Rime (Guittone d'Arezzo)/Annotazioni alle canzoni d'amore

Annotazioni alle canzoni d’amore

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Guittone d'Arezzo - Rime (XIII secolo)
Annotazioni alle canzoni d’amore
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ANNOTAZIONI ALLE CANZONI D’AMORE


I. v. 30. Il Pell., ponendo punto e virgola dopo «sofferire», continua: «ma che lo meo guerire è stato co’ schermire» e spiega: «Se non che io resisto, schermendomi con ogni mia possanza dall’impeto di questa gioia»; ma non vedo come questa spiegazione possa derivar da quella lezione. Ci sembra che i due versi significhino: Avrei potuto morire di gioia. Ma che? Mi son salvato, la mia guarigione è avvenuta schermendomi.

v. 36. Il senso è: quando m’avvedo che la gioia sovrabbonda, immantinente mi accorro, vengo in aiuto e soccorro con un dolore, cioè a dire contrapponendo alla gioia un dolore, quello che io credo sia maggiore della gioia stessa.

v. 60. Per la lez. di questo verso v. Not. I.

v. 75: «ché zo volete». I prec. editori, uniformandosi al ms. C: «ciò (zo) che v.». M’allontano da loro e, seguendo i mss. A B I e richiamandomi ai vv. 66 e 68-69, intendo: fatemi voi (come vi pare) perché ciò che voi volete è anche la volontá mia appunto secondo le leggi della perfetta amicizia. E continua: (se non potrò rimeritarvi) mi è di conforto il fatto che il servo può tanto piú esser utile, quanto piú è tenuto in alto dal suo signore. Quanto all’Autore esso è senza dubbio Sallustio (Cat. cap. 20); ma il Nannucci (Manuale I, 167) forse non a torto pensò che G. abbia conosciuto quel passo attraverso S. Gerolamo.

v. 84. Il Val e il Pell. hanno: «ché voglia e fe’ tal dia fatto v.»; e il Pell. spiega: «perché buona voglia congiunta a fede sincera deve valere a lui tal fatto; cioè: voglia e fede devono insieme cospirare per valergli (fargli meritare e ottenere) il fatto suesposto, che è l’assunzione alla grazia di Dio». Seguo la lez. del Torraca (Manuale I, 43), il quale spiega: «nella magione di Dio non entra l’uomo, a parer mio, solo perché faccia ciò che è prescritto, ma [p. 292 modifica] perché fede schietta e volontá grande e piú le buone azioni lo aiutano e fanno salire, perché tale volontá, tal fede Dio ha fatto valere».

v. 105. Col v. 105 termina la canz. nel ms. C; nel ms. A segue il congedo; ma i mss. B I introducono tra il v. 105 e il congedo i seguenti versi:

Una statova ho, donna, a voi sembiante
che li me sto davante
si como l’omo face a la pentura
de Deo, en sua figura;
e rendo lei, per voi, grazia e onore.

Li pongo qui in nota, come giá fecero il Nann., il Torr. e il Pell., perché, anche se autentici, non possono esser considerati se non come un frammento d’altra stanza o d’altro commiato; ma estranei, cosí come sono, al senso, sia di quel che precede, sia di quel che segue, e ripetendo un motivo trito della lirica cortese, costituirebbero un inutile ingombro.

v. 106. Per Corrado da Sterleto dice il Torraca in «Studi marchigiani» (1905-1906. p. 57 seg.), che «possedeva feudi nel contado di Senigaglia, fu ghibellino caro a Federico II e a Manfredi; ma il suo gran «pregio» gli meritò la stima del guelfo Guittone d’A.». Ma forse quando Guittone scrisse questa canzone non era il guelfo che poi divenne: era nel tempo della... colpa.


II. vv. 7-8. Intendi: Sopporta la follia che mi costringe a dolermi di te e ad esporti le mie ragioni.

vv. 9-10. Cioè: Sopporta per cortesia la mia follia che mi induce a querelarmi di te; e dopo, se riconosci che ho ragione, dammi occasione di soffrire, di sopportare cioè quelle pene amorose che sono l’unica fonte del bene d’amore. Per la lezione e spiegazione di questi versi e di tutta la canz v. Post. e Not.

v. 17 segg. Il senso è: non posso comprendere come, con il solo chiamar mercé, tu prometta loro assai meglio (che a me): ti son dunque tanto a schifo?

vv. 38-40. Intendo: appunto perché sono facilmente accolto da madonna, non mi sembrerá mai ‘forte’, cioè arduo e quindi degno frutto di fatica e di pene, goder di lei.


III. v. 21: «se»; cosí il ms. A. e il Val.; B e il Pell.: «sí». Il Pell. spiega: «siete sí fattamente altera, che non vi lasciate [p. 293 modifica] signoreggiare né da cortesia, né da sapere; e perciò non v’accorgete che è del tutto impossibile che l’uomo si trattenga di guardare lá dove natura sparge bellamente ogni dolce piacere, senza mancamento alcuno, cioè nel vostro viso». Mi pare piú naturale intendere: non han posto in voi cortesia né sapere; la vostra alterigia vi impedisce di dar loro importanza, se non v’accorgete ecc.

vv. 30-31: «ed alcun... ché vago,». Il Pell.: «e d’alcun... ch’è vago;». V. le ragioni della lez. prescelta in Post. II. Intendo: Non dovrebbe mancare in voi cortesia, e cosí io che vi amo finirei dal penare e nessuno avrebbe timore di guardarvi, cosí che vivrebbe contento e soddisfatto di questo soltanto.


IV. v. 15 segg. Intendo: quando ebbi desiderio di voi ero di cosí piccol tempo, cosí giovane, che non m’è sembrato punto d’aver veduto cosa alcuna prima di voi né dopo, che mi fosse altrettanto gradito di servire ed amare; ché altrimenti una donna superiore a voi in bellezza e in nobiltá mi procurerebbe ora gioia senza tanto lunga pena.


V. v 2: «fino amore»; il ms. B ha «fina amore», facendo «amore» femminile, alla provenzale; cosa non impossibile specie in un componimento in cui G. imita, piú che altrove, la maniera provenzale. I mss. A ed I hanno «fino», il Pell.: «fin».

v. 5: «beni»; il ms. A e il Val.: «pregi». Il senso è: credo di non sentir mai gravezza, affanno («pesanza»), in quanto è sempre soverchiata da cosí grande abbondanza degli squisiti beni d’amore, ch’io potrei gioire sopra ogn’altro.

v. 11: «rapente»; il ms. A: «repente». Il senso è: non è guidato da buon discernimento chi vuol prendere (rapire, «star rapente») oltre le sue forze.

v. 13: «mant’ore»; il ms. A: «man core», sulla qual lez. v. Not. 3. Intendo: Un travolgente desiderio mi ha occupato per lungo tempo, o caro amore, di andar pieno di te. Perché nessun’altra usanza (relazione) mi avrebbe potuto far prendere degnamente quella grande ricchezza che agogno? Ora questa ricchezza, sebbene me l’abbia data in arbitrio, l’abbia messa in mio potere un grave errore, l’ho raggiunta, la posseggo degnamente, ché al di fuori di ciò sento che il mio cuore non potrebbe punto sopportarla. [p. 294 modifica]


VI. v. 1: «mi strugge»; cosí B I; A: «mi stringe», forse per analogia col principio dell’altra canz. XXIII che in quel ms. segue a questa immediatamente. La lez. di B I è suffragata dall’ugual verbo che ricorre al v. 24.


