler ordinare che sia messo un freno alla stampa, che ribocca continuamente di bestemmie e d’immoralità. Deh! per pietà, che questi peccati non si riversino mai sopra chi, avendone il potere, non impedisce la causa! V. M. sì lamenta del clero; ma questo clero è stato sempre in questi ultimi anni avvilito, bersagliato, calunniato, deriso da quasi tutti i fogli, che si stampano a Torino e nel Piemonte».
Il nunzio, ch’era monsignor Antonucci, ebbe ordine di chiedere i passaporti; e dall’anno 1852 al 1859 la nunziatura di Torino non ebbe più titolare, e la resse per qualche tempo l’uditore monsignor Roberti, al quale il ministro Cibrario aveva risposto, quando andò ad annunziargli l’attentato contro il cardinal Antonelli: nello Stato romano sono dunque tutti assassini? Fu ingenuità, ma parve ingiuria.
Per tutte queste cause, la posizione dei rappresentanti sardi era addirittura tormentosa; e la destinazione di Roma non riusciva gradita a quei diplomatici. La legazione, modestissima, passò dal palazzo Salviati al palazzo Chigi; poi al palazzo Vidoni, ora Bandini; dopo, al palazzo Braschi, e infine, in via Borgognona, al numero 78. Quei diplomatici rifuggivano da ogni affermazione, anche mondana; abitavano piccoli appartamenti; non davano balli; e benchè la corte sarda possedesse la villa Rufinella a Frascati, venduta più tardi al principe Lancellotti, la legazione non vi andò mai a passare una villeggiatura. I ministri non avevano carrozza, e neppure lo stemma sulla facciata del palazzo; e benchè appartenessero a nobili famiglie, come il Cavalchini, il Della Croce, il Centurione, lo Spinola e l’Amat di San Filippo, nipote del cardinale, conducevano vita ritirata. Quando erano al palazzo Chigi, il principe soleva dire: «buonissima gente, brave persone, molto tranquille, a differenza di questi francesi dell’intendenza militare, che fanno un chiasso da stordire». L’intendenza militare francese era al palazzo Chigi. E quando la legazione passò al palazzo Vidoni, incontro alla chiesa del Sudario, il conte di Pralormo vi andava ogni giorno a sentir la messa, e nelle domeniche vi conduceva il personale.
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Nel 1855 si acuirono le ire, a proposito dell’altro disegno di legge per la soppressione delle comunità religiose, fieramente oppugnato dall’aristocrazia, dall’episcopato e dal clero, e che corse il pericolo di naufragare in Senato, in seguito alle proposte fatte, nelle sedute del 25 e 26 aprile di quell’anno, dal senatore Nazari di Calabiana, vescovo di Casale, morto poi arcivescovo di Milano. Monsignor Calabiana dimostrò, che il concordato e la convenzione del 1828, fra la Santa Sede e la Sardegna, non recavano alcun danno alle prerogative della Corona. A nome dell’episcopato ed autorizzato dalla Santa Sede, egli offriva la somma di lire 928 mila, da servire per aumento delle congrue parrocchiali, perchè, col pretesto di aumentarle, si voleva giustificare il nuovo disegno di legge. La redazione della proposta, per incarico dei vescovi, era stata affidata ad una commissione, di cui facevano parte, oltre il Calabiana, l’arcivescovo di Chambéry, e il vescovo di Mondovì; fierissimi intransigenti. Anzi è da ricordare che monsignor Billet si era dimesso da senatore fin dal 1850, per protestare contro una politica di violenza e di usurpazioni, com’egli diceva. Queste opposizioni così tenaci e vivaci nella Camera alta, erano alimentate, e rese quasi faziose, dall’organo clericale più battagliero, che fosse in Italia, l’Armonia, e dal suo direttore Giacomo Margotti, il polemista più poderoso e coerente del suo partito. Cavour e i suoi colleghi ignoravano che quelle proposte erano state concordate con Roma; e parendo loro certo che il Senato le avrebbe accolte, mandando all’aria il progetto del governo, ed accortisi inoltre dei dubbi e tormenti religiosi, che agitavano l’animo del Re, presentarono le dimissioni.
