Rime (Guittone d'Arezzo)/Annotazioni ai sonetti ascetici e morali

Annotazioni ai sonetti ascetici e morali

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Guittone d'Arezzo - Rime (XIII secolo)
Annotazioni ai sonetti ascetici e morali
Annotazioni ai sonetti d’amore Glossario

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ANNOTAZIONI AI SONETTI ASCETICI E MORALI


139. Comincia con questo bel sonetto la serie dei sonn. ascetici e morali. I primi sono sonn. doppi (nn. 139-159).

v. 11: «apprende nel m.», cioè: s’apprende. La lez. è tratta dal ms. B; A: «accendi nel m.».

v. 15: «onni via», cioè: tuttavia.

v. 18. Intendo: se dovrò mai sapere che il mio cuore ti possiede, e gode d’aver la tua ricchezza, oh, accada subito!


140, v. 2: «fusse»: se la forma rappresentasse soltanto una particolaritá del ms. B, qui unico, si sarebbe potuta anche sostituire; ma «fusse» doveva pur essere forma dell’uso guittoniano, sebbene men frequente e la troviamo anche in rima (canz. XVI, 23). Qui c’è però anche da dubitare che s’abbia una lezione errata, in luogo di «fasse», cioè «che ciascuno fa sé debitore ecc.». Il senso comunque par questo: «esser debitore d’amore è la sola virtú, e solo vizio è in colui a cui s’addice, cui appartiene l’odio». Pel Val. il «che» del primo verso varrebbe «a cui».

v. 4: «vertú dea»; vien fatto di sospettare che la lezione esatta sia: «vertude è», ma nell’un modo o nell’altro il senso è che la virtú sta nell’amare il buono anche nel nemico e nel disamar se stesso in quanto sia preso dal vizio.

v. 10: «tuttore», ma forse è da dividere «tuttor è».

v. 19: «savere», cosí il ms.; il Val. emenda: «parere»; ma forse dallo stesso verbo «savere» si può trarre un’accezione simile: «Come può sapere, aver sentore di grande chi è in potere del vizio, o come gentile chi è figlio del serpente infernale?

vv. 21-22. Versi oscuri. Penso che ironicamente, dopo aver accennato a chi è figlio del serpente infernale, il poeta domandi: e può mancar qualcosa a chi è figlio ed erede e signore? [p. 359 modifica]

141, v. 20. Per raggiunger la misura occorre pensare ad uno iato; altrimenti si potrebbe integrare il «sí» in «cosí».


142, v. 1 segg. Il senso è: Come è disonorato l’ignorante e quello specialmente che piú si reputa saccente, se crede di comprendere ogni giudizio divino e di stimare subito cattivo ciò di cui nel suo sapere non sa rendersi conto, cosicché dice iniquo Iddio e perde la fede! Al v. 5 il ms. ha «manente», cioè: possessore, ricco; la correzione è imposta dal senso e dalla misura. Al v. 6 il ms. ha: «iniquico eperde», che sarebbe da risolvere: «iniquo, co’e’ perde»; ma il verso risulterebbe ipermetro.

v. 8: «te scerne», cosí il ms.; ma potrebbe anche congetturarsi «decerne». Il senso è il medesimo: Vedi, o uomo superbo e sconoscente, se la mente, anche quella che meglio vede, ti può giudicare ogni opera umana: essa di consueto giudica bene il male e viceversa.

vv. 11-12. Intendo: se la mente umana non sa giudicare le opere dell’uomo, come dunque tu schernirai in tal modo (cfr. v. 6) le persone divine? Il Val. accoglie per «sí gente divine» la spiegazione del Salvini: «cosí gentili opere divine».

v. 14: «non»; la parola manca nel ms. Sembra però necessario integrare il verso e mi pare non si possa far meglio che pensando a un monosillabo, come «non», o «giá» piuttosto che emendare, come fa il Val. «pensarlo» in «pensarselo».


143, v. 5: «comperati», cioè: redenti, riscattati col suo sangue.

v. 17. Sará esatta la lez.? Il ms.: «eccifa sol ragionom debitore». Forse è da intendere: e soltanto ragione — non il sentimento spontaneo, l’amore, di cui ha detto sopra — fa che l’uomo sia debitore? Come dire: E si deve proprio ricorrere al ragionamento per capire che l’uomo è debitore?