VII. v. 24: «lo coso», cioè: lo accuso; ed è lez. concorde dei mss. A B I; ma C ha: «luctoso», donde il «luttoso» del Val. e il «lottoso» del Pell.

v. 28. Cfr. pel concetto i sonetti del Trattato d’Amore (son. 240, segg.). Sull’interpretaz. dell’intera canz. v. Eg. Guitt., 7-10.

v. 82: «pro», cioè prodi; al v. seg. «pro» vale invece «prode», vantaggio.

v. 89 seg. Il Pell.: «Como che venta pei’ che perta a gioco ecc.». Intendo: perché chi ha vinto è peggio che perdita al gioco, a mio giudizio; e in conseguenza ho di che biasimarti e di che lodarti: debbo biasimarti del fatto che mi hai indotto al gioco, nel quale ho fatto grandi perdite; e debbo lodarti di non avermi fatto vincer mai, perché giocando avrei collocato in te tutto il mio cuore; ed ora posso dislocarlo, allontanarlo da te.

v. 101: «ma». Il Pell.: «m’á»; credo che il verbo possa sottintendersi, poiché è nella prop. precedente, coordinata.

v. 103 seg. Intendo col Pell.: «perché non ho pesato un sol «grano» (peso impercettibile) del «marco» (peso grave) del tuo mal fare».


VIII, v. 5. Il «novel sono» di questo «trovare» sta nell’introduzione di un novenario e di un ottonario tra gli endecasillabi ed i settenari. Il Val. s’era sforzato di ridurre i novenari ad endecasillabi e gli ottonari a settenari; il Pell. con opportuno esame delle lezioni riconobbe la vera misura dei versi.

v. 6 segg. Questo ed altri passi della canz. sono stati da me esaminati altrove: Eg. Guitt., 15-18, sia per la lez. che pel significato.

v. 23. Il Pell.: «ed altra», pur spiegando: «e (modo) di gioire in altra parte». Il senso è: quando due persone amiche stanno lontane e son dolenti del fatto che è loro offerta l’opportunitá e causa di fallire e di gioire d’altra parte, allora appare, allora si rivela il cuore del perfetto amante.

v. 33. Per riscontri provenzali cfr. E. Levi, Studi Rom. XIV, 134, Pellizz., p. 101 e N. Scarano in Studj di fil. rom. VIII, 25.

v. 41: «me sdicete», cosí il Pell., seguendo i mss. B I; e mi [p. 295 modifica] sembra giustamente, sebbene avessi giá (Gloss., p. 563) pensato a un «misdicete» (afr. «mesdire»), che peraltro non dovrebbe avere l’accezione comune di calunniare, dir male, ma quella di disprezzare. Forse si potrebbe anche dividere: «m’isdic.».

v. 45: «posso», cosí i mss. A B I e il Val.; il Pell.: «possa», seguendo C; ma non vedo la ragione del congiuntivo qui, dove, «secondo el parer meo», non si vuol far cadere ombra di dubbio sulla speranza; e tanto meno ha ragion d’essere il congiuntivo nell’analogo «mostri» del v. 48, che pure il Pell. trae dal ms. C, di contro al «mostra» degli altri mss.

v. 50. Il Pell. intende «aporta» per sopporta, facendone soggetto il cuore e oggetto la noia; ma il Par. giustamente osservava che può anche valere: importa, è necessario. Ho perciò posto fra due virgole «quando aporta», intendendo: valoroso cuore non si rivela nel saper sopportare gioia e piacere, ma nel saper sopportare, quando è necessario, noia assai, lá dove ogni vil core si perde e si sconforta.

v. 52. Accolgo la lez. dei mss. B I, interpretando: E perché m’affanno in acquistare? Io veglio solo ecc. E l’affannarsi è in relazione alla noia, nella quale si prova il cuore valoroso; e quanto ad «acquistare» non mi par dubbio che valga acquistar pregio, aumentare e migliorare il proprio stato. Nota la corrispondenza col v. 30 e con la strofa seguente.

vv. 61-65. Il passo contiene una sentenza che G. non disdegnò citare nella lettera morale diretta a Bacciarone (cfr. Mer. p. 331). Il pensiero è chiaro: chi è abituato al piacere non ne conosce il valore; ma, se sopporta il male, quando ritorna al bene, ne gusta il sapore piú che non creda.

v. 74: «ch’ho». Il Pell., preoccupato di dar la giusta misura al verso, emenda: «ch’[aggio]». Mi sembra minor male lasciare l’irregolaritá metrica.


IX. v. 2: «tutto» è lez. di I; i mss. A e B, il Val. e il Pell.: «tuttor».

v. 8: «selvaggia»; potrebbe anche preferirsi la lez. di A: «malvagia».

vv. 12 segg. Per la significazione che può assumere questo passo e tutta la poesia, si veda Eg. Guitt., pp. 12-15.

v. 20: «fallio», cosí il ms. A; ma B ed I hanno: «falli» e il Val. e il Pell.: «fallii». Accetto la lez. «fallio», forma della [p. 296 modifica] prima ps. del pf., che ha riscontri in testi toscani, come nel Detto del gatto lupesco e nel Tesoretto di Brunetto Latini, dove è pur confermato dalla rima.

v. 30: «in lei», conforme al ms. A che ha: «illei», secondo la ben nota grafia. I mss. B I e il Val.: «né lei»; il Pell.: «né lei». Il pensiero del poeta è tutto rivolto alla donna: della sua lontananza e del suo disdegno egli si lamenta: pensare che in queste condizioni potrebbe esser consolato da altre persone, da altri amici, al di fuori di lei, mi sembra un rimpicciolire il concetto, che sarebbe appunto questo: sono lontano da ogni bene, qua, dove non ho in lei l’amico che mi soleva trar fuori da ogni pena.

vv. 46 segg. Intendo: che è tenuta «a non peccare», cioè è tenuta lontana dal peccare dalla sua «conoscenza», cioè dalla sua assennatezza, cosí come la natura angelica è lontana dal peccato per la sua «non potenza», cioè perché non può peccare, in quanto è cosa contraria alla sua essenza; e questo accade perché i suoi usi e la sua natura l’hanno arricchita d’ogni pregio, ed essa tiene lontano ogni difetto. Per questo la speranza me ne ha promesso il perdono. Al v. 51 i mss. hanno: A: «da se»; B I: «essa». Il Val. e il Pell. emendano: «d’essa», interpretando: la natura ha tenuto lontano da lei ogni male.

vv. 53-65. La prima parte della stanza è chiara: Io ho fiducia nel perdono, tanta è la ragione che di esso perdono mi dá (mi assegna) la speranza; ma il mio cuore non osa chieder mercé, finché io sopporti la pena tanto che sia emendato il mio fallo. Ma a questo punto cominciano le incertezze. Il Val. rimaneggiò il testo arbitrariamente, il Pell. ne dette una lezione che il Par. definí una trovata, pur discordando nell’interpretazione, tentata anche dal Pellizz. (p. 114). Intendo: Non soffro per la smania di ritornar subito presso di lei, purché vada a finir bene; ma poiché mi trovo in un luogo nel quale un uomo può rimeritare dopo il fallo, come si fa appartandosi in un deserto, io qui resterò a soffrire fino a quando non sarò certo di aver cancellato la colpa.

v. 71: «e voglio», cosí B, I e il Val.; il Pell., seguendo A: «o’ voglio», interpretando l’«o’» come «ove (nel qual caso)».