Ferveva vivacissima la lotta; e il Margotti, a renderla ancora più aspra, stampò un opuscolo, che servi a riscaldare stranamente gli animi2. E due opuscoli violenti, in senso opposto, pubblicò il giovane Pier Carlo Boggio, dal titolo: Come finirà? e Principio della fine. Gli animi erano molto eccitati. È pur da aggiungere, che Vittorio Emanuele era stato colpito in quei giorni, a breve distanza, dalla morte di sua madre, di sua moglie e del duca di Genova, suo fratello; e il Margotti scriveva, l’episcopato ammoniva, e il clero predicava, che quelli erano castighi della Provvidenza. Il Re, ch’era un credente, un po’ a modo suo, come gran parte degl’italiani della sua generazione, pareva caduto in uno stato di depressione morale, e tentò, com’è noto, di tornare sopra i suoi passi; ma in seguito al movimento, che si determinò a Torino, e in tutto il Piemonte, sentì la forza di resistere; Cavour e Rattazzi restarono al governo; il disegno di legge fu approvato con alcuni emendamenti; e le ire del Vaticano non ebbero più limite.
Il marchese Spinola, e il Bertone di Sambuy fecero appena un anno di dimora in Roma; e il conte Della Minerva, ch’ebbe i passaporti nel 1859, vi era venuto nel 1858. I periodi più lunghi furono quelli del Pralormo, che vi stette dal 1853 al 1856, prima come incaricato, e poi come ministro, uomo cauto e tutto chiesa; e del marchese Giovanni Antonio Migliorati, che vi stette dal 1856 al 1858. Fu nel periodo del Migliorati, che, fra la legazione sarda e il partito liberale romano, cominciarono i primi affiatamenti, e corsero le prime intelligenze. Si era alla vigilia del Congresso di Parigi. Al Tommasoni defunto era succeduto, come cancelliere della delegazione, David Silvagni, e questi fu il tramite sicuro ed efficace. Il Migliorati era un diplomatico pieno di tatto, e fu utilissimo alla causa liberale, e di molto aiuto al Gualterio, venuto a Roma ai primi di febbraio del 1856, per scrivere quel suo famoso promemoria, o memorandum, sulle condizioni dello Stato del Papa, alla vigilia del Congresso di Parigi. La polizia pontificia aveva sospettato che la venuta del patrizio orvietano, devotissimo alla casa di Savoia e amico di Cavour, celasse qualche fine politico; ed appena egli arrivò, fu chiamato a Montecitorio, dove gli venne imposto, con modi inurbani, di partire da Roma dentro ventiquattr’ore; e non ottemperando, il carcere per tre mesi. Il Gualterio, che non era emigrato, protestò contro quell’ingiunzione, e chiese, quale ciambellano onorario di re Carlo Alberto, la protezione del ministro sardo, e l’ottenne; scrisse lettere sdegnose al Papa e al cardinale Antonelli, e non fu più molestato. E mostrando di rimanere a Roma, dov’era la sua famiglia, e di attendere ad alcuni interessi del suo patrimonio, egli scrisse quel documento, che compendia la storia dello Stato romano, dal Congresso di Vienna alle convulsioni e tragedie del 1848 e 1849, e alle promesse non mantenute di Pio IX. Pose la prima radice dei mali, che affliggevano lo Stato, nel dominio di casta. Ispirato lavoro, di una eloquenza impressionante, e perciò destinato a produrre effetto nel mondo liberale di Europa, e lo produsse.
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Del promemoria del Gualterio, stampato clandestinamente, e oggi sparito quasi dalla circolazione, io devo una copia al mio amico, il viceammiraglio Enrico Gualterio, secondo figliuolo del marchese. È interessante, anche perchè annotata dal padre; prende le mosse dalle parole di Napoleone III: «Le nom si beau d’Italie, mort depuis tant de siècles, renferme en lui seul tout un avenir d’indépendance». E la conclusione era questa:
Dalle fatte esperienze dunque deve a nostro parere risultare chiaro per i diplomatici europei, che nulla è possibile in Roma finchè il dominio di casta è in piedi; nè al disordine del governo attuale, nè alla rivoluzione che minaccia incessantemente il paese, può opporsi argine più che sicuro delle istituzioni vere, solide, immutabili, e garantite efficacemente dall’Europa, le quali emancipino il laicato, e diano a questo il modo di operare quella riforma di leggi, e di amministrazioni, mercè la quale possa finalmente questo paese entrare nel rango delle nazioni civili.
