Rime (Guittone d'Arezzo)/Annotazioni alle canzoni ascetiche e morali

Annotazioni alle canzoni ascetiche e morali

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Guittone d'Arezzo - Rime (XIII secolo)
Annotazioni alle canzoni ascetiche e morali
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ANNOTAZIONI

ALLE CANZONI ASCETICHE E MORALI


XXV. v. 1. Per la spiegazione dei primi versi e il concetto che vi è espresso v. Eg. Guitt., 19-22.

v. 6: «trovare», cioè poetare.

v. 32. Cioè: non creda di trar pro dall’altrui danno.

v. 36: «dispeso»; il Val.: «di spesso»; ma non comprendo qual senso possa dare.

v. 60: «e’ tempi»; oppure «e tempi»? Il problema non è risolto; ma m’attengo al primo tipo. Cfr. Schiaffini, Testi fior., p. lii.

v. 65. Il Val., attenendosi al ms. C: «Natura di ragion scritta è comune», ma non dá senso soddisfacente.

v. 71 seg. Intendi: né rendesse merito in alcun modo, né qui, in questo mondo, né «poi l’alm’è divisa» cioè quando l’anima è separata dal corpo.

v. 77. Il Val. spiega: «cioè che non ci toglie l’ignoranza di far bene». Ma il senso mi sembra altro, e cioè: ché non è tanto l’ignoranza, quanto la follia che ci distoglie dal far bene, e piú di tutto ci travolge la cattiva abitudine.

v. 83: «solo»; il ms. A: «via piú», ma mi par certo che qui si voglia dar valore al disuso; quindi logicamente è detto che il bene sembra tanto grave solo pel disuso e perché si nutrono desideri ad esso contrari; e viceversa, s’aggiunge, dove esso aggrada come cosa piavevole e spontanea, l’uso fa sí che si converta in gioia onorata.


XXVI. v. 18. Come lo danno i mss. il v. è ipermetro. Si potrebbe leggere, secondo A, «purificato e mondo e di carne alma», ma il senso non soddisfa (cfr. il v. 26). Il Val. legge: «di carn’e alma». Forse: «purificato e mondo, carne e alma».

v. 29: «che», cioè: all’infuori del tenere... [p. 315 modifica]

v. 39. Il Val. per evitare l’ipermetria, cambia il «riccor» dei codd. in «cor». Senza variare la lez. concorde dei mss., si potrebbe troncare «poveri» in «pover». Lo faccia il lettore: io credo di dover conservare l’ipermetria, che gli antichi non evitavano nella scrittura, ma correggevan leggendo.

v. 60: «rede», cioè: risulta. I mss. B I: «torna», cioè: «torn’a»; C e il Val.: «rende».

v. 70: «fina», cosí B; tutti gli altri mss.: «fine». Il senso è peraltro chiaro: Finisce male. Il verbo «finare» è frequente: cfr. in questa stessa canz. al v. 5.

v. 79. «Emprima» è di A; B I hanno: «che pria» e C.: «e piú». Invece «amò» è lez. dei mss. B C I, laddove A legge: «n’ama». Il perfetto è consigliato anche dai tempi dei verbi seguenti: «desamammo... demmo... raccattonne».

v. 94. Tra la lez. dei mss. A C: «neiente feci me, tu mi ricrii» e quella dei mss. B I: «peccando isfeci me, tu me recria» non esiste divario profondo di senso: ‛mi son ridotto a nulla’, dice l’una; ‛mi son disfatto nella colpa’, dice l’altra. Parrebbe tuttavia piú logico attenersi alla prima, poiché il concetto della deviazione verso la colpa è come precisata nei vv. seguenti. Del pari mi attengo ad A C per la forma dell’indicativo del vb. anziché dell’imperativo od ottativo, poiché non vuole qui il poeta esprimere un desiderio, ma fare una constatazione; il desiderio, se ci fu, è giá appagato: «ciò m’ha conceduto... la tua bonitate».

v. 100: «servir»: anche qui seguo A C di contro al «pregiar» di B I, perché col verbo «servir» s’ha un crescendo dalla lode all’amore e da questo al servire, secondo le buone regole di cortesia.

v. 110: «tornare», cioè: che il buon principio volga a male.


XXVII. v. 1: «vergogni» è di tutti i mss., eccettuato B, che seguito dal Val., legge «vergogna».

v. 2: «sbaldisca» è lez. di A; B I: «conforto»; C: «conforti».

v. 7. Cfr., per il valore di questo verso, Eg. Guitt., pp. 10, 11.

v. 9. Il ms. A legge: «e venni ingrotto, lebroso ed enuto»; B, C e, su per giú, I: «e venni in loco infermo pover nuto». Poiché per «nuto» = nudo, si ha la stessa lez. in B, fuori rima, al v. 70, sará da preferirlo, tanto piú che non sarebbe facilmente spiegabile la forma «enuto» (forse: ‛ernuto’ = ernioso?), e, quanto al senso, sarebbe inutile una enumerazione di malanni, [p. 316 modifica] che viceversa sono in generale designati da «infermo», mentre gli altri aggettivi chiariscono altri aspetti della sua miseria. Non si capisce bene peraltro il valore di «in loco» (la lez. «loco» di I indurrebbe a pensare ad una espressione avverbiale: «colá») e mi decido a sostituirlo con «ingrotto», dato da A, che rinforza il concetto dell’infermitá, anche perché cosí si hanno due aggettivi per l’infermitá e due per la miseria.

v. 11: «vanito». Cosí tutti i mss., eccettuato A, che legge «vameo», forse per «vaneo», da «vaneare», e quindi senza divergenze di senso. Il Torraca congettura «aunito» (prov. «aunit»), disonorato; ma non vedo ragione alcuna per allontanarsi dai codici, che con la loro lezione esprimono un’efficace progressione: fuor di strada, fuor dei sensi, fuor della vita.

v. 13. Intendo: il male a chi imprende a farlo è tanto peggiore quanto piú è gradito, perché si cerca un rimedio al male che, fuori d’ogni gradimento, ci colpisce, ma il male gradito, piacevole nuoce senza rimedio, rovina tutto e non trova farmaco se non nella pietá divina. Cfr. anche Eg. Guitt., p. 30.

v. 26. Intendo: Tra le altre mie pazzie vi fu che poetai d’Amore, o meglio di «disamore», cioè del contrario d’Amore e lo amai.

v. 41 segg. Cioè: quanto piú fu brutto il luogo d’allora, tanto piú mi è piavevole d’essermene allontanato. Accetto perciò la lez. di A: «fue» di contro agli altri mss. che hanno: «fui».

v. 50: «sbaldisca», anche qui, come al v. 2, i mss. B C I hanno: «conforti». Dopo le ragioni della vergogna e del dolore sono ora esposte quelle dello «sbaldimento» e della gioia: ciò che fu noia è piacere, prima la vita fu dura, «croia», ora è bella, invece dell’amore adultero ho «compiuta amanza» e dalla completa abbiezione è derivato onore; da un luogo mondano è passato alla santa religione e dall’inferno, dov’era, spera di ottenere la delizia intera ed eterna del cielo.

v. 62: «laido ostale»; cosí i mss. B C I; A invece: «male ostale». Si noti che il ms. A anche al v. 7 sostituisce a «laido» altro aggettivo. Cfr. Eg. Guitt., 11, n.

v. 63. Intendi: non è ancor sufficiente che voi doniate e che io prenda, cioè: ho ancor bisogno del vostro aiuto.

v. 76: «tel», cioè: lo tiene, lo giudica da meno.

v. 81. Credo che il senso sia questo: e fornitemi per voi quel po’ di bene che ogni uomo può fornire quando non pecchi. I mss. [p. 317 modifica] A C leggono «a voi»; per l’interpretazione è necessario aver presenti i vv. 92-93.

v. 87: «for mertar eo nente», cioè senza ch’io meritassi niente. Sulla lez. ed interpretaz. del passo v. Eg. Guitt., p. 32.

v. 99. Mi sembra si debba intendere: che non solo lo spero, ma mi par di vederlo come cosa giá conseguita, sia perché la pietá s’onora nel volgersi a colui che è molto bisognoso, cosí come la giustizia s’onora nel giudicare fermamente.