X. v. 1: «mante», cosí I; A e B e gli editori precedenti: «manta».

v. 4: «pande», cioè: manifesta. Il Pell.: «che trovasi in colpa palese». [p. 297 modifica]

v. 5. I mss. hanno: A: «como noncolpa», B: «com non c.», I: «como nol c.». Il Val. e il Pell.: «com no ’n c.»; ma sará piuttosto da dividere: «c’om no ’ncolpa» o «ch’om non c.», lezione chiarita dal ms. I, cioè: che non si incolpa, senza che alcuno lo incolpi, senza essere incolpato.

vv. 6-12. Per la lez. e spiegaz. del passo v. Postille, III. La lez. data è conforme ai mss. eccetto per «piache» del v. 11, corretto in «parte». L’amico prof. Quadrelli mi suggerisce un emendamento audace: «plaghe». Il senso è: mi trovo in entrambi i casi suddetti, perché mi si attribuisce un gran pregio per cose che non ho né mi è dato trovare neppure in parte; ed anche non si pensa che io vado lá dov’egli non pensa («dispensa»), e mi sa buono, ci sto bene.

vv. 16-18. Il Pell. dichiara di non esser riuscito a rivelare il senso di questi versi. Sará forse da intendere: ch’io lo so per veritá che esso, cioè il bene, non verrá verso il freddo, non si raffredderá, senza «tener fior stroppo», senza aver punto un germoglio. Ma bisognerebbe ammettere che «stroppo» stia per «streppo», metatesi di «sterpo».

v. 29: «ciò che — spiega il Pell. — ha in obbligo di credere; oppure anche: sebbene veda spesso ciò che, in quanto a credere, ha officio (di far credere)».

vv. 39-40. Il Pell. nota che lo schema metrico richiederebbe qui una rima diversa da quella dei vv. 37 e 42. Perciò egli ha creduto di emendare: «pro[e]: tro[e]», propendendo anche per un emendamento piú radicale: «prove: trove». Tuttavia, per quanto il troncamento «tro» per «trova» sia quasi inconcepibile, non ho creduto di variare la lezione dei mss.

v. 41. Intendo: che altro mi muto, cioè divento altro, a seconda del momento.

vv. 47-48. «Giá le ciarle — spiega il Pell. — non «me ne tolgono in preda», non mi rapiscono nulla di quanto possiedo».

v. 54 seg. Intendo: perciò, se ha luogo, cioè se conviene render grazia per un tal servigio, volentieri io la rendo a loro.

v. 57: «non prendan molla». Il Pell. si richiama al senso che conserva in alcuni dialetti il vb. «mollare», cioè «cessare, restare» e spiega «molla» come un astratto, coniato su questo verbo. In sostanza spiega: «non cessino mai». Il Val. riporta la chiosa del Salvini: «molla = mole, fastidio»! Penso che «molla» abbia qui valore di: impulso, come giá spiegai nel Gloss. p. 563. [p. 298 modifica]


XI. v. 4: «mo», cioè: ora, in queste condizioni, nello stato in cui mi trovo.

v. 6: «credere a tacca»; l’espressione fu giá spiegata dal Pell. e vale: dare a credenza notando con intacche, come suol farsi dagli analfabeti, su di un pezzo di legno il numero delle cose date. Quindi, in sostanza, la frase varrá: esporsi al pericolo della mercatura.

vv. 13 segg. Di questo passo oscuro ho discorso in Post. IV. Il senso mi par questo: Ho diritto d’esser rimunerato perché ho servito. Ma questo servizio non è gravoso, è fonte di piacere per me («eh, che piacere duco!»). Ho dato alla donna un amore d’anima che mi prende piú di quel che non prenda l’amore per se stesso. Non ostante dunque il piacere, si tratta d’amore altruistico: ed è bene che essa lo sappia («ciò dia saver»), perché non avvenga ch’essa gli tolga il suo gran pregio, del che egli avrebbe onta grande. Ella m’ama, sí, ma per me è il doppio meglio cosí, cioè rimanendo nel dubbio e nell’attesa di quei benefici che gli sembra giá di aver raggiunto per la gioia stessa d’amare e perché si è comportato in modo d’averne diritto, di quello che sé li avesse giá conseguiti.

vv. 25 segg. L’amore giova all’uomo, che ama pregio ed è potente, piú di quanto non giovi il leggere in iscuola; perché è piú agevole passare il Po senza «scaule», di quel che non sia all’uom prode passare nella vita senza amore, che dá coraggio e pone nella necessitá di mettere a prova il valore e la forza; perché l’uomo che abbia briga o travaglio, anche se vale, non varrebbe giá senza di ciò, cioè senza amore. L’espressione «passar senza scola» è stata chiarita dal Par., richiamando un articolo del Cecchetti (Arch. Ven. N. S., XXX, I, p. 151 segg.) sulle «scaule» veneziane, a proposito del v. 96 del XXXI canto del Purgatorio.

vv. 40 segg. Intendo: perché per raggiunger la gioia che è tale, che non odo ve ne sia altra pari, valgo assai di piú («travaglio») di quanto varrei, se questa gioia potessi tenerla a mia disposizione sempre, con tutto mio agio. Quando l’uomo ha tutte le gioie, varrebbe, ma non vale ormai piú, disdegnerá il grande agio, perché una tal gioia è un vile male. Riposo e lavoro misto, dato e tolto in buona maniera, mi è sempre gradito; e di ciascuno me ne sto a modo, mi compiaccio cosí da averne grande appagamento. E val piú, mi sembra, quanto piú del miglio vale il [p. 299 modifica] riso, sperare qualcosa dall’amica piuttosto che averla, perché dopo che l’ha ottenuta, non ne ha una sola briciola, in confronto di quel che sperava averne; e dall’estate piomba nell’inverno. So che il mio dettato sembra oscuro; ma so anche che parlo a chi si intende con me, e che il mio ingegno mi dá modo di provarmi in ogni maniera, e ne ho voglia. Muovi subito, o canzone, e va in Arezzo a lei, da cui tengo ed ho se mi provo in qualcosa di buono (il Pell. invece: ...ho quel poco di bene (merito?) che è mio, se pure ne ho alcuno); e di che son pronto, se vuole, di tornar su, cioè, forse, in Arezzo (ma il Pell. spiega il «so» finale come «suo»).


XII. Sull’interpretazione di questa canzone, che lo stesso ms. B definisce «quivoca», s’è giá esercitato l’acume del Pell., il quale trasse anche profitto dal precedente tentativo del Monaci (p. 170).

vv. 1-9. Una giusta ragione mi ha porto voglia di dire, poiché la mia donna m’accoglie e mi conduce a porto: mi fa giungere a tutto ciò che mi piace. Il suo senno non è morte per me, ma porta di vita dolce, dove mi pasco e diverto, perché mi diede tanto opportunamente un rifugio nel mare tempestoso, che vuole che io per lei porti la mia vita e faccia sí che di lí la apporti. Ed io cosí fo, purché le piaccia e le comporti. I vv. 7-8 sono cosí spiegati dal Pell.: «che vuole (forse vuolsi, conviene) ch’io d’ora innanzi porti la mia vita per lei (mi dichiari debitore a lei della mia vita) e «l’inde faccia porti». Al v. 8 egli legge appunto: «e l’inde faccia porti», laddove il Monaci ricavava dall’«inde» del ms. B, con lieve emendamento: «lui de»: «e lui de faccia porti»; ma non capisco che significazione potrebbe avere.