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Vegga l’Europa se è giunto finalmente il momento di farlo cessare.
Qualunque sia la deliberazione che sarà presa a nostro riguardo, noi riassumiamo le nostre idee, chiedendo prima d’ogni altra cosa che si costituisca il nostro paese in modo che non resti fuori della sfera d’azione italiana, che sia veramente indipendente, e che infine sia ordinato secondo i principii voluti dai tempi, e che questi principii, e quest’ordinamenti abbiano una garanzia di durata nella volontà assoluta ed efficace dell’Europa. Idee speciali non vogliamo formulare, contenti di avere indicato lo scopo, che desideriamo sia raggiunto perchè vogliamo che l’Europa sia convinta che quando questo sotto una od altra forma sia veramente assicurato, il concorso degli uomini savi ed onesti non mancherà, perchè nella loro mente non trovansi idee così esagerate, che li facciano andare in cerca del meglio rifiutando il bene, come nel loro cuore non annidano passioni che facciano ragionevolmente temere per l’avvenire. Essi bramano il bene del loro paese, e nulla più. Hanno creduto adempiere un dovere con l’additare francamente, e lealmente un gravissimo pericolo, perchè se oggi non lo facessero, verrebbe giorno che da un lato sarebbero tacciati di pusillanimità, e di non aver parlato quando era tempo, e dall’altro si riverserebbe sul loro capo la responsabilità dei disordini, che verrebbero immancabilmente ed ai quali non sarebbe in loro potere anche con inutile sacrificio d’opporre un argine efficace. Per indicare quale e quanto sia questo pericolo dell’avvenire per lo Stato romano, non troviamo veramente parole più adatte di quelle con le quali l’illustre capo attuale della nazione francese conchiudeva, in altri tempi, suoi frammenti storici: «L’exemple des Stuarts prouve que l’appui étranger est toujours impuissant à sauver les gouvernements que la nation n’adopte pas. Et l’histoire d’Angleterre dit hautement aux Rois: marchez à la téte des idées de votre siècle, ces idées vous entraînent; marchez contre elles, elles vous renversent». (Napoléon III, Fragments Historiques, 16881830). Nutriamo quindi ferma fiducia che i plenipotenziari, chiamati a riparare gli errori fatti in Vienna dai loro predecessori, non dimenticheranno le conseguenze di quegli errori, e non porranno in non cale i voti di una parte così nobile d’Italia, la quale pur fu la culla della civiltà europea.
A margine si legge la seguente annotazione manoscritta:
NB. Perchè non fosse anonimo, o individuale, fu prima da me sottoposto alla sanzione dei capi delle diverse frazioni liberali, cioè: per gli uomini del ’48: Pantaleoni, Savi Tommassoni, Orioli Augusto. Per i principi: Cesarini, Aldobrandini, Rignano; per la Consulta: Bevilacqua e Trotti; per il partito d’azione: Silvestrelli, Silvagni e altri. Avuta la sanzione di tutti a nome anche dei loro amici, restava a far sì che l’atto, non più individuale, ma complessivo, benchè fatto da me, fosse palesato in modo da non compromettere quelli che lo approvavano. Troppo incerto era tuttavia l’andamento della politica europea, perchè si potessero esigere le firme da chi approvava. Presi il partito di farmi io garante, e assicurare sulla mia parola d’onore aver sottoposto quell’atto alle persone più autorevoli in Roma, e averne avuta la sanzione.
Per tal modo l’atto non era più anonimo, e non perdeva del suo valore di complessivo; l’atto adunque fu accompagnato da tre mie lettere, una al conte Walewski, l’altra al conte di Cavour e al marchese di Villamarina, l’altra a sir James Hudson, incaricato di mandare la copia a lord Clarendon, a lord Palmerston, e a lord Minto. Essendo conosciuto da quei tre personalmente, la mia parola presso di loro poteva supplire alle firme, che per giusta cautela non si vollero neppure domandare.
Firmato: Gualterio.