XXVIII. v. 3: «cortesia veggio», considero cortesia il biasimar te ecc.

v. 6: «mante via». Il ms. A: «spesse via»; il senso è il medesimo: molte o spesse volte.

v. 10. Cfr. Not. 4 per «de resia» anziché «d’eresia».

v. 12. Il Valer. legge: «e se mostranza divina a ragione», secondo la lezione di B. Seguo A interpretando: Se il mostrar la viva, cioè la vera e pura, ragione potesse mai esser giovevole, ecc. L’espressione trova corrispondenza al v. 14 nell’intenzione cioè di voler dimostrare in molte maniere quanto sia dannoso il loro stato.

v. 16. Il senso non è sempre chiaro; ma mi sembra possa intendersi: o amore, che sei peggio che guerra, qualcuno ti loda perché lo hai abbindolato in modo ch’egli ti crede dio potente e santo, qualche altro perché per suo mezzo inganna e froda gli altri; e si dice che tu renda valoroso il vile, eloquente l’ignorante, largo l’avaro, leale l’imbroglione, saggio il folle e noto il salvatico. Tuttavia chi ha la testa a posto vede chiaramente il contrario. E se anche esso fosse cosí, ne avrebbe certo vergogna, perché lo sarebbe per un folle motivo e perché tu non hai né misura né ragione; e se cosí fosse (cioè valoroso, eloquente, generoso, ecc., anziché vile, ignorante, tirchio, ecc.) egli che non ha l’abitudine di fare il bene ma da esso si allontana, allontanandosi amore, gli torna il disonore, perché il merito finisce quando finisce il ben fare.

v. 32. Cioè: che il bene nell’amore (lí) è straordinario, e che, se male c’è, esso ci è pure gradito.

v. 59 seg.: fa in modo che un sol danaro falso farebbe molto piú ricco chi lo possedesse.

v. 79. Il Val.: «ragion quasi for, pene ecc.», cioè: quasi al di fuori d’ogni ragione, mi desti piú pena, ecc. Questa interpretazione [p. 318 modifica] parve inesatta al Pellizz., p. 12, il quale spiega: «ché anzi tu, o amore, oltre il mio merito e oltre ciò che era giusto, mi desti, quasi senza farmi penare, piú che ad ogni altro uomo vivente».


XXIX. v. 6. Il Val.: «n’è d’amar grande a.», nel senso: né per noi è con te fatica di amare ciò che è grandemente amaro. Il testo che propongo dá quest’altro senso: né fatica, né amarezza grande è amara con te, ed anche una piccola dolcezza appare con te straordinariamente dolce.

v. 10. Il Val.: «e d’umana». Il senso è: tu mi sembri lo scopo ultimo ed il naturai frutto d’ogni legge divina, naturale ed umana.

vv. 18-20. Intendo: né tu hai alcunché di buono dai malvagi, perché tra i felloni, a quel che io argomento (ragiono = penso), ogni amore è odio ed ogni pace è guerra.

v. 26. Il Val.: «né ben, forte pur quanto el vuol s’adagi»; ma «forte», lez. di B, non credo che convenga a «s’adagi», che vale: sia agiato, viva negli agi.

v. 31. Il Val.: «Perché tu, Amore,...», emendando per avere un endecasillabo. Ma la metrica richiederebbe in questa sede un settenario, al quale si potrebbe facilmente giungere, sostituendo a «perché», «ché».

v. 40. Il passo è oscurissimo, sebbene la lez. sia concorde ne’ due mss. Il Val. congettura molto, omettendo persino un verso, senza riuscire a dare un senso. Intendo: né Dio, né ragione vuole in alcun luogo chiunque si tenne lontano da te; al di fuori di te, non c’è né bene, né male. In te è tutta la rivelazione (la Legge e i Profeti) e tutto ciò che Dio vuole e tutto ciò che giova all’uomo. O empi, egli ci fa pro; perché con te, in te, l’uomo merita di godere cielo e terra.

v. 57. Il ms. B: «perché ragione grande n’avemo». Ma il v. deve essere settenario; e questa considerazione mi spinge, insolitamente, ad espungere «grande», aggettivo che del resto non aggiunge nulla al concetto.

v. 84. I mss. hanno: «ma d’una g.»; l’emendam. è del Val.

v. 95: «en tutto», cosí B; il ms. C: «in tutto», lez. questa che ci allontana dal pensare ad un «e ’n tutto» che pur si presenta spontaneo. Il Val.: «e in tutto».

v. 100 segg. Credo si debba intendere: e solo per la ragione ch’egli discese in terra e morí per il troppo amore di noi, l’uomo non meriterebbe punto d’avere l’amore che tutti abbiamo. [p. 319 modifica]

v. 119. I due mss. hanno concordemente: «onni bono noi che meno»; ma per trarre un senso da queste parole bisogna porre punto dopo «noi» e sottintendere il vb. «è», cosa frequente nella sintassi di Guittone. La fine del v. va congiunta col v. seguente: Che cosa manca in un gaudio vero, lungo, pieno?

vv. 125-130. Passo oscuro. Par di intravvedere questo senso: L’uomo non ha forma diversa da quella divina; e questa forma divina lo riempie sí largamente e lo inabissa sí profondamente, che tutto nel mondo gli sembra nulla e niente gli conviene. Quanto alla voce «abessa» può ben valere «abissa» e «inabissa» ma non deve aver persuaso non dico il Val. (il quale corregge «abella» e, per la rima, cambia, nel v. precedente, «essa» in «ella»), ma neppure il copista di C, che, in luogo di «ed abessa» legge «da basseça», senza tener conto né del senso, né della rima. Ancora è da chiarire la forma sintattica: «und’è sol essa,... se tutto sembrai neente» che vale: è solo per merito o colpa sua, se ecc. Il Val. anche qui emenda «se» in «che».

v. 131. Con questo verso s’inizia una stanza che ci è giunta irrimediabilmente guasta attraverso gli unici due mss. che ci conservano la canzone. Il senso, anche per l’incertezza e le lacune dei mss., non è sempre chiaro. Quanto al «de’» del primo verso mi pare si possa accogliere senza esitazione, anche perché il «deo» di B è forse un lapsus per «dea». Che si tratti di terza pers. è dimostrato anche dal «catuno» del v. 133 che par certo il soggetto, se il senso è: ciascuno secondo la legge naturale e divina deve portar te, o amor buono come a se stesso cosí anche a chi s’avvicina con esso a Cristo e cioè ai confratelli dell’ordine, perché essi sono fratelli in carne e spirito, perché appartengono alla stessa madre chiesa e sono come le membra di un sol corpo e destinati allo stesso gaudio eterno. Il Val. integra la lacuna del ms. B al v. 137 con la felice congettura di un «bona», escludendo le rime: «padre: madre» di C, le quali sono evidentemente un ripiego per ristabilire la rima, mancante a causa della lacuna che è chiaro debba risalire ad un archetipo comune a B e C.

vv. 141-147. Il v. 141 manca in B e la lacuna è tanto piú grave, in quanto in corrispondenza il ms. C. ha una lez. alquanto confusa. In B leggiamo: «come può stare senza se homo in onni bono solo ecc.»; in C: «perke star senza amico bono: como postar senza se homo: come puote hom inogne bono solo ecc.». Il Val.: «Come può stare senza te uomo... In ogni bono solo [p. 320 modifica] giá gaudere ecc.». Ora la metrica ci dice che i vv. 141 e 142 dovrebbero essere il primo endecasillabo e il secondo settenario rimati tra loro e indipendenti dal resto. La ricostruzione che propongo non mi lascia del tutto soddisfatto, ma s’attiene quanto piú è possibile alla lez. di C, sopprimendo peraltro «stare» al v. 141 e «senza se homo» al v. 142 È logico ammettere che, data la ripetizione di alcune parole voluta dal poeta, l’amanuense di C abbia potuto confondersi e ripetere erroneamente una volta di piú le parole: «stare, senza, homo». Il passo viene cosí ad avere la seguente significazione: come può stare l’uomo solo senza un amico buono? E come può l’uomo, stando solo, sopportare il male? L’uomo solo nel godere trova la sua ricchezza, ma non la gioia; e da solo è maggiormente grave sostenere pericolo e morte.

v. 148 segg. Intendo: Con quanti egli voglia essere, per quanta gente possa pure avere dintorno, dico che, senza un amico, l’uomo è pur sempre solo; e viceversa con un amico anche un piccolo bene è grande, ed il male piú feroce è lieve. Al v. 151 la lez. «è ’l trafero» deriva da B; C ha: «ol traf.». Il Val., capovolgendo, a mio giudizio, il senso: «E mal parvo è trafero E grave u’ sono amici; esser può male ecc.».

vv. 152-153. La lez. data deriva da B. Dividendo e punteggiando come ho fatto, il senso risulta chiaro, avendo presente che «a giusto» è espressione avverbiale e vale: giustamente.

vv. 157-165. La metrica di questa strofa è stata compietamente sconvolta dal Val., che nei primi versi ha abbandonato le fonti, ricostruendo e congetturando senza fondamento alcuno. Ai vv. 159 segg. intendo: amore non genera che diletto e non genera diletto al di fuori della bontá. Allontani dunque ognuno da sé ogni cosa che sia spiacente al piacere dell’amico, e adduca ogni cosa gradita.

v. 176. Il Val.: «D’utele è diletto; e vien f.».

v. 200: «spegnare» lez. di B, che preferisco a «spresiare» di C perché, se anche la forma non è comune, risponde meglio al senso, che mi par questo, in relazione a quanto è detto sopra, specie nei vv. 192-195: non è certo buono peccare, ma è buono che, sia il folle sia il saggio, si adoperino a rintuzzare, sopprimere, spegnere il vizio.