vv. 10-18. Essa è tanto dolce, amorosa e saggia, che non si può far altro che decantare il suo pregio, perché conta chi sa amare: assai piú d’ogni altra si valuta lá dove deve esser valutata. Perciò non posso giá mettere in conto (raccontare) la gran gioia che ho, perché di sé mi tien conto (mi tiene informato?); ma desidero che mi annoveri tra i suoi, perché a me piace piú, è dei piaceri piú sicuri, esser servo a lei, piuttosto che signore di conti. La lezione del v. 12 è quella stessa del ms. B accolta dal Monaci, il quale al v. 13 legge: «lá unde cont’esser conta». Il Pell.: «... perch’a marchisa e conta piò ch’altra, assai laude contar se conta» e spiega: «per cui contar laude (il dir lode, la lode) si [p. 300 modifica] conta (si dice) piú a lei, che ad altra (donna), marchesa e contessa». Si potrebbe forse anche interpretare: «perch’è marchisa e conta: ecc.», cioè: si deve decantarne il pregio perché è marchesa e contessa: è stimata piú d’ogn’altra ecc.

vv. 19-27. Ho talmente spinta la voglia d’amare, e tanto mi sta dipinta in cuore la sua grazia, che credo non mi penta mai di servirla, né sia da me scacciata la sua figura. Perché essa mi ha spinto lungi da ogni fastidiosa noia e condotto a ciò che piú mi piace; perciò i miei piaceri gagliardi e veloci si sono sempre spinti verso di lei; né credo che mai mi penta di ciò fare.

vv. 28-31. Il Pell., che di fronte al «so» di A e al «sa» di B, legge «soa mercé» al v. 28, e non pone il punto interrogativo alla fine del v. 29, spiega: «So che la sua mercé drittamente (a ragione) le avvisa (le dá notizia) che «per me» (da parte mia) si pensa e si ha in vista un altro bene», e lascia senza spiegazione i vv. 30-31. Ma non sembra possibile che il poeta ammetta come ragionevole che si pensi a sue distrazioni; né tal dichiarazione sarebbe concorde con quanto si dice in tutta la canzone. Sará da pensare ad un emendamento di «ben» del v. 29 in «non», oppure si dovrá dare, come ho fatto, tono interrogativo al verso? Credo che il senso sia questo: So che le è a visa, ch’ella guarda ciò ch’è giusto, so che guarda ciò che è pietoso; e che altro si pensa e s’avvisa per me? (Ho forse io diverso avviso? No...), ma so soltanto separar lei, distinguerla da tutte le altre, e la sua figura mi si mostra, mi appare in ogni visione.

v. 32 segg. Ecco la parafrasi del Pell.: «Cosí m’ha dipartito e separato da tutto quanto io aveva avvisato (pensato, divisato) fin qui: ché a me non piace ch’io avvisi (mi proponga) altro scopo, e dico per veritá che gli altri volti (i visi delle altre donne) a confronto del suo sono lungi da ogni beltá. Io la prego ch’ella sia sempre saggia e prudente, cosí che non m’abbia ad uccidere (col suo disdegno) una qualche volta, in cui le venisse temenza che io la offendessi: a meno che non assaggi prima ed esperimenti la veritá dell’accusa, e ciò per mezzo di «affermata saggia» (di sicure prove). Perché io sono cosí coperto e prudente nell’amarla, che nessuno può «levar saggio» (esser fatto certo) del mio amore: onde io la prego che mi assaggi (mi metta alla prova) come le piace e come vuole, per poi rimeritare tutte le mie operazioni «in saggi» (a prova fatta?) secondo piacerá a lei, ed in generale ai saggi ed ai valenti». Ma, al v. 40 «per affermata [p. 301 modifica] saggia» credo debba interpretarsi: per mezzo di donna che sia riconosciuta saggia; e ai vv. 44-45 intenderei: e meriti (valuti il merito di) tutti i miei fatti in prove a suo piacimento e saggi, apprezzi i valenti (i fatti che hanno valore). Perciò leggo, seguendo B: «li valenti saggi», laddove il Pell., conforme ad A leggeva: «li valenti e saggi». Pel v. 44 il Pell. stesso non escludeva la possibilitá d’intendere: «mette a prova i miei fatti», accogliendo la lezione di A: «e metti tutti ecc.», rimandando al Caix, § 211 per la forma «metti» in luogo di «metta».

vv. 46-48. Va, canzone, se ti piace, da mia parte al buon messer Migliore, che... Al Pell. non riusci chiaro il senso della proposizione relativa seguente, e notò come a seguire A («che dona e parte»), non si capisce in qual modo messer Migliore potesse «donare e spartire» tutto ciò l’uomo (indeterminato) possiede; e volendo seguire B, da un lato si avrebbe ancora il senso medesimo, leggendo «ch’è donn’e parte»; dall’altro non si coordinerebbe col verso seguente, risolvendo in «ch’è d’onne parte». Il senso è evidentemente questo: ... che concede e divide (oppure: che è signore e divide) tutto ciò che si ha in questa parte. La difficoltá sta solo nell’interpretazione dell’espressione limitativa: in questa parte, cioè in questo campo. Quale? Logicamente vien da pensare che messer Migliore fosse giudice ne’ contrasti d’Amore, e quando vi fosse da saggiare la dirittura del proprio operato in Amore.


XIII. Le stesse rime ricorrono nello stesso ordine nelle cinque stanze, e cioè: «sovra — sovro — sovro — sovra; sovri — sovri — sovre — sovre». Naturalmente codeste parole hanno quasi sempre significati diversi, anche a seconda della loro divisione, come, ad es.: «sovre — s’ovre — sovr’è». Ne conseguono difficoltá enormi d’interpretazione.

vv. 1-8. «Gioia» è il «senhal» della donna amata; perciò il ms. A può leggere: «La mia donna». Il Pell. spiega: «L amia gioia, che è sovra d’ogni altra, vuole che io trovi (componga versi) in sua lode..., ma le uso un torto (commetto un fallo verso di lei) se opero la mia canzone (se la compongo) cosí che s’apra (sia chiara e patente) ad ognuno. Per ciò (cosí facendo) non credo che s’operi ragionevolmente: onde mi piace che il mio ingegno s’eserciti piuttosto in motti sottili ed alti e dolci, sopra di ciò che la sua corte (la sua signoria) mi chiede che s’operi (si faccia da [p. 302 modifica] parte mia; ciò che ella richiede da me)». Non si può cavar fuori molto di piú da questi «sottil motti»; però dove (v. 2) il Pell. non ha spiegato, ponendo dei puntini, credo possa interpretarsi: «non in soverchianza del suo piacere», leggendo «no ’n sovro», invece che «non sovro» come fa il Pell. — Al v. 5 il significato è forse quest’altro: ma non credo giá che si manifesti facilmente, perché mi piace adoperare l’ingegno ecc.

v. 4: «ciascuno s’ovra». Il Pell. basandosi sulla lez. di B: «ciascun om s’ovra».

vv. 9-16. Ecco la spiegazione del Pell.: «Essa supera tanto altamente (le altre donne) in gran valor valere (in grande valentia), che uomo saggio non può star sovro (scevro? alieno?) di lodarle la sua gran bellezza piacente; e (malgrado di tante lodi, questa beltá) non è per nulla sopralodata (lodata di troppo), ma è (resta tuttavia) piú fina di quello che sovra (alla superficie, a prima vista) non pare. Altra donna non v’è che sí bene cominci e superi (sia eccellente) in tutto ciò dove qualcun’altra si adoperi (cioè: in ogni cosa in cui altra donna si eserciti), la mia è sempre superiore: per cui, senza dubbio, sta sopra tutte le altre in ogni bene, piú che duca non sia sopra (gli altri cortigiani) in corte». Al v. 10 spiegherei «star sovro» come un «trapassare, sorpassare, sorvolare», anziché vedere in «sovro» il significato di «scevro, alieno».