Segue, trascritta, la lettera, che al Gualterio diresse sir James Hudson, ministro d’Inghilterra a Torino, lettera confidenziale e scherzosa, rivelando l’impressione prodotta dal memorandum sull’onesto inglese:
Torino addì 14 di marzo ‘56.
- Caro marchese,
Vi prego di fare attenzione alla rotondità della mia scrittura ed a metterla a paragone con la vostra, per essere in grado di apprezzare l’eroica fatica, che ho dovuto fare per interpretare la vostra geroglifica letteranota. Non crediate che questa sia una calunniosa suggestione del nostro Giuseppenota, ma siate persuaso che è pura e spontanea verità. Ho letto con molta attenzione il vostro memorandum, e sono persuaso che esso racchiude tutti quei dati e quegli elementi, che debbono prendersi in considerazione per assicurare la pace d’Italia sopra basi solide. Nessuno meglio di voi possiede i requisiti necessari per ben definire quella vitale quistione, e voi l’avete fatto in modo da lasciar niente a desiderare.
Vi prego a permettermi di poter prendere copia del memorandum, ad oggetto di poterlo mettere sotto gli occhi di persone, le quali io so di certa scienza che godono di tutta la vostra fiducia ed amicizia.
Due copie del vostro memorandum sono state ricapitate, secondo i vostri desideri, al momento stesso in cui mi pervennero. Ho serbato la terza copia a fine di poterla leggere con comodo, ma la manderò alla prima occasione a Minto, conservandone col vostro permesso una copia per me.
Gradite, mio caro marchese, l’espressione della mia sincera amicizia.
James Hudson.
La copia del memorandum si chiude con quest’altra nota:
Fu dispensata in Roma al Corpo diplomatico, e ai cardinali nel mese di agosto. Per farla giungere al Papa, fu fatto un plico alla sua direzione con i bolli della direzione generale di polizia. Allorchè monsignor Stella, alla presenza del Papa, faceva lo spoglio delle carte e dispacci interessanti, che dai ministeri si dirigono al Papa, si trovò questo plico, e creduto di monsignor Matteucci, ministro di polizia, fu aperto dinanzi al Papa, e per tal modo non potò essere sottratto alla sua cognizione.
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Il memorandum del Gualterio ribadiva, rispetto alle condizioni dello Stato del Papa, e all’occupazione austriaca, ciò che Cavour aveva scritto nella relazione sulle condizioni generali dell’Italia, in risposta alla domanda, che l’imperatore Napoleone gli aveva diretta, quando nel novembre 1855 accompagnò il Re a Parigi, e a Londra, e condensata nelle famose parole: que peut-on faire pour l’Italie?
A proposito di questo viaggio del Re, è da rammentare una interessante pagina dei ricordi di Costantino Nigra, pubblicata in un giornale di Torino, e da lui confermatami con altri particolari:
Il risultato più serio della visita del futuro Re d’Italia a Parigi, narra il Nigra, fu questo. In una riunione dopo pranzo alle Tuileries, l’Imperatore rivolse al conte di Cavour questa domanda: Que peut-on faire pour l’Italie? Cavour rispose: La demande est trop sérieuse et vient de trop haut pour qu@’on puisse lui donner une réponse immédiate. Cette réponse je m’empresserai de la faire soumettre à Votre Majesté aussitòt que je serai de retour à Turin. Cavour, dopo averne conferito col Re e con Massimo d’Azeglio, confidò a quest’ultimo la cura di scrivere, in forma di memoria, la risposta alla domanda di Napoleone.
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Appena di ritorno a Torino, Massimo d’Azeglio si pose a compilare la memoria in risposta alla domanda dell’imperatore Napoleone qui sopra riferita. Egli abitava allora un modesto quartiere in via dell’Accademia delle Scienze. Cavour mi mise a di lui disposizione, affinchè io facessi subito una copia della memoria, e gliela portassi per la firma e per la spedizione al marchese di Villamarina a Parigi. Passai tutta una giornata e tutta la notte successiva nel gabinetto di studio del D’Azeglio, per fare quella copia, e la portai il mattino alle 7 a Cavour. Gli lessi ad alta voce il lungo documento. Non l’approvò, osservando con ragione che, malgrado l’eleganza della forma, avrebbe corso il rischio di non esser letto dall’Imperatore a cagione della sua prolissità. Il mattino seguente, entrando nello studio di Cavour, lo trovai già seduto a quella tavola, coperta di libri, fascicoli, riviste, atti parlamentari relativi a questioni politiche, economiche, morali, intorno alla quale si stava maturando il fato d’Italia.