144, v. 7 segg. Intendo: Ancorché («tutto», cioè: tutto ché) tanto è brutto, ogni parte viziosa è quasi gioiosa a confronto di quello in cui è radicato l’odio; sovente in ogni altro vizio c’è («posa», cioè: risiede) qualcosa che è grata, favorevole, utile al corpo e al potere e accresce lo stato di ciascuno; nel vizio dell’odio invece muore («pere») il corpo e l’anima e il potere, ecc.

v. 21: «se ’l po». Il Val.: «s’el può». Intendo: Se qualcuno si vanta di accrescer nell’odio il suo avere, la sua ricchezza, se la tenga, se la può tenere. [p. 360 modifica]

145, v. 7 segg. Intendo: per cui un uomo prode nessun’altra cosa mai si onori di fuggire di piú, né prima, che l’errore non abbia a ledergli il pregio e la mente.

v. 10: «gente gent’om». Il ms.: «gente [a] gentom», per cui il Val.: «Ahi che gente a gent’uom ecc.»; e ne risulta il senso seguente: Ahi, come mi sembra che stia bene ad un gentil uomo, che sia puro, fedele e buono, anche se pecca». Ma l’«a» che il Casini stampa tra parentesi quadre perché di mano piú recente, risulta da una correzione posteriore e può esser tolta senza scrupolo, ottenendo un senso piú soddisfacente: Un gentil uomo che sia un puro e buon fedele, mi sembra che resti gentile anche se pecca. E cioè: il peccato, che non sia d’eresia, non disonora.

v. 18. Il senso è che chi è inferiore non può disprezzare il superiore, anche se s’avvede ch’esso sta nel vizio. E potrebbe dunque degnamente biasimare Dio alcun ministro, avendo di lui un malvagio pensiero o sollazzandosi dove, cioè in cosa nella quale si possa bruttare la fede?


146. Il senso generale risulta abbastanza chiaro, ma qualche difficoltá presentano le terzine che il Val. ha rinunziato a comprendere. Intendo: Voi, fratelli, che desiderate e quanto piú potete vi arrabattate per acquistare una ricchezza vana, in primo luogo peccate non poco contro Dio, anche se questa ricchezza vi procacciate senza slealtá e senza «follore», e affannate troppo in questa ricerca il vostro corpo, e se anche vi riposate talvolta, il cuore è pur sempre dentro voi in subbuglio notte e giorno. Inoltre con l’arricchire sempre piú non vi appagate, ché anzi piú salite in alto e piú diminuisce l’appagamento e cresce l’ardore di possedere. Invece ciascuno si può dire ben provvisto, se ora è meno appagato ed ha maggior fatica e cura, avendo molto, di quanto non facesse quando aveva meno; perché avere il sacco pieno e il cuore vuoto non è un aiuto, è un peso. L’uomo non gode la ricchezza, perché le ricchezze danno ansia, perché egli muore se la ricchezza «desmora», si perde, e cosí sempre si duole, se non accumula, onde se anche mangia bene e veste bene, gli fa da veleno, gli diventa veleno.


148, v. 4 . Il ms.: «Maderrore affallor tal fiata alcono». Non è facile trarre un senso da questa lezione; che vorrebbe infatti dire: Ma talvolta l’errore ha qualche fallo? Bisogna ricorrere ad [p. 361 modifica] un emendamento. Sostituendo «onore» ad «errore», equivoco graficamente possibile, non si ottiene un senso soddisfacente, perché il fallo non è da riscontrare solo nell’onore, ma anche nelle altre due delle «tre cose». Ci si aspetta un concetto di questo genere: Tutti, buoni e cattivi, son stimolati da tre cose: onore, vantaggio e piacere; ma tutte e tre possono avere talvolta qualche fallo: intendo dire («ragiono») che onore ha dispregio, vantaggio ha danno e gaudio ha dispiacere. Per accostarci a questo che parrebbe il senso piú probabile, si è emendato «a» in «o».

v. 7. Il ms.: «ecchioor» cui altra mano ha apportato qualche correzione. Credo che dall’originale «ecchioor» sia paleograficamente possibile, ammettendo l’omissione d’un segno d’abbreviazione, giungere ad «ecchionor» ed alla lez. proposta che permette di ricavare un senso stentato, ma logico: È tempo ch’io ponga innanzi a tutto l’onore. Che sono il piacere e il vantaggio? Pur molto (e doveva valer meno) se si dispongan le cose bene e saviamente. Ché se essi sono contro l’onore, il vantaggio diventa danno e la gioia noia.