vv. 17-24. Questi versi non furono spiegati dal Pell. Io intenderei: «Ah, come ben sovrasta, la Dio mercé, il bene d’Amore, dal momento che non vuol fare il suo cuore «sovro d’amar», superiore all’amare (non vuole che il suo cuore trascuri d’amare)! In fede mia, troppo ho gran diritto, se manifesto il suo grande valore fino, che supera ogni altro. A questo punto, v. 21, le difficoltá si aggravano. Il senso parrebbe questo: Di ciò che mi piace sia per lei manifesto, non credo superi di fare secondo il volere (cioè non credo vada oltre il suo volere); per contrario tutte le sue voglie sono sovrane in quanto io son suo, sono ai suoi ordini per quel che son sopra a dire. La frase «en dir son sovre» sarebbe dunque analoga alla comune: «son dietro a dire».

vv. 25-32. La mia anima è stata sempre superiore all’amore (il Pell. spiega anche qui, come al v. 10: «sovra» come «scevra»): adesso invece l’amore mi occupa sempre tanto se riposo quanto se lavoro, e non vivrei mai standogli superiore (dominandolo, trascurandolo), sí ha assuefatto il mio cuore alla sopra-ricca gioia (cioè alla gioia che supera ogni altra), al cui piacere voglio [p. 303 modifica] che si adoperi il mio cuore e il mio corpo, cosí che mai non sovrasti; perché d’umile uomo qual ero mi ha innalzato sopra ogn’altro; e bene è superiore nella corte d’amore. È superfluo dire che la spiegazione data è tutt’altro che certa ed attendibile; il Pell. aveva addirittura omesso di dare ai vv. 30 e 32 un significato qualunque.

vv. 33-40. Il Pell.: «Quanto di bene da me si dice e si opera ognora va tutto attribuito a merito suo; poiché, se apro la bocca, e deporto e sovro i miei motti del suo savere... Temo soltanto che la morte non mi sovri (scevri? disgiunga?) di lei, per la soverchia dolcezza che grava sulle mie membra tutte, le quali da lui (dolzor) non stanno sovre (?)». Per i vv. 34-37, non spiegati dal Pell., oso proporre questa spiegazione: se apro la bocca e deporto i miei motti (si noti che il Pell. leggeva «e» e non «è» al v. 35), è superamento del suo volere (cioè operato dal suo valore), ché (si noti che il Pell. non ha virgola dopo «suo», né legge «ché», ma «che») il meglio di me non supera né ciò né cosa altra alcuna che è invece uopo mi sia superiore; il che in fondo vorrebbe dire che, senza di lei e senza il suo aiuto, sarebbe stato vinto dalle difficoltá di congegnar motti tanto sottili, non avrebbe dominato una materia tanto ardua. Anche il senso degli ultimi due versi è poco soddisfacente, e al v. 39 si potrebbe forse leggere: «...che me sovr’e», intendendo: che sovra, cioè sovrasta, me e le membra tutte e non stan sopra di lui.


XIV. vv. 1 segg. Il senso è questo: tutto il dolore ch’io ebbi mai a sopportare si può considerar gioia e la gioia un niente in confronto del dolore attuale del mio cuore, al quale spero porti soccorso la morte, ché nessun’altra cosa potrebbe valere.

vv. 7-8. Intendi: conviene che la povertá si presenti, appaia maggiore, cioè piú grave a chi ritorna povero, dopo essere stato ricco, che a chi da principio si trova povero, entra in povertá.

v. 11: «del meo paraggio», cioè: di condizione pari alla mia.

v. 13: «del meo for sennato», cioè: for del meo sennato. Cosí anche il Val. che spiega, giustamente: fuori del mio senno. Il Pell. invece stampa: «forsennato», che non mi sembra possa dar senso alcuno.

v. 23 «è pare», cosí A; il Val. e il Pell., seguendo B C I: «à pare»; ma, accogliendo questa lezione, sarebbe forse da leggere: «ca lo riccor...» e non «ch’a lo riccor...». [p. 304 modifica]

vv. 24-26. Seguendo il Par. divido «riccore» del v. 25 in «ricco re», e intendo: perché non v’è ricchezza che uguagli quella d’amore; né una regina può far ricco un re quanto un uomo umile e basso, come sono io (perché chi è giá ricco poco s’avvede di ciò che gli s’accresce); né amore ha permesso che vi sia regina, la quale v’uguagli (nel potere di far ricco un uomo).

v. 29. Ho seguito, come il Val., la lezione dei mss. B C I. Il Pell., lievemente modificando la lezione di A, stampa: «che non di vita à fiore». Il senso è comunque il medesimo: Come un uomo che non ha punto di vita può durare ecc.

vv. 51-52. Il Pell.: «Poi savere... il core?». L’«E» iniziale è del ms. A; il punto interrogativo posto dal Pell. alla fine del verso 52 mi sembra non dia senso.

vv. 61-62. I mss. B I danno una lez. diversa dai mss. A C. Il Val. e il Pell. s’attengono ai primi, e il Pell. legge: «Ed è neente il dolor meo, par Deo, — ver che m’è el vostro, amor, crudele e fello:». Il senso non è molto diverso: «Io mi dolgo sí del mio male, ma piú mi è grave il male vostro»; o, secondo il Pell.: «Il mio dolore è niente, a confronto del pensiero che voi pure soffrite».

vv. 67-70. Questi versi sono introdotti solo per spiegare l’asserzione dei vv. 65-66 e cioè che la sua donna sia la piú fedele innamorata che sia mai stata messa a prova, perché un amore vero e profondo, corale, la condusse a voler bene, non altro: non la mia arte d’esserle umile e dimesso, che essa non ha mai apprezzato (lez. dei mss. A C), oppure: non la forza, il valore, la bellezza, la ricchezza, qualitá che io non ho mai posseduto (lez. B I). Il Pell. s’attiene alla coppia B I, aggiungendo «forza» che toglie dagli altri mss.: «ché bealtá, forza, o valore, o avere ecc.». Egli è stato forse indotto a questo non soltanto dal fatto che di regola preferisce la lez. di B a quella di A (cosí ha fatto anche ai vv. 61-62), ma anche dalla oscuritá della frase, che peraltro deriva solo dalla costruzione e disposizione delle parole, non infrequente in Guittone.

v. 75. Intendi: e forse anche per questo vostro confortarvi voi mi farete ritornare, se mai mi accadrá, in allegrezza.