Stava egli scrivendo la minuta d’una nuova memoria, diversa in più punti da quella di Massimo d’Azeglio, e più concisa. Me la lesse il giorno dopo, guardandomi sovente in faccia, come se volesse spiare l’impressione fatta in me da quella lettura. Suppongo che ‘in quel momento io faceva la parte della serva di Molière. Mi fece copiare anche questa seconda memoria, e fu dessa, non quella dell’Azeglio, che fu mandata per corriere al marchese di Villamarina e posta sotto gli occhi dell’imperatore Napoleone.Questa relazione riassumeva in uno stile conciso ed efficace le condizioni politiche dell’Italia. La prevalenza dell’Austria in tutta la Penisola, sia per effetto del suo possesso del Lombardo-Veneto; sia delle sue occupazioni nello Stato del Papa, e a Piacenza; sia, infine, per quel legame di dipendenza degli Stati d’Italia all’impero, distruggendo l’equilibrio politico, costituiva un pericolo per il Piemonte e per la Francia; e perciò occorreva che l’occupazione cessasse, che fossero riconosciuti i vecchi diritti del Piemonte sul ducato di Parma, e che si rinforzasse il regno di Sardegna, come quello, che poteva rappresentare una forte barriera, in un probabile urto tra l’Austria e la Francia. La nota-verbale poi, che Cavour consegnò all’Imperatore ed ai rappresentanti di Francia e d’Inghilterra prima della seduta degli otto aprile, e che si disse redatta a Bologna dal Minghetti, dal Ranuzzi, dal Simonetti, secondo afferma Michelangelo Castelli5, il quale si era recato colà per incarico di Cavour, concerneva gli espedienti più pratici, per assicurare il benessere delle Legazioni, all’indomani di un possibile sgombero delle truppe austriache, accennandosi all’idea d’un vicariato da affidarsi al re di Sardegna. Il Nigra non lo esclude, ma ritiene che anche quella nota, sopra gli elementi raccolti a Bologna, e sopra altre informazioni date dal Minghetti a Cavour, in Parigi, dove lo chiamò, fosse stata scritta dallo stesso Cavour. È da ricordare che il Nigra era uno dei tre segretari di Cavour al Congresso di Parigi.
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Fu nella seduta degli otto aprile, penultima del Congresso, che il Walewski, d’ordine dell’Imperatore, aprì la discussione sulla quistione italiana. Bisogna premettere, per valutare tutta l’importanza della cosa, che la quistione italiana non entrava punto nel programma del Congresso, epperò esorbitava dalle competenze dei suoi membri. Il lavoro di Cavour era stato tenace, e quasi cospiratorio. Non risulta difatti, e l’ha confermato a me il Nigra, che i rappresentanti dell’Austria fossero informati di quanto si operava da Cavour, di accordo con Napoleone, nè della nota verbale inviata ai rappresentanti di Francia e d’Inghilterra, nè degli accordi fra Cavour e Clarendon. Il Congresso s’era inaugurato il 25 febbraio, e aveva quasi esaurito il suo programma. Tutta la difficoltà era nella forma d’introdurre un argomento, affatto nuovo e imprevedibile, senza allarmare l’Austria, e non obbligare i suoi rappresentanti a respingere qualunque discussione sopra soggetti estranei. E non fu mediocre l’abilità mostrata dal Walewski, quando nella seduta degli otto aprile dichiarò esser cosa desiderabile, che i plenipotenziari, innanzi di separarsi, scambiassero le loro idee sopra diversi argomenti, che domandavano soluzioni, e di cui avrebbe potuto essere utile occuparsi, al fine di prevenire delle novelle complicazioni. Dopo avere accennato alla situazione anormale della Grecia, per effetto dell’occupazione inglese e francese del Pireo, espresse il voto, che Clarendon si sarebbe unito a lui, per dichiarare che i due governi attendevano con impazienza il momento, in cui sarebbe loro permesso di metter fine a quell’occupazione. E dopo la Grecia, entrò abilmente a parlare della situazione anormale, quasi identica, in cui era lo Stato del Papa, occupato ad un tempo da truppe francesi e austriache, e proponendo il voto, che senza compromettere la tranquillità interna del paese, nè l’autorità del governo pontificio, le due occupazioni dovessero aver termine. Il ghiaccio era rotto; e chi voglia saperne di più, legga il protocollo di quella seduta, che fu la più agitata del Congresso, e anche la più storica, per le conseguenze, che partorì a soli tre anni di distanza6.