La stanza che qui si chiude deve considerarsi come un primo commiato: lo schema corrisponde infatti, come d’abitudine, alla [p. 321 modifica] sirima dell’intera strofa. Ma quel che segue è diviso in due parti, la seconda delle quali manca nel ms. C ed è metricamente alquanto irregolare.

v. 217: «chero» Rimango fedele al ms. Ad evitare l’ipermetria chi legge può sopprimer l’«o» finale.


XXX. v. 5: «stenda», esplichi, dimostri che non è vero che sia piú facile fare il male che il bene. Cfr. canz. XXV, v. 81.

v. 13. Cioè: assapora come dolce ciò che è buono e come amaro ciò che è cattivo.

v. 17: «a sano». Il Val.: «ha sano»; ma credo che il senso sia questo: cosí come bene avviene in realtá nel palato corporeo da un sano a un infermo e come avviene nel giudizio di un saggio rispetto a quello di un non saggio.

v. 19 seg. Intendo: una prova vera, esatta del buono può esser fatta soltanto da colui che giudica essendo buono, sano e sapiente.

v. 21 segg. Chi è piú buono conosce in miglior modo il buono e, come lo conosce meglio, meglio lo ama, perché ama ciascuna cosa rettamente, giustamente, secondo che essa vale.

v. 29. Oh, quanto il dolce è in essa dunque straordinariamente dolce! E se ciò che è buono è talvolta affannoso, chi è buono non lo evita giá, ma lo desidera ancor piú.

v. 33. Il Val. pone un «;» dopo «vil» e unisce la seconda parte del verso con quel che segue, senza che, a mio giudizio, ne risulti un senso. Io intendo: «l’uomo prode chiede di combattere piuttosto con un prode che con un vile, che non vuol mai (cioè che non vuol mai avere come avversario): il valore si procaccia e il merito si consegue lá dov’è il valore». Vien fatto peraltro di pensare che invece di «vole» sia da leggere «vale»; ma poiché anche «vole» dá un senso, non oso variare la lez. del ms.

vv. 35-36. Il senso risulta chiaro pur attraverso il costrutto singolarissimo: Oh, quanto poco è certo gravato il corpo, ecc.

v. 42: «è»; il Val. «e», intendendo «fore» come verbo; nota infatti: «fora dal latino foret». Ne risulterebbe questo senso: «Per chi è buono non ha sapore, non è gustoso, non piace ciò che non è buono, né a lui sarebbe adatto e buono il suo sapore cosí come certo è a noi»; ma il secondo verso sarebbe cosí una perfetta e quindi inutile ripetizione del primo e non si comprenderebbe la ragione del porre in contrasto «noi», cioè se stesso [p. 322 modifica] e gli altri frati dell’ordine, con chi è buono. Facendo «è» verbo ed intendendo «fore» come preposizione, si ottiene quest’altro senso: «A chi è buono non piace ciò che non è buono, né c’è per lui propriamente alcunché di buono al di fuori del gustare il buono, e questo è anche certo per noi».

v. 44. Altra singolare costruzione: I santi odiarono il piacere carnale e mondano.

v. 51. «ho». Il Val. emenda «è» e stampa: «E non vizio, ma virtú, è gaudio assai». La divisione «no ’n» non richiede di variare la lezione del ms. ed è consigliata anche dall’«in vizio» del verso seguente. Potrebbe anche ammettersi, ma non è indispensabile, l’emendamento: «ma ’n vertú».

v. 55 seg. M’allontano dal Val. e intendo: secondo quello che il saggio Aristotile dice e mostra che l’uomo è felice operando virtú. Colui che ha in sé pienezza di gaudio, non ha in pregio né il male né il bene terreno, ma colui la cui mente non prova gaudio dentro di sé, fugge verso i piccoli e vani diletti del corpo. Per la citaz. di Arist. cfr. Pellizz., p. 253.

v. 61. Cfr. Matth. XI, 30.

v. 63. Cfr. Eccles. XXI, 11.

v. 66. Intendo: e quando a noi sembra altrimenti, che altro è fuori che il nostro cuore è divenuto malato, ignorante, snaturato, fuorviato da viziata usanza, la quale ha sempre fatto e fa sembrar cibo il veleno e fa sembrar viceversa velenosa la triaca, cioè l’antidoto del veleno, nella quale sta il bene?


XXXI. v. 7. Intendo: in quanto essi ci allontanano da Amore e ci fanno da lui disprezzare.

v. 12: «vis’ ha», cioè: ha intelligenza.

v. 23. Cioè: tutti i libri son sue carte, son suoi documenti.

v. 51 seg. La punteggiatura adottata dá al passo il senso seguente: E se l’uomo prese le mosse, ebbe inizio da un altro uomo e la fiera da un’altra fiera, da chi l’ebbe il cielo, nel quale è ordine e tale bellezza e tanto valore?

v. 61: «unde cos’è onne», cioè: da cui è ogni cosa.

v. 66: «ad un», cioè: concordemente.

v. 85. Intendo: [ma che esse] son quasi nulla, cioè non valgon quasi punto ad appagare il cuore dell’uomo.

v. 89 seg. Cioè: e il bene che in esso è limitato di grandezza, lo è pure sovente di tempo. Accogliendo la lez. di B: «eper», [p. 323 modifica] interpretata come «e’ pêr» si potrebbe intendere: e il bene che in esso è limitato di grandezza e di tempo, spesso père, finisce; cioè è caduco.

v. 92: «pagare», cioè: appagarsi. E cosí nel v. seg.: Eh! l’anima eterna non può essere appagata da un bene temporale, né la voglia infinita da un bene finito.

v. 123: «esto e mio...». Non questo soltanto, ma ogni mio detto. Il Val. invece: «Esto mio...».

v. 128. Cfr. Not. 3. Intendo: se guadagno la vostra signoria, nella qual cosa rimango manchevole, cioè non ostante la mia pochezza, non può il bene convertirmisi in male, né la gioia in angustia.


XXXII. v. 50. Lo stesso verso è nel son. 23.

v. 54. Intendo: tanto maggior danno e tormento vi trova chi piú ad esso è avvinto; e vi ha tanto piú male che bene chi piú ci si compiace anziché annoiarvisi.

v. 65. Seguo la lez. di A, intendendo: nel quale ci si mostrasse per un istante una gioia pura.

v. 67. Non mi par dubbio che si parli del cuore; e il fuggire verso la morte indichi il precipitare incessante verso la perdizione, anziché l’inesorabile fuga del tempo verso la fine della vita terrena. Tuttavia i mss. B C I leggono «corpo» invece di «core»; ma v. in proposito le mie osservazioni in Not., 5.

v. 87: «villia», viltá, è lez. di A; gli altri mss.: «gran villania».

v. 104. Il Pellizz. (p. 202) spiega: «non fu mai veduto un contratto cosí lucroso» e nota l’«egoismo duro, sordido, spietato... e la grettezza di cuore, che aduggia non una sola, ma tutte le poesie morali di G.». La rinuncia alle gioie ed ai piaceri del mondo è rinuncia d’un valore altissimo; e scambiarlo con la vita eterna non può non sembrare gran cosa al cuore pieno di fervore ascetico. Ci sembra che cosí debba intendersi il passo e non sia da scorgere qui contratti lucrosi o scambi piú o meno convenienti.