149, v. 5 . Cioè: e procacciare d’averlo.

v. 22: «non sian»; il Val. emenda: «lasciar» e non considera la frase come interrogativa. Mi sembra però che, conforme al concetto espresso ne’ versi 16-20, qui si voglia dire il contrario di quel che il Val. pensa. Se è vero che l’uomo riscontra spesso un danno in ciò che crederebbe un vantaggio, è logica la domanda: E non sarebbe bene ch’egli si stesse alle uova, quando non sian sicuri i pollastri?


150, v. 4: «nobel»; il Val.: «mobil»; ma il danno è che una nobile terra sia distrutta da una scossa («discuso»), come una bella nave da una piccola falla («pertuso»).

v. 17: «E chi ecc.»; il Val.: «e chi nol vede?». Il senso si ricava a fatica: E chiunque lo vede un qualunque brutto viso è piú turpe di quanto piú esso è pulito. E cioè: come sul viso pulito la macchia appare piú che su quello sporco, cosí dove c’è piú valore piú lede il vizio. Perciò chi si crede migliore meglio deve guardarsi dall’esser deturpato («unito» = onito, aunito) dal vizio. [p. 362 modifica]

151, v. 8: «fallore», è emendamento del Val., che accolgo perché la lez. del ms.: «follore» è da ritener guasta, non potendosi ammettere la ripetizione della stessa parola in rima a tre versi di distanza.


153. v. 22: «bestial», con valore di neutro: fa cosa bestiale; Val.: «bestia ’l». Il senso è: forse non vitupererebbe giá l’altezza della condizione umana, per cui senza dubbio condanna se stesso, il privilegio che ha l’uomo, e fa cosa bestiale.


155, v. 13. Il ms.: «Despiacciate ormai despiaccia mico desso». Il Val.: «Dispiacciati oramai, Amico, d’esso». Intendo: Ti dispiaccia di trar te stesso in inganno con lui, considerando come un tuo piacere il fatto che senti noia.

v. 18: «che alore». Il ms.: «chealbe»; il Val. emenda: «che alma». L’emendamento che propongo non persuade molto; ma un «alore», aulore, profumo, odore, aderisce un po’ meglio alla grafia del codice e al senso.


156. È una rima equivoca, volutamente oscura, dalla quale non mi è stato possibile trarre un senso soddisfacente. Nulla è sicuro nella lezione che io dò: «amare» od «amar è»?; «ha ’n more» o «han more»?; «com’on» o «como ’n»?; «amaria» o «a Maria»?; «mort’on no» o «mort’onn’ho» o «mort’on n’ho»?; «chente be» o «ch’è ’n te be»?; «amante» o «am’ante»? Ecc. ecc. Quando si sian cercate tutte le soluzioni, anche le piú strane, non si giunge ad un senso; e se un senso par d’intravvedere, non s’è punto sicuri ch’esso sia quello buono.


157. Intendo: Non c’è quasi cosa piú sconvenevole e noiosa di questa e cioè che il male sembri bene e il bene male; e cosí non c’è cosa piú degna né piú graziosa di questo, che cioè appaia e sia discoperta ogni cosa di valore. E se questo male o bene risiede in tutte le altre cose, nell’uomo che è sovr’ogn’altra tanto preziosa, quale sará dunque? Appaia la virtú dov’è e non piú nascosta e viceversa ogni malvagia voglia viziosa sia smantellata, svelata e sembri in realtá tale quale è. Dico che io sperimento l’uomo meglio che in altro nel far reggimento, nel reggere, nel governare gli altri, perché occorre tutto il valore e tutto il sapere al rettore cavaliere, poiché in esso c’è «avvento d’ogni [p. 363 modifica] bisogno», cioè ad esso giunge, fa capo ogni bisogno. E voi operatore speciale di reggimento, accrescete ogni pensiero, ogni amore, ogni studio per valere (o: validamente): io m’avvedo che il vostro valore è messo alla prova nel miglior modo sempre per un miglior sapere. Nel vostro reggimento buono si rivela alla prova il vostro oro; ora comprendo ch’esso è posto al fuoco e ciò vi piace, perché un grande compito non può esser desiderato che da un grande cuore.

v. 18: «ovreri». Ho creduto necessario emendare cosí l’«overi» del ms. che non dá senso. Il Val. e il Mon. emendano «avere» e, nel verso seguente: «pensere»; ma qui la rima è «eri» e non «ere»; si vedano «misteri» e «cavaleri» della stanza precedente.