Lord Clarendon, che parlò per il primo, parve che avesse diviso le parti con Cavour. La sua requisitoria sul mal governo del Papa, e del re di Napoli fu terribile. Egli era bene informato della verità delle cose. Non citò le fonti, ma il suo discorso rivelò che non gli era estranea la relazione di Cavour all’Imperatore, nè il promemoria del Gualterio, nè le lettere di Gladstone, ed osservò che trascurare di occuparsi delle varie cause di malcontento, nelle condizioni dell’Italia, era esporsi a lavorare a profitto della rivoluzione. Il ritiro delle truppe straniere dallo Stato del Papa doveva combinarsi, egli disse, con la secolarizzazione del governo, e con un sistema amministrativo in armonia con lo spirito del secolo.
Per Napoli, nell’interesse del principio monarchico, chiese riforme, e un’amnistia in favore dei condannati politici, detenuti senza processo. Cavour parve maliziosamente più moderato: egli disse, secondo è riferito nel protocollo:
L’occupation des États-Romains par les troupes Autrichiennes prend tous les jours davantage un caractère permanent: qu’elle dure depuis sept ans, et que, cependant, on n’aperçoit aucun indice qui puisse faire supposer qu’elle cessera dans un avenir plus ou moins prochain; que les causes qui y ont donné lieu subsistent toujours; que l’état du pays qu’elles occupent ne s’est certes pas amélioré, et que, pour s’en convaincre, il suffit de remarquer que l’Autriche se croit dans la nécessité de maintenir dans toute sa rigueur l’état de siège à Bologne, bien qu’il date de l’occupation elle-mème. Il fait remarquer que ia présence des troupes Autrichiennes dans la Légation et dans le Duché de Parme détruit l’équilibre politique en Italie, et constitue pour la Sardaigne un véritable danger. Les Plénipotentiaires de la Sardaigne, egli concluse, croient donc devoir signaler è l’attention de l’Europe un état de choses aussi anormal, que celui qui résulte de loccupation indéfinie d’une grande partie de l’Italie par les troupes Autrichiennes.
Nicomede Bianchinota conferma, che il protocollo di quella seduta non fece la genuina esposizione del tempestoso andamento della medesima; e «non essendo per anco giunto il tempo di levare tutto il velo che la coperse», pubblicò un lungo rapporto riservatissimo, che il ministro di Toscana, Nerli, inviava il 15 aprile di quell’anno al suo governo. Quel rapporto, le cui informazioni furono attinte all’ambasciata austriaca, riferisce molto di più di quanto non si legga nel protocollo, ma non tutto è esatto, come non è esatto, che Clarendon si fosse spinto a definire il governo pontificio une honte pour l’Europe. Di certo
7 il protocollo non riproduce tutta la discussione, la quale, ripeto, fu lunga e vivacissima; i rappresentanti dell’Austria e della Russia dichiararono che l’argomento esorbitava dal programma del Congresso, e che non avevano istruzioni per occuparsene; ci fu un momento, in cui parve che il conte Buol volesse abbandonare la sala delle sedute, e occorse l’autorità del Walewski per impedirlo, e per formulare nel protocollo i due voti per la quistione italiana, con le parole meno compromettenti:
1° Que les Plénipotentiaires de l’Autriche se sont associés au vœu exprimé par les Plénipotentiaires de la France de voir les États-Pontificaux évacués par les troupes Françaises et Autrichiennes, aussitôt que faire se pourra sans inconvénient pour la tranquillité du pays, et pour la consolidation de l’autorité du Saint-Siège;
2° Que la plupart des Plénipotentiaires n’ont pas contesté l’efficacité qu’auraient des mesures de clémence, prises d’une manière opportune par les Gouvernements de la Péninsule Italienne, et surtout par celui de Deux-Siciles.