XV. v. 4: «guerra». Questo accenno e l’altro del v. 66 sono stati esaminati sia dal Pellizz. che dal Pell., il quale concludeva che si riferissero agli avvenimenti del 1259, all’assalto cioè che gli Aretini, rompendo gli accordi del 1256 con Firenze, dettero [p. 305 modifica] al castello di Gressa del vescovo di Arezzo. Il Torraca crede che la parola «guerra» voglia qui indicare solo gli odi di parte e che si alluda alla cacciata dei ghibellini da Arezzo nel 1256.

v. 17: «membrar» è lez. di B, seguita dal Val. Il ms. A e il Pell.: «membrando». Preferisco la lez. di B per analogia col costrutto del v. 29.

vv. 26 segg. Il Pell., e poco diversamente giá il Val.: «... e moneta en suo loco, e con solazzo gioco, lí è devetato e preso pensamento». Il Par. proponeva di mutare «en» del v. 26 in «è ’n» e di accogliere al v. 28 la lez. dei mss. B I: «devetato» per ottenere questo senso: «sollazzo e gioco vi sono omai vietati (ne sono sbanditi) e in loro luogo li è preso pensamento, vi si preferiscono (tristi e non oneste) cure»; senso che si precisa ancor meglio accettando, come ho fatto, la lez. «pesamento» di B I al posto di «pensamento» del ms. A: in loro luogo c’è un’oppressione insopportabile!

v. 59. Il senso è: non dovevo servire né amare la mia parte politica, né qualche particolare amico, voglio dire signore o capo, per cui dovessi rimanere.

v. 66: «dal Prence en B.»; il ms. A: «da lo Re ’n Bare».

v. 67. Potrei trovarlo a meno, cioè a patti men gravi in terra di Bari. L’espressione fu giudicata dal Raina neologistica, ma è l’unica possibile. La frase è sarcastica, e colpisce col comune d’Arezzo l’esositá di Re Manfredi, punto munifico nel conceder feudi a Bari. Tuttavia il comune d’Arezzo lo aveva superato!

v. 68: «el», nota col Pell. che esso riguarda «podere», o in modo piú comprensivo «fio», cui allude anche «lo» nel verso precedente.

v. 71: «Estròvi», cosí B I; A: «isterovi», vi starò.

vv. 87-89. Variante notevole nelle lezioni dei mss. è solo, per quanto riguarda il senso, «me» del v. 89, dato dai mss. B I, di contro a «ma» di A. Si noti poi «e» del v. 88 dei mss. A I di contro ad «a» di B. Il Pell.: «ch’è siguro istare e gire a piú vile ch’eo, tra le mura»; cioè: non son partito per paura, perché è ugualmente sicuro lo stare o l’andare tra le mura a gente ben piú vile di me. Il senso non soddisfa, ché a dimostrare che non fu da vile andarsene non vale asserire che i vili possono stare ed andarsene a lor piacere; né soddisfa l’espressione «gire tra le mura». La lezione data porta a questo senso: non è vile esser partito perché non c’era da temer nulla anche rimanendo. Ci son [p. 306 modifica] tanti vigliacchi che son rimasti entro le mura! Ciò non toglie che sia giusto ciò che ho detto sulla convenienza di partire.

v. 91: «li», a lei, per lei; ed infatti A legge: «gli». Il Val.: «lí», ma la designazione del luogo è nel «lá» del vs. seg.

v. 100: «fumi», cosí A B; I: «fammi». Il Pell. «forni», ma non è nei mss.

v. 131: «como vai»; i mss. hanno: A: «comio nal» B: «cominal », I: «comunal» e cosí anche il Val. Accetto la ricostruzione del Pell.; ma potrebbe anche leggersi «como n’ha ’l b.».


XVI. v. 13 seg. Intendo: se io avessi cento volte tanto gran cuore, forza o sapienza, e codeste mie doti adoperassi soltanto per acquistar valore di fronte a voi fino all’estrema consumazione, pure io non meriterei il vostro dono compiuto, perché fui cosí volgare nella mia passione, da non acquetarmi (partir da pianto) senza che il vostro grande onore si mutasse in onta. E voi, amore, lo mutaste, e non vi indusse a fare altrimenti nessuna cosa che fosse brutta a vedere, che potesse dar luogo alle critiche della gente (il Pell.: «cosa o’ malvistá fusse», spiegando: alcuna considerazione malvagia), ma solo lo spontaneo sentimento, punto, stimolato da pietá per me.

v. 30: «v’aduce p.», cosí con lievi varianti tutti i mss., eccetto B, che legge: «v’aducie a p.», donde il Pell. ha tratto: «v’aducea p.», ma non mi par necessaria la congettura.

vv. 35-36. Il Pell.: «ma vizio e crud. è contra...».

v. 38: «porterea ’n vostra d.». Il Pell., seguendo B I: «porterea vostra d.»; ma A legge «porteria in vostra d.».

v. 43: «ne pora» cosí B e I. Il Pell., conforme ad A: «de pora». Il senso è: potrei mettere in mostra molte ragioni che porterei in vostra difesa, ma preferirei tuttavia esser morto e non fosse avvenuto ciò che è avvenuto; perché quando tra la gente volgare è corsa qualche diceria insulsa, non c’è scusa che si possa opporre («ostare»).

vv. 49 segg. Il senso è: non mi conta volere, ma se contasse, avrebbe cosí gran potere, che non ci sarebbe angolo del mondo che non fosse pieno di pietá e di dolore. Un tempo, o gentil mia donna, penai per raggiungere il vostro amore; ora invece segnerebbe la distruzione d’ogni mio pieno tormento il potervi ritornare come eravate una volta. [p. 307 modifica]


XVII. v. 1: «gente», gradita. Nella seconda stanza «gente» ha piuttosto valore di ‛largo’ e nella terza di ‛devoto’, tutte sfumature del significato fondamentale, che è: gentile.

v. 4: «de l’amorosa gente», cioè della gente nobile, cortese, alla quale è contrapposta ai vv. 12-14 la gente disonorevole, disprezzata dai «valenti».

v. 15: «Sor tutto amor», cioè: sopra ogni altro amore.

v. 22: «men», cioè: me. Il ms. I: «che me obrio».

v. 26: «tanto è dobla», cosí A e il Pell., il quale spiega: «tanto è doppiamente condotta a perfezione l’opera sua, piena d’ogni pregio».

v. 34: «sentore», apparenza, mostra. Il senso è: egli può ben farmi apparire dolce l’amaro, ma non può ridurre il dolce di tale apparenza, ch’io non lo riconosca.

v. 37: «piacente»: i mss. e gli editori precedenti hanno «valente»; ma il Pell., a proposito dei due ultimi versi della stanza «che conchiudono tanto poco», sente che «sarebbe mestieri poter sincerare la lezione, non essendo molto probabile che G. rimasse «valente» con «valente» a sei versi di distanza, e si domanda se «in uno dei casi non ci fosse in origine «piagente». Ho creduto di concludere il suo dubbio, congetturando «piacente» al v. 37, ché non potrebbe mutarsi per ragioni metriche il «valente» del v. 42, perché la parola si ripete alla fine di ciascuna strofa.

v. 42. Il senso è: È cosí dolce e piacente, che cosí nel cuore come nell’aspetto sta in modo che non si turba mai, né mai s’allontana quella serena ilaritá (gioia) che io ho provato da lui («da lui» è anche la lez. di I); cosí codesta gioia me lo fa, me lo rende dolce e valente.


XVIII. v. 11: «han ’n suo», è la lez. di A K (Ricc. 2846) e del Val. I mss. B C hanno: «a suo», e il Pell.: «á [a] suo».

v. 38: «ma che prodezza p.». Preferisco la lez. dei mss. A K (e in sostanza anche C) alla lez. di B: «ma ben proezza p.», accolta viceversa dal Pell. e dal Val. Alla preferenza mi conforta anche l’uniformitá del costrutto col v. 26.

v. 42: «valor»; il Pell. ha preferito «valer», che, di contro agli altri mss., è dato solo dal ms. C.

v. 59: «perduta», cioè: pérdita, è mia ricostruzione. I mss. hanno: A: «perdetta» e C: «perdicto». Il senso è: Ser Orlando da Chiusi, a voi mai avvenne che una perdita qualsiasi abbia [p. 308 modifica] portato sconforto; se il tempo è stato contrario pare che ora volga a buono, cosí che si potrá vedere chi veramente vale. Ser Orlando è il figlio di colui che donò la Verna a S. Francesco. A lui è anche diretta la lettera 21 (v. Mer., pp. 263-278) assai affine per significato a questa canzone. Cfr. Santangelo, 5.