158, v. 1. Che «valore» sia femminile e sia quindi da seguire la lezione del ms. B che ha «nova», laddove A legge «novo», è accertato dalla rima «creata». Femminile è anche «dolzore» alla provenzale, nel v. 4, dove abbiamo invece seguito il ms. A, cavandosela B ambiguamente con un «novell’adduce e dolce in me dolciore». Cfr. anche il v. 11, dove A legge «che novella dolzore»; ma è da preferire la lezione di B per non avere la ripetizione in rima della stessa parola.

v. 7. Lezione di B; A legge: «a memora del novo vostro vigore»; comunque il verso risulta irrimediabilmente ipermetro.


160. Il son. è nel ms. I introdotto con la rubrica: «f. Guiton sonetto per la sopra ditta lettera». Si riferisce infatti alla lett. XXVI: Mer., p. 323 segg.

v. 11. Il senso è: dá a voi voi stessi, cioè la vostra vita e quanto possedete.

vv. 17-18. Intendo: quale colui che imbrattasse il vestito ed egli si affannasse per adornare il viso ed i piedi.


161, v. 14: «gira» è del ms. B e lo preferisco alla lezione «tira» di A e C, seguita dal Val., anche perché ha riscontro nella canz. VIII, 51 .


162. Il son. è collegato col precedente; cosí infatti si trova nel ms. A, laddove tra i due c’è nel ms. B il son. 160 che va collegato, come segnalò il Santangelo e fece il Mariano, con [p. 364 modifica] la lett. XXVI. Nel ms. C poi i sonn. 161, 162, 170, 171, 215 sono posti di seguito come stanze d’un’unica canzone; ma il son. 170 non ha nulla a che vedere con la presente coppia, alla cui unione provvede anche la ripetizione dell’ultima parola del primo («mira») con la prima del secondo («miri»). Credo che il senso sia questo: Osservi bene il suo stato ciascuno che ne abbia bisogno e si mantenga ben diritto col suo buon sapere e non giudichi e consideri come rimprovero ciò che invece è scritto proprio a sua salvazione. Desideri — prosegue con linguaggio figurato — che il suo drappo sia ben cardato e non unto. Il cardare, cioè la cardatura, risulta unticcia dove il pettine non ha funzionato bene, dove cioè il palmare (che è forse la stessa cosa che la palmella, cioè quella lana broccoluta che s’accumula ne’ denti del pettine impedendo che questo funzioni bene) è trafitto, cioè è oltremodo fitto. Se uno allontana da sé i lusinghieri, l’oro, gli amici, deve in seguito per conseguenza dar poca importanza al potere e al profitto. In sostanza, quanto piú cerca di elevarsi tanto piú è infisso indietro ed in basso. Perché se il potere può esser procurato da un soldo e il volere da una libbra, perché si paga meno dove s’acquista di piú, maggiormente gode il mondo e Dio chi, da signor saggio, che si libera da ogni interno od esterno dissidio, che spegne in sé ogni vizio e mostra la propria virtú, ha il dominio di sé e del suo.


163, v. 11 segg. Intendo: ed io continuo a disdegnarti e perseguitarti, come tu fossi un reo o un mio grande nemico, e — poiché non poteva piú — sempre a dolermi; e tu invece mi sei («ème») sempre amico e sempre mi cerchi, quasi io fossi per avventura necessario.


164, v. 7 seg. Ha detto che il dolore ha stazione in lui e lo fa star male; ora aggiunge che amore oppone a questo delle gioie, ma queste gioie è pur necessario che debban finire in noia.

v. 14: «ch’a mal», è un emendamento; il ms.: «conmal»; il Val.: «ch’on mal», intendendo «on» come sincope di «onni».


165, v. 9. Il senso par questo: Se, nella condizione di chi ama, tu valessi appieno in ciascuna virtú tanto quanto valse il re Alessandro nel donare, pure chi conosce bene le cose ti disprezzerebbe, perché in amore troppo è il male, e, se anche vi appare [p. 365 modifica] alcunché di bene, questo finisce col tornare in gran male. Ed è questo un concetto ripetuto a sazietá dal nostro.