Se dunque i due voti furono così anodinamente formulati, per farli approvare dai plenipotenziari tutti, è da ricordare che l’Austria era una grande potenza, e aveva in piedi un potente esercito, capace di darle ragione, in una eventualità di guerra; e che l’Italia, sminuzzata nelle vecchie signorie, non esisteva politicamente. Bisogna mettersi da questo punto di vista, per misurare quale immenso servizio alla causa della indipendenza, e della libertà italiana rendesse il conte di Cavour nel Congresso di Parigi, benchè egli se ne aspettasse qualche cosa di più, almeno il riconoscimento dei diritti del Piemonte sopra Piacenza; e, appena dopo il Congresso, dichiarasse a Clarendon di prepararsi ad una guerra «a coltello» con l’Austria, sperando aver con sè Francia e Inghilterra. Se egli non ottenne di più, si deve anche attribuire a circostanze strane, e non ultima, questa, che l’imperatrice Eugenia, essendo alla vigilia di partorire, voleva il Papa a Parigi per padrino del nascituro principe, ed era perciò necessario non disgustare Pio IX. Ma questi non perdonò mai a Napoleone III quanto era avvenuto, ed anzichè andare personalmente, mandò a Parigi il cardinale Patrizi, a tenere al fonte battesimale il principe imperiale.
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Ma l’impressione prodotta in Italia fu davvero immensa, e quale non prevedeva lo stesso Cavour. Fu un generale ridestarsi delle speranze liberali. Vennero coniate medaglie, scolpiti busti, inviati indirizzi al gran ministro da Roma, da Firenze, e da Napoli. Il governo pontificio e il napoletano, che non si aspettavano quegli attacchi, ne furono fortemente impressionati, ma più dal silenzio dei rappresentanti delle potenze amiche, perchè non un solo si levò a loro difesa. E cominciarono le confutazioni in maniera curiosa. La prima fu fatta, pare impossibile, dall’ambasciatore di Francia a Roma, Rayneval, non si sa se d’iniziativa sua, o del cardinale Antonelli, o dello stesso Walewski, che non aveva prevedute tutte le conseguenze della seduta degli otto aprile, e non aveva simpatie per l’Italia. Il De Rayneval dunque inviò, in data 14 maggio 1856, una nota, o monografia, cercando di confutare le principali accuse contenute nel memorandum del Gualterio, e nei discorsi di Cavour e di Clarendon, relativamente allo Stato del Papa.
Il cardinale Antonelli gli fornì gli elementi ufficiali. Il De Rayneval, pur riconoscendo e condannando alcuni inconvenienti del governo pontificio, in sostanza ne fece la difesa, cercando di sfatare le principali accuse circa le pubbliche gravezze; la prevalenza degli ecclesiastici negl’impieghi; l’avversione ad ogni progresso, e via via. Affermò, che il suddito pontificio pagava 22 lire d’imposte, mentre il francese ne pagava 45, ma senza distinguere fra paese e paese. Affermò, che sopra un numero d’impiegati dai 3000 ai 5000, soli 98 erano ecclesiastici, ma non distinse fra impieghi e impieghi; e pur riconoscendo che i più importanti uffici civili erano occupati da ecclesiastici, non tenne conto, che i numerosi piccoli impiegati delle poste, dei municipi, delle dogane, e le numerose guardie daziarie, e i militari graduati indigeni, e i birri non potevano non essere borghesi. Affermò pure, con inverosimile leggerezza, che il popolo non aveva deferenza per i funzionari laici, e che le provincie di Ferrara e Camerino avevano inviato deputazioni al Papa, perchè sostituisse i delegati laici con ecclesiastici. Forse accennava a Ferrara, dov’era delegato il fanatico Folicaldi. Pareva che quel rapporto non avesse altro scopo, che di dare al Walewski un’arma ufficiale per difendere il governo pontificio dagli attacchi, sempre crescenti, dei suoi avversari. Il. De Rayneval aveva talento, ma indole subdola. Nello stesso rapporto moveva al governo pontificio alcune accuse, e lo descriveva mirabilmente così: «il governo del Papa è un governo di romani, che operano alla romana. Esso è diffidente, meticoloso, esitante, teme la responsabilità; è inclinato piuttosto ad esaminare che a decidere. Ama le tergiversazioni e gli accomodamenti. Manca di energia, di attività, d’iniziativa e di fermezza, com’è il caso della nazione stessa».