XIX. Concordemente si ritiene che questa canzone sia stata composta non molto dopo la battaglia di Montaperti (4 sett. 1260); e la lettera XIV, sullo stesso argomento (v. Mer., p. 177 segg.) è di poco posteriore.

v. 7. Il Pell. pone tra parentesi: «(crudel forte e villano!)» e ritenendo che «crudele» sia usato neutralmente quasi in valore di sostantivo astratto, spiega: «poiché certo perisce (crudeltá dolorosa e villana!) se sollecitamente non sia rimessa nello stato di prima». Credo debba intendersi: che certamente perisce. Oh, è crudel cosa e villana se non si pensa a restaurarla al piú presto.

v. 27. Cioè: le fu (folli) gradito, le piacque comportarsi in tal modo.

v. 29: «è»; il ms. B e tutti gli editori precedenti hanno: «ha».

v. 31 segg. Sono accennate qui le vicende della lotta interna politica del comune di Firenze fino alla battaglia di Montaperti e particolarmente della parte ghibellina, alla quale si attribuisce dal poeta la colpa d’aver mutilato, avvilito e tratto a gran torto in prigione il Leone, cioè il Marzocco, identificato col comune guelfo. Quei ghibellini erano pure «stratti», estratti, discendenti dalla sua schiatta gentile ed erano stati per opera sua collocati onorevolmente sopra tutti gli altri; ma essi insuperbirono a tal segno, da ferire mortalmente il Leone: questi peraltro, cui Dio concesse di guarire, perdonò i suoi feritori, che tornaron tuttavia a ferirlo finché non fu energico contro di loro e li liberò soltanto dalla morte. Ora essi si son di nuovo impossessati di lui e delle sue membra, cioè delle sue terre. Gli avvenimenti qui richiamati sono la cacciata dei Guelfi nel 1249; la guarigione di questa ferita inferta alla parte guelfa sarebbe il richiamo dei Guelfi nel 1251; con la nuova ferita s’allude alle trame ghibelline al sorgere della fortuna di re Manfredi. I Guelfi allora furono energici, ma pur «perdonando lor morte», espulsero i Ghibellini nel 1258; «or», cioè dopo Montaperti, il Leone è nelle mani dei Ghibellini: il comune guelfo fiorentino è conquistato. [p. 309 modifica]

v. 47. Le sorti di Siena e Firenze si sono scambiate: prima Firenze — come ogni italiano sa bene — oltraggiava e danneggiava Siena, ora è Siena che toglie a Firenze i suoi vantaggi e lo stesso onore.

v. 53: «ha la cervia e lo frutto», cosí il ms. A; il Pell.: «a Laterin’à ’l frutto», basandosi sulla lezione di B: «alacerina elfrutto». Preferisco, col Torraca, la lez. di A perché geograficamente, con la designazione: dalla Maremma a Laterina, si accennerebbe appunto a quello stesso territorio che è qui invece rappresentato da Montalcino e Montepulciano. Si passa poi alla Maremma, della quale appunto si dice che non manda piú a Firenze, ma a Siena, i suoi frutti e la cerva offerta ogni anno come simbolo di vassallaggio; e finalmente si accenna ai luoghi piú vicini a Firenze, tra Firenze e Siena: Poggibonzi, ecc. Laterina dunque è fuori del territorio conteso, che sta tutto tra il Chianti e il mare e non giunge alla valle dell’Arno e al territorio piú propriamente aretino. Del resto il ms. B ha «la cerina» e se è facile uno scambio tra «c» e «t», è pur facile quello tra «in» e «ui», ammettendo il quale si avrebbe anche qui la lez. «la cervia».

v. 56. Non altrimenti il Villani: «rimasevi il carroccio, e la campana detta Martinella, con innumerabile preda d’arnesi» (VI, 79 ).

v. 65. Il Pell. aggiunge un «de»: «sotto [de] segnoria»; e sarebbe certo utile per la misura, ma non è indispensabile, ed è comunque estraneo ai codici.

v. 67: «ora» è nel ms. A, ma il Pell. lo espunge. Esso è richiesto dalla misura e s’addice al senso, dal momento che si deve ritenere la canzone scritta subito dopo l’occupazione di Firenze per parte dei Ghibellini e dei Tedeschi, mentre i Guelfi eran randagi e forse non ancor cacciati da Lucca, dove in un primo tempo s’eran rifugiati.

v. 77: «ai Conti e a li Uberti», sono i capi di parte ghibellina; e poiché i Ghibellini crearon podestá Guido Novello de’ conti Guidi, è da credere che si alluda qui ai conti Guidi; e quanto agli Uberti basti ricordar Farinata. Il Pell. ravvisa invece nei «Conti» i Conti di Santafiora.

v. 81: «loro spese», cosí A, laddove B ha «vostre spese». Ma qui continua l’ironia: non avete neppur piú la briga di guardar vostre castella: lo fanno a loro spese quelli che giá furon vostri vassalli. [p. 310 modifica]

v. 82. Anche questo è ironico: il conte Rosso, cioè Aldobrandino dei conti di Soana in Maremma era guelfo e probabilmente perse in conseguenza di Montaperti, i suoi domini.

v. 84. Ripafratta era stato nel 1254 dato dai Pisani ai Fiorentini come pegno. Continua l’ironia, che si accentua sempre piú nel commiato.


XX. v. 8. Intendo: e da solo prenderò la loro difesa.

v. 9. Di contro al Val. e al Pell. preferisco la lez. dei mss. A C, di contro a «e proveraggio» di B I, per analogia al «prenderò» del v. precedente.

v. 16. Il senso è: pone a loro, cioè alle donne, come cose dispregevoli e villane quelle stesse che a sé pongono come cortesi ed onorevoli, cioè giudica per le donne disonorevoli quei medesimi atti che in sé reputa invece degni d’onore.

v. 18. Il Pell.: «ch’a Deo e a ragione, e l’ora tenuto è, per onne statuto, ecc.», spiegando: «anche l’uomo (il secondo «e» del v. 18 si intenda come «etiam») è tenuto, come la donna, per forza di tutte quante le leggi, a non fallire a Dio e a ragione». Forse l’espressione acquista cosí maggior forza, ma perde certo in chiarezza.

v. 24. Il Pell.: «e quel blasmar». Il senso mi sembra: Dobbiamo dunque secondo ragione vedere quale dei due, cioè l’uomo o la donna, piú si guarda e fa meno il biasimo, cioè meno commette azioni biasimevoli.

v. 32: «è perché»; l’«è» si ricava dalla lez. di A che non fu accolta dal Pell. Intendo: e se esso (carnal talento) la domina, è perché le si offron per esso preghiere e doni; ma chi fa tali offerte è doppiamente spregevole nella sua colpa.

v. 37. Circa il ricordo di Cesare, unico nella lirica italiana piú antica, v. R. Ortiz (La materia epica, ecc. G. Stor. LXXXV, 43), il quale scorge qui un riflesso della leggenda «delle grandi sconfítte («penò tempo tanto») che Cesare avrebbe dovuto subire prima di trionfare del tutto dei Galli e dei Germani».

v. 46. Intendo: Non è giá da meravigliarsi se qualcuno cede, s’arrende, ma sí che ci sia qualcuno che s’aiuti e riesca a resistere e difendersi, pur avendo tanti stimoli da dentro, pel carnal talento, e da fuori, per l’assalto che le viene dalle lusinghe dell’uomo.