v. 111. Per ricondurre il v. alla misura è necessario scostarsi un poco dai mss., dei quali A legge: «sene di spirito», cioè «s’ène di sp.», e gli altri: «selue di sp.» cioè: «se lu è di sp.», se lui è di sp. ecc. Il metro, e non il metro soltanto, si avvantaggia con l’omissione di «lu». [p. 324 modifica]

v. 116. Tanto seguendo A: «Ma s’io fosse», che B C I: «Or s’eo fosse», il v. risulta mancante d’una sillaba. Seguo il Val., sebbene sarei tentato di proporre: «Ma s’eo pur fosse».

v. 141. Cioè: se ho fatto a me il dono di seguirti.

v. 151 seg. Mi sembra che il poeta voglia qui porre in contrasto la bontá e misericordia divina con la sua colpa: allevato appena, io mi posi subito contro di te e tu mi difendesti; io seguivo i tuoi nemici ed ogni altro male, e tu m’hai tratto dal luogo di perdizione in salvezza e santitá; tu ora mi rendi molto gioioso e m’allontani a tuo piacimento da ogni bruttura e dici, prometti, di coronarmi in seguito e farmi beato ed esaudire in eterno ogni desiderio. I benefici riguardano il passato, il presente ed il futuro; perciò al v. 142 aveva detto: «tanto m’hai fatto e fai e mi dei fare».

v. 169. Cioè: non danno certo, ma vantaggio («prod») si ha nel persistere in te.

v. 178. Il v. è mancante d’una sillaba. Il Val. emenda: «O capitano ecc.». Quella dei Tarlati di Pietramala è tra le piú nobili e potenti famiglie del contado aretino. Tra i piú famosi del tempo di Guitt. furono il vescovo Guido Tarlato e il fratello di lui Pier Saccone, che furono anche signori d’Arezzo: Tarlato fu capitano del popolo nel 1266. Cfr. C. Lazzeri, Guglielmino Ubertini vescovo d’Arezzo e i suoi tempi. Firenze, 1920, p. 299.


XXXIII. v. 4. Il Val. non s’è reso conto della metrica e riduce il v. 3 a endecasillabo ed il v. 4 a settenario. C’è nei primi quattro versi delle cinque stanze qualche oscillazione, ma tra l’ottonario e il novenario. Salve le eccezioni, quali ai vv. 21 e 62, in genere i primi due versi sono, come qui, ottonari e gli altri due novenari.

v. 8: «orto». Ho preferito questa lez. di A a «corte» di B, sia per la miglior rispondenza con le espressioni precedenti e seguenti, sia perché in se stessa piú chiara e spontanea: giardino di delizie.

v. 9. Dovrebbe essere un endecasillabo; ma non oso emendare.

v. 22. Il v. riecheggia la frase che contro gli Aretini avrebbe pronunciato, secondo le cronache, Federico II nel 1240, dopo una breve sosta in Arezzo: «Arca di miele amara come fiele, verrá gente novella goderá questa terra». [p. 325 modifica]

v. 40. Il senso degli ultimi versi della stanza non è chiaro. Nell’apostrofe alla rea gente, il poeta dice: Dio t’ha in ira: tu sei in uggia a te stessa ed a tutti e Dio ha per fermo che questo procede, continua nei tuoi figli, cosí che il tuo piacere è la malvagitá verso di loro; la qual malvagitá sarebbe dunque prova della continuazione del male anche in loro. Poiché questo sembra essere il senso, ho escluso la lez. di A che a «lor» sostituisce «lui», intendendo: sí che il tuo piacere è la malvagitá verso di lui (Dio).

v. 43: «vi stette». Seguo A; in B, qui, come in seguito, s’ha la seconda persona singolare: «te stette... trovasti... ai quazi... l’amico tuo... tu lai oramai destrutto, tu lupo». Mi sembra che «quasi» e «oramai» siano aggiunte inutili introdotte dal copista di B che, riducendo al singolare il plurale originario ha dovuto provvedere in qualche modo a compiere la misura del verso.

v. 44: «ed antico». Il Val. legge «e d’antico»; ma mi pare sia qui da intendere «antico» come sostantivo, con valore di «antenato», cosí come al v. 47: «l’antico nostro». Il senso è questo: Oh, come indegnamente aveste una nutrice tanto dolce ed antenato tanto valoroso da farvi trovar la cittá piena d’ogni bene e d’ogni onore. E voi avete seccato la vena, distrutto l’onore, simili a lupo devastatore, cosí come esso fu buon pastore.

v. 49. Il verso dovrebbe essere endecasillabo; ma è impossibile ricostruirlo dalla lez. dei due mss.; e il minor male sará quello d’accogliere l’irregolaritá metrica.

v. 60. Si riscontri per questo passo e per altri segg. la lettera XIV (Mer., 178).

v. 93. Cioè: È dunque necessario che ben forziate il vostro potere.

v. 131: «om non stante ecc.». Se, come parve al Pellizz., p. 175, in questo straniero è da ravvisare il re Manfredi, questa canzone sarebbe stata scritta negli anni che corsero tra la battaglia di Montaperti e quella di Benevento.


XXXIV. vv. 1-4: «fiada: agrada», lez. di A che preferisco a «fiata: agrata» (cfr. XXV, 85) di B I per uniformarmi alle forme che, fuori rima, troviamo ai vv. 6, 9, 11, 13, 91.

v. 6. Il verso è ottonario, ma si può ridurre a settenario, come ha fatto il Val.: «E m’aggr. ecc.». Nota che le coppie costituite dai vv. 6-7 e 16-17 di ciascuna stanza sono di misura [p. 326 modifica] incerta: alcune sono di settenari, altre di ottonari. Certo nella coppia 16-17 predominano gli ottonari. Se questo v. 6 è ottonario, tale dovrebbe essere anche il seguente, ed è possibile pensando ad uno iato non irregolare in Guittone.

v. 17. I mss. concordemente: «unde vanno pover gaudenti»; ho soppresso «pover» per ridurre il v. alla misura.

v. 42. I mss. concordano in fondo nella lez.: «e campion che non torto defende». Ma qui dovremmo avere un settenario: di qui l’emendamento, che giova anche al senso.

v. 54. Cioè: ed elegge chi ha in sé il bene e lo predica.

v. 59: «che bellezza o.». È da dubitare se non sia da preferire la lez. di A: «che bella s’ob.», o quella di C: «se bella s’ob.».

v. 78. I mss. ci danno il v. in questa forma: A: «abeto ed albo edificio»; B: «abito abbo e officio»; C: «habito ed abbe ed ofitio»; I: «abito o abbi e officio». Il Val.: «Abito abbe d’officio», intendendo «abbe» come voce del vb. avere: ha; ma non ne risulta un senso. Parrebbe che qui si enumerassero le cose buone per le quali il buon prelato ripaga il beneficio e l’onore che ha avuto, e cioè: «abito, abbo ed officio». Ma che cos’è l’«abbo»? Non son riuscito a trovare riscontri e non saprei spiegare il vocabolo; tuttavia mi sembra che non sia un ripiego accogliere la lez. di A: «albo» da attribuire ad abito o ad officio o, meglio, ad entrambi: il candore nella veste e nelle opere, nell’apparenza e nei fatti, è appunto il merito del prelato.

vv. 82-83. C’è veramente una lacuna? Essa è indicata solo dalla metrica, non dal senso, ed è in tutti i mss.

vv. 91 segg. La metrica di questo congedo è tutta irregolare e fa pensare a lezione corrotta. Lo schema del congedo suole riprodurre la sirima e dovrebb’esser questo: C d d E e F f G H h C g g C; e invece è: C d d E e F f G H h D G g C D. Ma il penultimo verso, l’unico che rimi col primo, è dato solo dai mss. C I; il ms. C non ha però l’ultimo verso dato da tutti gli altri. Le irregolaritá si riscontrano al v. 101, undecimo del congedo, che dovrebbe rimare col primo e non col secondo, e nei versi seguenti (102-105), sia per avere G g invece che g g, sia soprattutto per la necessitá di richiamare il primo verso con la rima C che è stata invece al v. undecimo sostituita con la rima D, alterando la quartina finale. Si potrebbe ristabilire la regola emendando il v. undecimo in modo che rimi col primo, riducendo a settenari la coppia [p. 327 modifica] G g e attenendosi al ms. C che esclude l’ultimo verso, in veritá non necessario. Si avrebbe allora:

ahi, che dolz’è membrar la pacienza
e la grande astenenza
e l’ardore de lor grande perdono
e co’al martir gion feri
non meno volonteri
che pover giocolaro a grande dono.

Ma l’emendamento è troppo audace e preferisco lasciare al congedo lo schema irregolare.