Il De Rayneval voleva dimostrare, dunque, che, data la natura del governo, non era possibile trovar rimedi concludenti e duraturi, e che Pio IX era pieno di ardore per le riforme, e per soddisfare ai bisogni più urgenti delle popolazioni, concedendo ferrovie, telegrafi e illuminazioni a gaz; e portava un giudizio tutt’altro che benevolo sugl’italiani in genere, e sui romani in ispecie, e sui liberali addirittura ostile, al solito non distinguendo, anzi, per ignoranza e malignità insieme, facendo di ogni erba un fascio.
Importava a Cavour avere il testo di quel rapporto, e ne interessò il Migliorati, ch’era in buone relazioni personali coll’ambasciatore di Francia. Questi, forse per un sentimento di leggerezza, o di vanità, dette a leggere al ministro sardo il documento, benchè in esso non si manifestasse giudizio troppo benevolo circa l’azione della Sardegna e dell’Inghilterra, ostile al governo pontificio, come si era rivelata al Congresso di Parigi. Il Migliorati si affrettò a inviarne copia a Cavour, il quale, senza pensarci due volte, lo fece pubblicare dal Daily News del 18 marzo 1857. L’effetto ne fu grande in tutta Europa; si disse anche che l’Imperatore, il quale nulla sapeva di quel rapporto, leggendolo nel giornale inglese, dicesse al Walewski: est-ce qu’en dit de M. de Rayneval, je connais l’Italie mieux que lui. E non bastò. Un’altra copia del rapporto servi ai liberali romani per confutarlo. La confutazione fu scritta e sottoscritta dal giovane Cesare Leonardi, e inviata audacemente all’ambasciatore, che mostrò di non averla ricevuta. Ma una confutazione completa venne fatta dal Minghetti, in un opuscolo in lingua francese, che ebbe larga diffusione in Francia e in Inghilterra, ed è riprodotto nei Ricordi di lui. Porta per titolo: Question romaine: observations sur la note de monsieur de Rayneval, par un sujet du Papa e la data 29 marzo 1857. Di questo opuscolo, di cui non si scoprì l’autore, fu anche fatta larga diffusione a Roma, e in tutto lo Stato.
Dopo quanto era avvenuto, si rese incompatibile il De Rayneval a Roma, e fu destinato a Pietroburgo. Sul finire dello stesso anno ebbe altra destinazione anche il Migliorati, il quale si mostrava inconsolabile, negli ultimi giorni di sua vita, del tiro giocatogli da Cavour, assai dolendogli che il De Rayneval potesse accusarlo di slealtà, o di abuso di confidenza. Egli morì senatore del Regno d’Italia, nel 1898, a Firenze. Era nato a Genova, fu un appassionato botanico, e gl’intimi gli dicevano per celia, a proposito di alcune sue debolezze: Migliòrati.
Per dare una smentita ancor più clamorosa alle accuse contro il suo governo, il Papa decise di visitare le provincie di qua e di là dell’Appennino, spingendosi sino agli estremi limiti di Ferrara o di Ravenna.
Note
- ↑ Leopoldo II granduca di Toscana e i suoi tempi. Memorie del cavaliere Giov. Baldasseroni, già presidente del Consiglio dei ministri. Firenze, 1871.
- ↑ Alcune considerazioni sulla separazione dello Stato dalla Chiesa in Piemonte. Torino, 1855.
- ↑ Il marchese Gualterio aveva difatti una calligrafia geroglifica.
- ↑ Verosimilmente il Massari.
- ↑ Ricordi di Michelangelo Castelli, 1847-1875, editi per cura di Luigi Chiala. Torino, Roux, 1888. I
- ↑ Atti del Congresso di Parigi, pubblicati da Charles Samwer. Gottingue, Librairie de Dieterich, 1857, vol. XV.
- ↑ Il Conte Camillo di Cavour. Documenti editi ed inediti, per Nicomede Bianchi. Torino, 1863.