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giá gaudere ecc.». Ora la metrica ci dice che i vv. 141 e 142 dovrebbero essere il primo endecasillabo e il secondo settenario rimati tra loro e indipendenti dal resto. La ricostruzione che propongo non mi lascia del tutto soddisfatto, ma s’attiene quanto piú è possibile alla lez. di C, sopprimendo peraltro «stare» al v. 141 e «senza se homo» al v. 142 È logico ammettere che, data la ripetizione di alcune parole voluta dal poeta, l’amanuense di C abbia potuto confondersi e ripetere erroneamente una volta di piú le parole: «stare, senza, homo». Il passo viene cosí ad avere la seguente significazione: come può stare l’uomo solo senza un amico buono? E come può l’uomo, stando solo, sopportare il male? L’uomo solo nel godere trova la sua ricchezza, ma non la gioia; e da solo è maggiormente grave sostenere pericolo e morte.

v. 148 segg. Intendo: Con quanti egli voglia essere, per quanta gente possa pure avere dintorno, dico che, senza un amico, l’uomo è pur sempre solo; e viceversa con un amico anche un piccolo bene è grande, ed il male piú feroce è lieve. Al v. 151 la lez. «è ’l trafero» deriva da B; C ha: «ol traf.». Il Val., capovolgendo, a mio giudizio, il senso: «E mal parvo è trafero E grave u’ sono amici; esser può male ecc.».

vv. 152-153. La lez. data deriva da B. Dividendo e punteggiando come ho fatto, il senso risulta chiaro, avendo presente che «a giusto» è espressione avverbiale e vale: giustamente.

vv. 157-165. La metrica di questa strofa è stata compietamente sconvolta dal Val., che nei primi versi ha abbandonato le fonti, ricostruendo e congetturando senza fondamento alcuno. Ai vv. 159 segg. intendo: amore non genera che diletto e non genera diletto al di fuori della bontá. Allontani dunque ognuno da sé ogni cosa che sia spiacente al piacere dell’amico, e adduca ogni cosa gradita.

v. 176. Il Val.: «D’utele è diletto; e vieti f.».

v. 200: «spegnare» lez. di B, che preferisco a «spresiare» di C perché, se anche la forma non è comune, risponde meglio al senso, che mi par questo, in relazione a quanto è detto sopra, specie nei vv. 192-195: non è certo buono peccare, ma è buono che, sia il folle sia il saggio, si adoperino a rintuzzare, sopprimere, spegnere il vizio.

La stanza che qui si chiude deve considerarsi come un primo commiato: lo schema corrisponde infatti, come d’abitudine, alla