XXXV. v. 5. Cosí il ms., unico; ma il v. dovrebbe esser novenario. Si potrebbe pensare a sopprimere «non» e render l’espressione affermativa, ma neppur cosí si riporterebbe il verso alla giusta misura. Penso che l’irregolaritá metrica potrebbe fors’anche risalire allo stesso autore.

v. 8: «figora», ed analogamente al v. 10: «creatora» son lezioni caratteristiche del ms. B, che si sforza di dar sempre la rima perfetta. Non possiamo in questo caso non attenerci a questa unica fonte.

v. 34: «mettendone»; ma, leggendo, bisognerá sopprimere l’«e» finale.

v. 48. Intendi: «tutto il bene e niente (non fiore) il male.

v. 54. Intendo: C’è chi sia ricco e sia altrettanto ricco e senza alcuno che gli sia pari? Ma potrebbe anche leggersi: «Ricco cui e quanto è, senz’alcun pare?».

v. 62: «en fondo»; il ms. e il Val.: «e fondo».

v. 91 seg. Intendi: come mai ciascuno non piange («è... piangitore») di te e per pena cosí fiera?

vv. 93 segg. Il senso è: È forse ragionevole che, chi non vuol dolere della tua doglia, s’allegri della tua resurrezione, senza sostener con te la pena che è oltraggiosa? È stolto pensare che possa godere del tuo gaudio e meritare onte e tener danno chi cerca il suo vantaggio e il suo onore e non vuole aver punto affanni. Chi ha cuor valente non chiede mai valore senza dar opera in esso (senza operar lí).


XXXVI. vv. 43-44. Cioè: dopo la morte lo troverai grave al paragone. Il Val. spiega in nota «comperrai» come: comprerai; ma io penso piuttosto a «comparare». [p. 328 modifica]

v. 48. Cioè, che Dio ha convenuto, pattuito, promesso a chi è buono.


XXXVII. v. 18: «core»; l’emendamento è richiesto della rima al mezzo.

v. 21: «beni pugnando», si può forse intendere: propugnando, favorendo i beni, quanti giardini abbandonati tu rendi fertili di pomi saporosi, tu che sei maestro ecc. Il Val. emenda: «ben purgando».

v. 23: «fino»; la rima al mezzo richiederebbe: «fini». Ma vedi al v. 41.

v. 26: «rustica». Si deve certo scorgere qui un termine architettonico da accoppiare a «pilastro» del verso seguente. Ma «rustica» nel linguaggio degli architetti vale «bugnato», «intonaco» e non serve a sollevare cose cadute. Di qui il dubbio che si tratti d’una macchina rustica, come la «capra» od altra simile; ma mi mancano i riscontri sia nell’italiano che nel basso latino.

v. 25: «onn’», cioè «ogni»; il ms.: «on».

v. 35: «en ciascun»; il ms.: «eciascun». Il Val. emenda: «E a ciascun». Penso piuttosto all’omissione d’un segno d’abbreviazione.

v. 41. Manca la rima al mezzo.

v. 44. «e mendat’». Per avere la rima al mezzo bisognerebbe integrare: «mendato».

v. 65. Intendo: non nascondo, né getto affatto.


XXXVIII. v. 1. Sarebbe forse da correggere: «O beato».

v. 4: «suo». Sará da correggere: «tuo»?

v. 9: «santo tanto»; il ms. «santo santo»; il Val.: «tanto santo».

v. 16. Il soggetto di «toccare» è «om brutto» e non «magno ree»; di qui la virgola dopo «ree», che manca nel Val., il quale viceversa pone virgola dopo «brutto».

v. 27. Il Val.: «Riprendil; ché ben ecc.». Intendi: Se il mio scarso sapere è pavido di fronte al tuo alto valore, lo riprende colui che ben deve temere che un fanciullo entri in campo con un forte campione. E la scienza umana di chi, cioè: e c’è forse una scienza umana, che abbia potere ecc.

v. 36: «omo angel», cioè: uomo angelico. [p. 329 modifica]

v. 43. Intendi: e dai morti, risorti, fece dire la tua virtú.

v. 49: a chi molto ama poco sembra il far molto.

v. 52 segg. Intendo: il grande messaggio da grande a grande su di un grande affare doveva essere di uno dei maggiori cherubini.

v. 60 segg. Ogni animale desidera il suo simile e similmente desidera Dio chi si sforza di somigliargli; per cui tu che ti sforzasti ecc.

v. 67: «c’è sorgrande ecc.»: ce n’è una di prova stragrande e straordinariamente maggiore d’ogni altra e soltanto tua, che è maggiore e maggiormente perché mise in te ciò che fu in lui la cosa maggiore e migliore, cioè le sue piaghe.

v. 73. Il Val. emenda: «la via ch’ha a tener uomo». Intendo: la via, o uomo, sí è il tuo dentro, il tuo intimo.

v. 79: «piova». Il Val. emenda: «prova», ma si allude propriamente al miracolo della pioggia, di cui nella Bibbia, III Regum , XVIII.

v. 91: «a segno». Il ms.: «assegno», cioè: a ssegno, a segno, per il ben noto e frequente raddoppiamento grafico. Il Val. però non vede qui una locuzione avverbiale che significa: a perfezione; e crede che «assegno» equivalga a «segno». Ma l’oggetto di segnare è «ponto»; e come potrebbero essere ad un tempo e «ponto» e «assegno»?

v. 100: «parlatrici, e a bon». Il ms. «parlatrice abon», cioè: «parlatric’e a b.». L’«i» sarebbe, penso, caduto per un fenomeno grafico; e perciò non esito a restituirlo. L’espressione «a bon» vale: «nel miglior modo»; non le fece dunque soltanto parlare, ma parlare nel miglior modo.

v. 110: «pol», lo può? Il Val. spiega: puoilo; forse è da intendere: non può (pole) dirsi vero cristiano.

v. 134. Il senso è: sforzarci (pugnare) di seguire con ogni devozione te ed i tuoi.

v. 138. L’interpretazione dell’ultimo verso è ardua. Il ms.: «dea no chenon finire so cominciare». Il Val. evita la difficoltá rifacendo il verso di sana pianta: «Come si converrea a vostro pare». L’emendamento proposto («degno» invece che «dea no») conduce, con un certo sforzo, a questo senso: piaccia a te e piaccia ai tuoi perdonarmi se non vi ho lodato degnamente, perché non so finire il cominciare cioè ciò che ho cominciato. [p. 330 modifica]


XXXIX. Sul significato e il valore di questa ballata v. Eg. Guitt., 20-22.

v. 30: «loc’ove», oppure «loco ’ve»; comunque: lá dove.


XL. v. 6: «nocimento». Il Val. emenda, né si comprende perché: «non cimento».

v. 10. Intendo: Quando un uomo retto sostiene il male che merita, agisce onorevolmente, ma non è un onore grande.

v. 13. È omesso dal Val., ed è questa forse anche una delle ragioni per cui non s’è reso conto del senso. Anche nella stanza seguente il Val. omette il 13° verso, cioè il v. 33.

v. 24. Intendo: poiché ogni danno gli porta in mente un vantaggio.

v. 28: «se sa», si sa, cioè: sa a sé nemiche.

v. 33. Questo v., omesso dal Val., è il soggetto del periodo: Un grande e grave ministero mostra alla prova l’uomo di valore, perché l’uomo che è ben forte e grande vi finisce bene, n’esce bene, vi trova godimento, e vi si perfeziona; ma chi è, come me, debole e dappoco, n’esce come cera al fuoco.

v. 40: «ruina male», va malamente in rovina.

v. 50. Il v. eccede la misura, che potrebbe essere facilmente ristabilita emendando «operate» in «oprate».