167, v. 1: «Gioncell’», che il Val. spiega «giovincello», è invece un uccello acquatico; ant. franc. «joncelle», e dunque «gioncella». V. Not., 9 .

v. 3 . Il senso è: una piccola favilla di sdegno può pian piano accendere un grande furore anche in un mite cuore. Pur chi considera un gioco il male altrui, e cioè non dá peso al male che gli può venire dagli altri, con l’andar del tempo finisce per contrarre il viso («s’agruma» vale forse si contrae, e quindi s’aggrotta, si atteggia a disgusto e a disdegno).

v. 7. Il senso è molto oscuro e la lezione incerta. Il ms.: «Lultime attesemante uolte nocho». Il Val.: «L’ultime attese, mante volte, noco»; ma non capisco che relazione abbiano qui col senso le «attese»; e «noco» per «nocono» (ché questo immagino abbia pensato il Val.) se non impossibile, è certo alquanto sforzato. Non meno sforzato, ma piú aderente al senso parrebbe interpretare: Se io nuoccio molte volte, ripetutamente, l’ultimo atto è che Dio parte ecc.


170, vv. 10-11. Il senso è: si può dir libero solo chi non ha voglie fuor di ragione e non ha quindi ragion di temere e di subire l’imposizione di leggi divine ed umane.


171, v. 13: «par ben» o «ben tal», secondo C, cioè: un simil bene.


172. Il movimento di questo son. è simile a quello della canzone XXXIV, dove pure è un’enumerazione delle cose che son gradite al poeta; ed è imitazione nella forma esteriore, non nello spirito (cfr. Gaspary, Scuola Sic., p. 130 segg.) dei «plazers» provenzali. Cfr. Pellizz., p. 228 segg.

v. 1: «patiente»; il Val., seguendo il ms. A: «piacente»; e forse la lezione piú esatta sará: «paciente».

v. 2: «engiulia» è lez. di B, corretta dal Val. in «ingiuria»; il ms. A: «angostia», ma sarebbe una ripetizione di «dolore».

v. 3: «ben umil», cosí il ms. A; B: «benigno al»; ma cfr. v. 1: «ben patiente» e, pel concetto, il v. 23 della canz. XXXIV.

v. 14. Cioè: per questo mi piace piú d’ogni altro il vincitore di questa guerra. Cfr. XXVI, 31. [p. 366 modifica]

173, v. 2: «nemico»; nel ms. è uno spazio lasciato vuoto, che il Casini giudicava capace di contenere circa quattro lettere e forse pensava a «male». Il Val. ricostruisce: «periglio».

v. 3. Intendi: o mortale piú pieno di pena lá dove piú sei gioioso e vieppiú folle dove piú sei assennato, o tu che sei piú pieno di danni per quanto piú ricevi e molto piú vergognoso per quanto piú sei pregiato e piú timoroso dove piú sei sicuro ed hai maggior guerra dove piú ti par di godere uno stato di pace, ecc.

vv. 13-14. Il senso è: che pazzia è mai desiderar te, dal momento che teco il bene è assai cattivo e al di fuori di te ogni cosa è buona? Ma invece di «for te» si potrebbe legger «forte» e intendere: e grave è per noi ogni cosa buona.


174. Il son. dice la fanatica gioia del convertito e trova riscontro nelle canz. XXVII e XXXII.

v. 13. Il Val.: «di ligio ecc.»; ma l’emendamento non ha ragion d’essere. Il senso è che egli da un rottame libero ed in balia del mare è tornato lá dove si può tenere ad un porto fermo, nel quale spera sia ogni bene.


175. Comincia con questo son. la serie dei vizi, che comprende i sonn. 175-185, cui segue quella delle virtú, sonn. 186-198.

v. 3. Intendo: nessuno ama il male, quando lo conosce, né mette opera in ciò che non ama.

v. 5. Il senso è: la conoscenza mondana mostra ai suoi che non c’è che una cosa che abbia valore: il diletto carnale. O superbi, avari e vanitosi! Questa cosí fatta loro scienza mostra che è sol ragionevole amare il mondo e propria inclinazione («vena») è amare la carne e il mondo. Perciò predomina ogni malanno e vizio che conduce la nostra etá alla perdizione.

v. 12. Intendo: e quanto maggiore è tale conoscenza, e quanto piú essa è chiara, tanto piú rende piena la voglia in questo amore; e quanto piú questa voglia è piena, tanto piú porta al male.


