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annotazioni alle canzoni ascetiche e morali 321


sirima dell’intera strofa. Ma quel che segue è diviso in due parti, la seconda delle quali manca nel ms. C ed è metricamente alquanto irregolare.

v. 217: «chero» Rimango fedele al ms. Ad evitare l’ipermetria chi legge può sopprimer l’«o» finale.

XXX. v. 5: «stenda», esplichi, dimostri che non è vero che sia piú facile fare il male che il bene. Cfr. canz. XXV, v. 81.

v. 13. Cioè: assapora come dolce ciò che è buono e come amaro ciò che è cattivo.

v. 17: «a sano». Il Val.: «ha sano»; ma credo che il senso sia questo: cosí come bene avviene in realtá nel palato corporeo da un sano a un infermo e come avviene nel giudizio di un saggio rispetto a quello di un non saggio.

v. 19 seg. Intendo: una prova vera, esatta del buono può esser fatta soltanto da colui che giudica essendo buono, sano e sapiente.

v. 21 segg. Chi è piú buono conosce in miglior modo il buono e, come lo conosce meglio, meglio lo ama, perché ama ciascuna cosa rettamente, giustamente, secondo che essa vale.

v. 29. Oh, quanto il dolce è in essa dunque straordinariamente dolce! E se ciò che è buono è talvolta affannoso, chi è buono non lo evita giá, ma lo desidera ancor piú.

v. 33. Il Val. pone un «;» dopo «vil» e unisce la seconda parte del verso con quel che segue, senza che, a mio giudizio, ne risulti un senso. Io intendo: «l’uomo prode chiede di combattere piuttosto con un prode che con un vile, che non vuol mai (cioè che non vuol mai avere come avversario): il valore si procaccia e il merito si consegue lá dov’è il valore». Vien fatto peraltro di pensare che invece di «vole» sia da leggere «vale»; ma poiché anche «vole» dá un senso, non oso variare la lez. del ms.

vv. 35-36. Il senso risulta chiaro pur attraverso il costrutto singolarissimo: Oh, quanto poco è certo gravato il corpo, ecc.

v. 42: «è»; il Val. «e», intendendo «fore» come verbo; nota infatti: «fora dal latino foret». Ne risulterebbe questo senso: «Per chi è buono non ha sapore, non è gustoso, non piace ciò che non è buono, né a lui sarebbe adatto e buono il suo sapore cosí come certo è a noi»; ma il secondo verso sarebbe cosí una perfetta e quindi inutile ripetizione del primo e non si comprenderebbe la ragione del porre in contrasto «noi», cioè se stesso