XLI. Tutta la canz. offre difficoltá gravi di interpretazione. Il Val. ha cercato superarle emendando e rifacendo qua e lá versi interi. Tante e tali son le varianti che si è indotti a supporre ch’egli possa aver avuto presente qualche altra fonte. Volendo rimaner fedele al ms., unico, non s’arriva ad ottenere un senso senza sforzo e senza molte dubbiezze. Intendo: O conte Guido N., se un uomo sopporta in pace grandi ingiurie da un suo pari è molto, ma molto piú se da un suo minore, e di gran lunga piú se rende bene per male. E deve mai chi riceve talmente («tal») ingiuriare o non fare alcun bene di fronte a tanto bene? È cosa troppo maggiormente villana per chi è maggiore non studiarsi molto a rispondere col bene al bene; e quanto è piú villano rendere il male dal bene! E se un uomo avanza («anta») da altro uomo in tal maniera («tale»), quanto ha piú da Dio? Quanto piú egli è migliore, maggiormente brutto è sprezzare (?) l’oltraggio. Qual buono si deve dunque rendere del buono che Egli dá, a Dio, ch’è re dei re? Voi, ritenuto maggiore tra i maggiori [p. 331 modifica] e altrettanto discreto e retto quanto grande, sarete dunque indiscreto solo verso Dio, ben meritando e ricevendo grazie lá dove non c’è merito? Reputo vili, vani e vergognosi tutti i pregi di chi non è buono verso di Lui, che è sperimentato tanto buono; e chi è verso di lui buono, esso ha tranquillamente («queto») tanto buono quanto deve avere. Il brutto deturpa tutto e piú il bello. Perciò, di grazia, guardatevi di non deturpare e compiacetevi di gradire le grazie e i piaceri suoi, almeno quanto quelli degli altri; e non lo schivate, dal momento che vi vuole. Esso vi ha fatto molto di buono, ed ora fa anche cosa migliore, poiché vi ha di buon amore seminato nel cuore il meglio del bene. Coltivatelo bene; ma, poiché avrá molte contrarietá, temo che debba morire, se non lo collocate bene.

v. 30. Il v. dovrebb’essere settenario; e potrebbe emendarsi: «ché lo migliore amore».


XLII. v. 1. «Messer Petro ecc.». Il Torraca, Per la storia lett. del sec. XIII, nella Rass. crit. d. lett. it., X, 1905, precisa che Pietro fu legato apostolico della Massa Trabaria nel 1279 e della Romagna dal 1289 al 1291.

v. 15. Cosí il ms.; ma sará possibile una simile costruzione, nella quale «magno» dovrebbe riferirsi a «voi»? Il Val. perciò, spostando l’«in», legge: «Voi pregeria in sc. e virtú magno?».

v. 20: «rimagno», cioè: mi trattengo, mi astengo.

v. 23. Intendo: similmente non debbo dire il fedele amore ecc.

v. 33: «guaimenta». Il Val. legge: «e poi voi guaim.», cioè: e, poiché vuole, grida. Riferisce infatti la glossa del Sav.: «guaimentare spiegherei guaiolare, proprio di donna, che volendo partorire non può». Ma secondo la lez. del ms. «guaimenta» non è verbo, e penso significhi: lamenti, lamentele.


XLIII. v. 1 segg. Il senso è: Sovente vedo un qualche esempio, pel quale mi sembra che nulla sia da uguagliare all’onore. Perciò stimo saggio chi sopra ogn’altra cosa lo considera in sé, che esso vi stia.

v. 17. Nel ms. B, seguito dal Val., la stanza 3a precede a questa. M’attengo ai mss. A e C, perché la loro lez. è conforme all’ordine della trattazione, chiaramente espresso nei vv. 11-16.

v. 19: «avene» ha qui valore di: conviene, piace; nel v. prec. vale invece: avviene, deriva. [p. 332 modifica]

v. 20 seg. Intendo: ogni cosa alla quale l’onore non sia partecipe, non dá buon frutto; s’allontana (dalla via buona) e dimora e vive insieme con ogni bruttura.

v. 32: «regna», latinismo: regni.

v. 52. Intendo: che un uomo il quale sia valoroso, sia, come deve, giovevole alla gente.

v. 55 segg. Passo molto oscuro. Intendo: Dunque si vuole che assolutamente — e questo è tutto il fatto — guidi e conservi la misura e si attenga ai freni e valga tanto quanto deve valere; ché dal momento che cosí appare alla gente, si manifesta che il valore avvenga (provenga, derivi) di lá donde convenga (sia conveniente) il venire, per modo che ciascuno si volga ad ottenerlo.

v. 65 segg. Il senso è: Se io son saggio, per por degnamente fine al mio discorso, mi conviene ora trattare del conservar l’onore (conforme all’ordine predisposto ai vv. 11-16). Ma per avvicinarsi ad un porto veramente buono, dovrei esser ben abile nel dire, e non lo sono. Parlo cosí come so; e perciò non mi si riprenda, ma si guardi piú oltre di quel che io insegno.

v. 81 segg. Le tre strofe segg. di congedo mancano nel ms. C e solo le prime due sono nel ms. A. Come G. in un componimento ch’è senza dubbio da assegnare al secondo periodo della sua vita si rivolge con tanta deferenza e stima al conte Guido Novello, noto capo dei ghibellini di Firenze e di Toscana dopo Montaperti? Forse perché nel 1266 dopo la sconfitta di Manfredi Guido Novello cercò di placare gli animi, facendo eleggere podestá di Firenze i due frati gaudenti Loderigo degli Andalò e Catalano de’ Malavolti, il primo dei quali fu fondatore dell’ordine; e forse è da attribuire a questo periodo di buon accordo del conte Guido coi cavalieri di S. Maria la canz. con i primi due commiati, come si legge nel ms. A. Il terzo commiato potrebbe essere stato composto piú tardi, in sostituzione dei primi due, in un momento in cui i rapporti col conte Guido erano probabilmente meno cordiali. Il senso peraltro del primo commiato non è chiaro, specie nell’allusione del v. 90 a Corona, che anche il Val. stampa con la maiuscola, in quanto nome di luogo. Forse Monte Corona nell’Orvietano?

v. 83: « ’n sua via», nella via dell’onore.


XLIV. v. 23. Verso mutilo in entrambi i mss. Il Val. congettura: «dalla grazia divina in lor s’agenza», dando al vb. «s’agenza» un significato che non è il comune. [p. 333 modifica]

v. 29 segg. Intendo: essi intanto non debbon compiere quegli uffici («misteri» = ministeria) propri degli uomini del secolo, uffici che recan sempre acerbo tormento, perché ognuno ecc.

v. 54 segg. Intendo: dopo («poi») il tormento dura eterno, ché non suole fallire; né, d’altra parte, fallisce la gioia dilettosa dei servi di Dio.

v. 60 segg. Il senso è: Qui, in questo mondo, non senza gran tormento possono avere solo molto poco di bene; appresso, nell’altra vita, possono accorgersi se hanno buona ventura, se cioè si può considerar fortuna e bene perder quella ricchezza, ch’è d’un valore indicibile e che senza fallo dura eternamente. Colá dove non potranno aver rimedio alcuno degli eterni tormenti, lá sará conveniente aver potere. Oh Dio, come mi sembra terribil cosa fuggire il bene per dar ricetto al male!

v. 71 segg. Ad Orlando da Chiusi son dirette anche la canz. XVIII e la lett. XXI (Mer., pp. 263-278). Il senso del commiato, attraverso una non facile ricostruzione del testo, parrebbe possa essere il seguente: Ser Orlando da Ch., l’avere vi tiene in modo, che non vi allontanate punto dal suo piacere; per amor d’apparenza, perché abbiate a far buona figura, esso vi fa favorire e il mondo e Dio e vi fa dare a ciascuno la sua parte e ciò che basta in ogni cosa, cosí che vi fa ben stare al piacere di ciascuno. — Di fronte dunque a quelli che han posto ogni loro desiderio nei malvagi piaceri del mondo e, d’altro lato, a quelli che han posto in Dio ogni intendimento, Ser Orlando starebbe nel giusto mezzo, con un equilibrio che il poeta né loda, né disprezza. — Ma si potrebbe ottenere un senso completamente diverso accogliendo altre lezioni.


XLV. Si tratta probabilmente d’un frammento di canzone, di cui restano l’ultima strofe e il congedo.

v. 6: «mistero», cioè: l’ignoto, l’inesplorato, il difficile, perché soltanto questo incita il cuore a valere, e senza di questo anche il piú valoroso l’ozio avvilisce, cioè si avvilisce nell’ozio.

v. 11: «u’ non misteri». Il senso mi par questo: ove non sia l’ignoto, come potrebbe apparire il sapere? Solo nelle cose difficili ed oscure il savio può mostrare il suo valore, separando il vero dal falso, il buono dal cattivo. Cosí prodezza non avrebbe valore, se non ci fosse qualcuno con cui contrastare, né senza il contrario avrebbe valore la pazienza o la bontá. Dove non c’è il male non [p. 334 modifica] c’è bisogno di medicina e cosí nullo è il valore, quando non c’è nulla dove possa esser messo alla prova. Perciò chi vuol valere deve desiderare e cercare il lavoro al di fuori del quale un cavaliere non ha maggior pregio d’un villano.

v. 23 segg. Intendo: Amico, a cui intendo sia necessario aver contrasti da ogni parte, il vostro valore si vuol vedere alla prova («voi chere vedere») e vedere che cosa vai la sapienza ove non è pazienza, e vuol ben pagare d’onore, di prodezza e di piacere, secondo il valore di ciascuno. Vi piaccia dunque di sforzarvi; e valore e ingegno, non il buon principio, conducono ad un fine che sia soddisfacente e a Dio gradito.

v. 28: «e vol»; il Val. emenda: «emol».

v. 34: «ch’apiacenti», cosí risolvo, intendendo il vocabolo come verbo, cioè: che renda piacente; ma si potrebbe anche leggere: «ch’a’ piacenti ecc.» cioè: che piaccia ai piacenti ed a Dio. Il Val. modifica: «ch’appiacentir Dio piaccia».