v. 49. Il senso è questo: Quanto la donna è piú dell’uomo ribelle (fera) a prender forma da Amore, tanto piú tenacemente [p. 311 modifica] la conserva, quando questo amore abbia formato (ma il Val. e il Pell. hanno: «fermato» conforme alla lez. dei mss. B C), cosí come il ferro, che si intaglia piú a fatica, ma conserva l’intaglio meglio della cera (che viceversa si scalfisce agevolmente). Essa, quando sia innamorata, cambia in onta il suo onore, in danno il suo vantaggio e non dá ascolto al consiglio assennato d’un amico, né alla stessa voce di Dio per seguir bene amore. L’uomo, sebbene questo non sia cosa ragionevole, se ama, non mette in ciò se non la propria vanagloria; e non ve n’è uno solo tanto appassionato d’amore, che resti fedele e costante verso la sua donna; ma l’uomo trova pure donne che amino al di fuori di ogni inganno. Quanto al «senno d’amico» mi decido a questa lezione in omaggio ai mss. Il Pell., emendando la lez. di B con l’aggiunta di una «d» eufonica, legge: «sé ned a.», con una interpretazione molto soddisfacente, che avrei desiderato accogliere: non si cura né di sé, né d’amico, né di Dio, per seguir l’amore. Eppure in nota il Pell. stesso spiega: «non bada a consigli assennati, né alla religione stessa», dando valore a quel «senno» che, nel fissare il testo aveva annullato.

v. 67: «sembra», lez. che preferisco per l’autoritá dei mss. A e B; invece C ed I e il Pell.: «mostra».

v. 73: «a sembrante», cioè: ciò che ho detto è niente a confronto (della realtá).

v. 91 seg. Intendo: perché ritrarre gli altri dalla loro vergogna non sará tal cosa che mi dia diletto.


XXI. vv. 6-8. Il Pell. legge: «m’e’ vista tal presento, che lei á certo miso come suo segnoraggio m’è ’n desire», e nota: «miso» equivale a messo, messaggio e però il senso riesce il seguente: «... ma il mio tacito aspetto dá chiaro segno alla donna che amo del mio ardente desiderio d’esserle devoto». Mi pare invece che qui si voglia dire: ma tale è il mio aspetto, che la donna ha senza dubbio compreso e messo il mio amore in suo potere. Cfr. a prova di questo significato il v. 52. La lez. «ma» del v. 6 è del ms. A, che seguo, in quanto al senso, anche pel v. 8.

v. 9. L’espressione fu spiegata dal Par.: «a quanto ne veggo, ne intendo».

vv. 17-24. Intendo: Io, che bramo servire, seguo questa via: oblio il male e voglio invece che il bene mi sia sempre presente nella mente e nel volto; e questo modo di procedere (ed io «son [p. 312 modifica] degno», cioè sono in condizione di «mettere», cioè di stabilir questo) è lodato tanto, da esser seguito da chi è in signoria di un’alta donna. La lez. e la spiegaz. del Pell. sono diverse.

vv. 25-32. Qualora egli serva senza inganno, non tema l’elevata posizione della donna, perché la nobiltá non è orgoglio, e non può mancargli di provar gioia in questo caso, laddove non son disposto a lodare chi pone il suo desiderio in donna a lui pari.

v. 47. Il senso è che, deposto il timore, il poeta promette fedeltá a Madonna e le fa prender saggio, le fa saggiare, cioè le mostra «per semblanza», col suo aspetto, come l’abbia nel cuore.

v. 49. Il senso è che, avendo l’esperimento, il saggio, provato, mercé la sua squisita comprensione, che era, trattavasi, di un omaggio leale, mi fu concessa la sua signoria. Attenendomi alla lez. di A, leggo: «ma’ fo», cioè: mi fu anche di piú («magis») concesso il suo signoraggio: d’una prima concessione si era parlato al v. 8.

vv. 53-76. Cfr. Post. 10-13, dove pure è la spiegaz. del richiamo al Perceval. Al v. 55 intendi «miso» per messaggio; al v. 56 «el» cioè il cuore non si sarebbe mai allontanato senza ciò, senza l’amorosa piacenza; ai vv. 72 seg.: io ho bisogno di guiderdone, altrimenti nell’attesa «m’allasso», cioè mi sposso. E dovesse poi accadermi — povero me! — di commetter l’errore che, per non chiedere, commise Princivalle!

v. 78: «Mo», cosí il ms. Il Pell. corregge: «ma»; non mi sembra peraltro necessario.

v. 84: «e’ non so vago»; il ms. e il Pell.: «e’ non so ’n agio». La correzione è peraltro agevole e necessaria per rimare con «pago».

v. 94: «fagli»; il ms.: «fogli». La correz. è del Pell., il quale notava «che qui il poeta parla alla canzone e non in prima persona al rimatore siciliano». Il senso è: fagli fede di questo, che cioè a tal cagione, proprio per questo suo continuo richiedere, egli dispregia di servire piú a lungo e non dá valore al compenso che gliene verrebbe.


XXII. vv. 16-17. Non vedo altra spiegaz. che quella suggerita dal Pell., che riferisce il «che» ad «orgoglio e villania» del v. 14: «il quale (orgoglio e villania) non ha potenza su di voi, «poi» (dappoiché, attesoché) tanto vi piaccia misura e senno, che sono le virtú opposte». Ma il Pell. non si nasconde che «la [p. 313 modifica] ripetuta rima in ‛piaccia’, senza mutazione nel senso del vocabolo, fa sorgere ragionevole sospetto di scorrezioni nel testo».

vv. 34-36. Intendo: preferisco da voi tutto ciò (cioè l’incomprensione e le durezze), piuttosto che chiedere ad altra ciò che vorrei avere.

v. 49 segg. Il senso è: Poiché non mi trattengo mai dal servirvi, ho ragione di chiedervi mercé, e ne avrei meno solo che vi piaccia (vi sia a bene) talvolta ogni mia gioia; cioè non avrei ragione di chieder mercé solo se qualche volta vi piacerá di concedermi ciò che è tutta la mia gioia.

v. 55: «piú», preannuncia il «piú» ripetuto nel v. seg.; ed è dato dai mss. Il Pell. corregge: «pui», poi.


XXIII. v. 7: «ch’esso». Cfr. per questa lez.: Post., pp. 13-14.

v. 8: «cercar» è felice emendamento del Pell. d’un «crear» del ms., sfuggito al copista forse pel ricordo della forma «creato» ch’è nei versi precedenti due volte.

v. 23. Il ms.: «jnasciente», che il Val. corresse in: «me nesciente», e il Pell.: «in a sciente», non spiegato nelle note, cosí che il Par. domandava: cioè? Forse «conosciente»? O «a mi’ esciente»?. Nel Gloss. io avevo giá avanzato l’ipotesi che s’avesse qui un «in nascente», nel suo nascere; e dovendo risolvere in qualche modo la difficoltá, non vedo neppur ora alcunché di meglio, o di meno peggio.

v. 32: «paleggi», emend. proposto dal Par.; il ms.: «paregi».

v. 33. Il ms.: «che melglio me». Per correggere l’ipermetria, il Val.: «che mei ’m’è» e il Pell.: «che me’ m’è». Dovendo toglier qualcosa il meglio mi par stia nel sopprimer «che».

v. 47: «onore». Il ms.: «adimora»; il Pell.: «aunore e».

v. 49: «ognor», emend. del Pell.; il ms.: «onore». Forse: «onn’ore».


XXIV, vv. 33-36. Intendo: mostra che chi vilmente lo signoreggia abbia poco valore.