XLVI. v. 29. Che qui manchino due versi ce lo dice la metrica ed anche il senso, ché non si conclude il periodo che comincia al v. 23.

v. 31. Il v. sospeso tra due lacune resta senza senso.

v. 33 segg. Intendo: non si dica che esagero nell’onorarti, in quanto tu non sei uomo di grande nascita; perché quanto piú uno viene dal basso, piú caramente lo pregio. Colui, i cui antenati furono («fuor») di nobile e valente condizione, se segue valore, gli è riconosciuto poco onore. Per giungere a questo senso, che mi sembra certo, ho variato del tutto la punteggiatura dei preced. editori.

v. 39 segg. Il senso è: Se dimostra valore il figlio di un destriero, non è cosa notevole; se non è (figlio di destriero) allora grande è la lode; ma se assomiglia a un ronzino, allora viceversa grande è la vergogna. Ma qual meraviglia è, qual grande cosa che abbia il valore di un destriero, se proviene da un ronzino! Al v. 39 il ms. ha: «se figlio de distrier uale»; ma la metrica richiede qui un endecasillabo e il Val. e il Mon. emendarono «se figlio de distrier distrieri vale». L’emendamento che propongo mi par s’addica meglio al senso.

v. 47: «or», oro: da stagno si muta in oro.

v. 49 segg. Intendo: In veritá non il lignaggio, ma il cuore fa il sangue (cioè la nobiltá), né il potere fa il vero merito, ma [p. 335 modifica] la virtú, e cosí la grazia e l’amore, per chi ben sa. Il pregio di colui di cui unico merito è la gente (il lignaggio) sta poco o nulla nel bene esteriore, ma nell’interiore; ché, dove lui non muove se non la lode o il biasimo (pregio o onta, considerati come beni esteriori), spesso l’alto casato, la stirpe e la ricchezza digradano in cupidigia di potenza in vanagloria e nel desiderio di star bene.


XLVII. v. 2. Si tratta del conte Ugolino della Gherardesca e di Nino Visconti suo nipote. Cfr. L. A. Bresciani, Intorno a una canz. di fra G. d’A. ecc., (in Prop. N. S., vol. IV, p. II, p. 5 segg.) e Pellizz. pp. 175-180, che assegnano questa canzone al 1284, dopo la battaglia della Meloria.

v. 9. Intendo: perché nullo è il valore della podestá e della dignitá in confronto di quanto è grande ed onorato d’ogni onore quello della bontá.

v. 14. Cioè: come si può dir meschino chi è grandemente buono?

v. 18 segg. Intendo: Se non ha grandezza di bontá con sé, se cioè non è accompagnata da grande bontá, la grandezza del potere non può nulla e non deve potere; chi è grande per bontá ha ben valore di per se stesso. La grandezza del potere conviene quando si opera fortezza, per cui sarebbe bene che ogni malvagio fosse debole e viceversa tutti i buoni dovrebbero esser potenti frenando i malvagi e adoperare il valore dando valore ai buoni. Perciò solo chi è buono deve quasi amare di esercitar la potenza, poiché in essa potenza è in grado di adoperar la bontá. E se non è per questo, cioè per operare il bene, perché sarebbe concesso il potere e che cosa varrebbe? Perché quanto a valere, non val nulla, cioè il potere in sé non ha valore. Perciò non è che colui che vale ami il potere, che considera nemico e lo annoia sempreché non voglia né sappia valersene.

v. 43 segg. Il senso, secondo la lez. data, che è conforme ai mss., è il seguente: non so quando la vostra bontá abbia, trovi stagione o cagione o ragione nel mostrare il vostro oro «a propio e paragone», cioè secondo le sue proprietá ed il suo valore, se non lo mostra bene e prodemente ora, aiutando ecc.

v. 56: «onn’om». I mss.: «anno», il Val.: «ad un». Mi sembra inevitabile l’emendamento, poiché dalla lez. dei mss. non potrebbe cavarsi che un «a no’», a noi, che non soddisfa. [p. 336 modifica]

v. 65. Cioè: dove voi avete tutto ciò che è vostro.

v. 84. Intendo: Donde viene che gli stranieri hanno avuto compassione di cosí grande malanno, laddove i figli non lo compatiscono? E si può dire che han cura di lei?

v. 96: «prode», cioè: «prodest».

v. 98: «ben restae», o: «bon restae», secondo I, cioè: sta, risiede, il bene, o il buono.

v. 100 segg. Intendo: Considerate dunque giustamente quanto in tanta aspettativa può essere a voi di onore o meno.

v. 109 segg. Cioè: non stimate che il buono soltanto possa dar l’onore e soltanto l’onesto possa dare utilitá: il diritto e l’onore si può senz’altro («lesto», subito) dire danno piuttosto che vantaggio, se ad esso è misto il disprezzo.

v. 126. Intendo: ridotti al nulla o ritornati dove erano prima di ascendere.

v. 130 segg. Il senso è: I Pisani, o signori, sanno bene che solo per opera vostra posson guarire.

v. 139: «mostri», cioè: si mostri.


XLVIII. Premetto una nota sulla metrica molto incerta di questo compimento, che è, anche per questa ragione, tra i piú ardui.

Lo schema metrico dovrebbe essere il seguente:

A B b C A D d C; F f G H i i H L l m m, n o o p p Q q N

e il congedo dovrebbe essere uguale alla sirima. Ma appunto il congedo ha una irregolaritá che si riscontra anche nella seconda strofa: F f G H i i G L l ecc.; e la seconda strofa avrebbe, secondo i codici, un verso in piú (v. 40), anormalitá questa che potrebbe peraltro facilmente emendarsi. Si noti ancora che, nella fronte, il sesto verso nelle prime due stanze è settenario, e non endecasillabo. Il v. 131 fu dal Val., conforme ai mss., diviso in due, cosí che la stanza risulta di 28 anziché di 27 versi. Inoltre le stanze 3 e 7 mancan ciascuna di una coppia di settenari. Nella st. 7 il ms. B omette un settenario (v. 180), che ci è peraltro dato dal ms. I, il quale è a sua volta lacunoso in altre parti della stessa stanza. Sará poi un puro caso che la rima della coppia di versi che precede l’ultimo di ciascuna stanza e del commiato concordi talvolta (stanze 1, 3, 5, 6) con la rima del verso undecimo (terzo della sirima), e nel commiato con il verso quarto, anziché col terzo? Nella stanza 2, come nel commiato, alla rima del terzo verso della sirima corrisponde quella del verso ottavo della sirima, rispondenza che invece è, come s’è detto, con gli ultimi versi nelle stanze 1, 3, 5, 6. Viceversa nelle stanze 4 e 7 il terzo verso della [p. 337 modifica] sirima rimane, come rima, isolato. Ora perché d’altro lato, rimando (sempre nella sirima) il verso 3 con l'8, non resti isolato il v. 4, troviamo che nella stanza 2 il v. 4, endecasillabo, è seguito da un settenario che con esso rima e che è fuori dello schema; e nel commiato la corrispondenza è con la coppia ch’è in ultimo. Lo schema della sirima varia pertanto nel modo seguente:

st. 1a, 3a 5a e 6a: F f G H i i H L l m m; n o o p p G g N
» 2a F f G H h i i G L l m m; n o o p p Q q N
» 4a e 7a F [f] G H i i H L l m m; n o o p p Q q N
commiato F f G H i i G L l m m; n o o p p H h N

v. 1: «vogliosa», cioè: che sia voluta.

v. 2: «sanando», cioè: a sanare; e cosí al v. 28: «spegnando»: a spegnere.

v. 10. Intendo: Il folle crede scusarsi accusando Dio d’esser ignorante ed iniquo.

v. 20. Cioè: ma dá aiuto e medici per sopportare la prova.

v. 22: «contrarii», contravveleni.

v. 39 segg. Intendo: ma se non vuol vincere de plano, senza difficoltá, come potrá volerlo quando occorra farlo con dolore ed afflizione? Laonde vana sarebbe la mia opera, se prima non sanassi la volontá. Ed è difficilissimo che nella gravosa opera di sanar la volontá, s’abbia in schifo ciò che si ama; non si riesce facilmente ad odiare ciò che piace. Onde nessuno ardirebbe dire di guarire, ma di assegnarsi un dovere col dono di Dio, intendo dire qualora Iddio sani quel potere, cioè la volontá; ma il matto fugge il suo bene. Ahimè! S’è inimicato col saggio, s’è fatto amico se stesso, se esso fugge, egli gli tien dietro stimolandolo e lo afferra e lo trattiene validamente.

vv. 39, 40. La metrica richiederebbe qui un sol verso e non sarebbe difficile proporre: «ma se non voi di pian, como afrigendo», oppure: «ma com vorrá, sé afrigendo omo?». Ma v. sopra le considerazioni sulla metrica.

vv. 81-84. Intendo: Sarebbe non poco sconveniente per un buon banchiere comperare per una libbra d’argento un vetro qualunque. E non è cento volte peggio dare il suo, se stesso e Dio?

vv. 102-106. Versi oscuri, dai quali non so se sia lecito trarre questo senso: l’uomo, pensando di onorarsi, si copre di onta operando il male invece del bene; e chi può altro che disdegnare che il buono e il senno facciano il male o per il male? Il buono vuol esser fatto bene e per il bene. [p. 338 modifica]

v. 107 segg. Seguendo il ragionamento che s’è proposto in principio (cfr. vv. 41-42) di guarire in primo luogo la volontá, gli sembra d’avere talmente mostrato il male d’amore e che il bene è anche peggiore dei mali, che gli uomini non bestiali dovrebbero ormai desiderare, volere la guarigione, e gradire di curarsi. Ma nel suggerire la cura ha bisogno che Dio stesso lo illumini.

v. 118. I mss. sono concordi nella lez. data, che potrebbe forse significare: servire correttamente e chiedere di onorare la gente.

v. 177-184. La lez. di questi versi è incerta, ma il senso parrebbe questo: Un regno non si regge bene, quando il somiero cavalca il re: servirlo e onorarlo è non pregiar nulla i re. Ma — al di fuori della similitudine — la voglia che domina sulla ragione, il corpo che domina sullo spirito è di gran lunga peggior cosa che un manchevolissimo servo domini in sé da libero, si regoli, cioè, da sé liberamente, e domini un re, chiamandolo vil servo.

v. 193. Il senso è; Tu ami il corpo; qualora esso sia malato, ti sforzi di sanarlo lá (dove langue).

v. 194: «che non logni», cioè: che non s’allontani.

v. 203. Intendo: Il meschino fugge i frutti acerbi e non fugge il veleno, gustandolo, cioè, perché lo gusta.


XLIX. v. 7. Forse la lez. guittoniana è rispecchiata piú esattamente dai mss. B C: «ch’eo conto onta e gr.»; ma la lez. di A prescelta dá maggiore vivezza al trapasso.

v. 33: «ten», cosí i mss. e potrebbe anche dividersi: «t’è ’n» (Val.: «ti è in»); ma mi sembra che qui si debba intendere: per quanto ha di danno, per quanto è dannosa.

v. 36 Il senso è, credo, sicuro: e amare ogni pena che serva a combattere il vizio. Non è però sicura la lezione. Abbiamo seguito A che legge: «ellui consumare ecc.», con la risoluzione di «ellui» in «enlui», «e ’n lui» che non offre difficoltá alcuna. Ma B ha: «e amar sempre a consomar l’afanno»; e C: «e amar sempre in contrastarli afanno». Le note relazioni dei mss. B C vietano di dare importanza alle loro concordanze; ma «consomare» è valorizzato dall’accordo di A con B. Si potrebbe tuttavia trarre da B e C la lez.: «e amar sempre in contrastarli affanno», come appunto fa il Val.: «Ed amar sempre in contrastargli affanno».

vv. 40-41. Questa terza strofa è sovrabbondante di due versi e in questa imperfezione concordano tutti i mss., i quali pure [p. 339 modifica] concordemente al penultimo verso della strofa hanno una rima in «otto» che resta isolata. Si presentan come possibili due emendamenti: o si espungono i due versi 40, 41 (la coppia «paradiso: ucciso») e si cambia al v. 49 «a un(o) sol botto» in «a una sol botta»; oppure si espunge la coppia seguente: «tutta: addotta» (vv. 42, 43) rimaneggiando il v. 49 cosí: «ma tutti ad un sol botto ha vizio auciso». Il Val. conserva la coppia «paradiso: ucciso», ma corregge del pari il v. 49 in questo modo: «ma vizio ancise tutti a una sol botta». Può darsi che allo stesso Guittone sia sfuggita codesta irregolaritá metrica, ma può anche pensarsi ad una aggiunta. Comunque ho conservato i due versi 40-41, ponendoli tra parentesi quadra.

v. 51. Il senso è: solo il peccato è male e solo la virtú è bene; «che» vale: fuorché.

v. 54. Cioè: cosí come ogni cosa è resa penosa dal vizio.

v. 55: «è»: cosí A C; B invece legge: «a», donde la lez. del Val.: «Solo a vertú di Dio lo gr. st.». Potrebbe anche interpretarsi l’«a» di B come verbo: la virtú ha, occupa, tiene lo stato di Dio; ma come preposizione non dá senso. Tuttavia mi sembra che qui si dica che lo stato di Dio è virtú e ch’Egli nella virtú creò e nella virtú governa cielo e terra.

v. 58 seg. Cioè: la virtú essa sola premia nell’uomo l’onore e l’amore. La lez. di A: «merita en amore» condurrebbe a quest’altro senso: è la sola che nell’uomo premia l’onore in Dio, dá premio all’onore nell’amor di Dio.

vv. 97-98. I mss. danno i due ultimi versi della strofa in questo modo: «odio, brobio, dannaggio ed onne rio (A B: reo) per diletto ch’è van, brutto e mendio (A: mendico). Ma la rima del v. 97 deve secondo lo schema metrico concordare con la coppia: «nemico-amico» dei vv. 90 e 91. Perciò il Val. che lascia i versi nell’ordine dato dai mss. e accoglie la lezione «mendio», introduce l’emendamento: «... dannaggio, ogni reo dico». Ho ritenuto partito migliore per evitare l’imperfezione metrica, cambiare l’ordine dei due versi, dando la preferenza al ms. A per la lezione «mendico», che varrebbe: «deficiente, miserabile» (e per questo concetto di miseria cfr. il v. 113), laddove «mendio» significherebbe: «mendoso, vizioso».

v. 99: «Molti ghiotti son, molti; ma...». È la lezione di A; gli altri mss., seguiti dal Val.: «Molte genti son matte, e...». Certo senza l’ «e» in luogo di «ma» si ha un’ipermetria [p. 340 modifica] incorreggibile nella lettura; e tuttavia senza «ma» il senso non risulta compiuto.

v. 124. Credo si debba intendere: ed è pericoloso piú di qualsiasi altra cosa odiosa.

v. 127. Cioè: ritengo che sarebbe pietá esser verso di lui crudele.

v. 146. Intendo: saggia, se bene osserva ogni cosa, stando in guardia.

v. 162. Il Val.: «Non s’addiria al mistero, o dire oscuro», intendendo: «dir poco o dire oscuro di gran cosa non si converrebbe al bisogno». Ma il poeta parla qui esclusivamente della lunghezza del suo «trovato», e se ne scusa osservando che un discorso piú breve non sarebbe stato conveniente a tanto importante compito o sarebbe stato poco chiaro. Perciò credo di dover escludere il «dire» che il Val. deriva dal ms. C, laddove gli altri mss. hanno «dicie»; e quanto al «dicese», lezione di A (B: «si dire»; C: si diria») non si può non accoglierlo, quando si sia accolto «dice».

L. Questo principio di ballata è dato unicamente dal ms. C sotto la rubrica: «fra Guictone dareço» e in seguito ad altre canzoni del medesimo; e non credo possa cader dubbio sulla autenticitá, che non si desume soltanto dall’autoritá di quel codice, ma anche all’affinitá di contenuto e di forma con altre rime del nostro (v., per es., il n. XV). L’interruzione al v. 8 è dovuta alla mancanza d’un foglio del ms.