176, v. 6: «tutt’i toi»; ma potrebbe anche leggersi, secondo un costrutto comune in Guitt.: «tutti toi».

v. 9. Intendo: ma disperdi («fund», funde, fundi, dal latino fundere) e disperderai te e i tuoi tutti cosí come il diavolo padre vostro li ha distrutti in ogni male e in cielo e in terra. [p. 367 modifica]

v. 12 segg. Intendo: Ha ucciso il mondo, accrescendo ogni dolore; affligge quelli che son saliti, allontanando i timori: e ciascuno alla fine va in rovina quasi distrutto. Per l’ultimo verso, qualora si consideri verbo l’«e» iniziale, si potrebbe anche intendere: ciascuno è distrutto quasi fino alla rovina.


177, v. 2. Intendo: molta angoscia havvi nel cuore, dove piú il cuore prende te.

v. 11: «usurari» è emendamento imposto dalla rima; i mss. e il Val.: «usurieri».

v. 14. Il Val.: «E tenere ah! fai Dio quasi denieri» e spiega «denieri»: «ultimo, dallo spagnolo dinerons, e dal francese deniers». Intenderei «denieri» piuttosto come: danaro: fai considerare il danaro quasi un Dio.


178, v. 9 segg. Intendi: che vergognoso mercato e che pazza idea è quella di trascurare Dio e se stessi ed ogni bene per una piccola gioia, sconvenevole e mista per di piú a tormento! E che valido e glorioso pregio è che ti vinca specialmente una giovane persona; e che vergogna invece che ne sia vinto un saggio uomo!


179, v. 3 segg. Intendo: in te l’uomo perde Dio e se stesso e tutti i beni, perché pone, fa nascere in lui una voglia nemica d’ogni cosa buona. Ognuno che è tuo prova sé malvagio, cioè dá prova di malvagitá, poiché ecc.


180, v. 3. La lezione del ms. sará forse errata? Il Val. emenda: «Onta fai ’n disfare e far noioso»; ma dal verso anche cosí com’è, si ricava un senso piú probabile: tu fai cosa vergognosa nel dire e nel fare, fare per di piú noioso.

v. 6: «in te danni»; il ms.: «inte edanni». Il Val. emenda: «perdi e danni e fai r.».


181, v. 9: «podere strai»; oppure: «poder estrai». Il Val.: «poder trai».

v. 10: «accolli», per la rima ed analogamente al «tolli» dell’ultimo verso; ma il ms.: «accogli».


183, v. 6: «hate», il ms. «ate». Intendo: ti ha; il Val. emenda: «fai». [p. 368 modifica]

v. 11: «de bon solo e d’amore». Il Val. emenda: «debb’uom solo ed amore». Ma il senso è: Se l’uomo fa opera in tutto degna d’onore, non deve chiedere onore, né compierla per questo, cioè per ottenere onore, ma deve compierla solo per rispetto del bene e dell’amore di quello che dá grazia nell’operarla, cioè dell’intimo piacere che si prova solo ad operarla.


184, v. 4. Intendo: se la gola o la carne o altro vizio induca a villania, sempre la codardia ha assoggettato e conculcato l’uomo. Si potrebbe anche dividere: «ha dessa», rimanendo il senso invariato.

v. 12 sgg. Il senso è: questo vizio è piú comune tra i superbi che tra la bassa gente. Ma quanto piú uno è altolocato, tanto piú, se consideri, è il servo piú vile tra i servi dei conservi.


185, v. 9: «che dea rendendo», cioè: che deve rendersi.


186, v. 5. Intendi: sempre, in ogni tempo, con te la perdita fu un vantaggio, l’onta un onore, e ogni noia fu una gioia.

v. 7. Il ms.: «Pregio forte ebonomo addue»; il Val.: «Pregio forte né buon uomo tuo addue». La doppia «d» di «addue» non deve trarre in inganno: ha lo stesso valore grafico che «ebbono» e «eppregio» del verso seguente; ugualmente l’«e» finale è epitetico, come in tutte le altre parole in rima: «vertue, tue, fue». Ne deriva questo senso: al di fuori di te, senza di te, dove («du») l’uomo ha pregio e buono? E viceversa con te dove può mancare buono e pregio?

v. 12 Il ms. «Come esouente rei rubalti», lezione evidentemente mutila. Se «rubalti» vale ribalti, rovesci, si potrebbe emendare: «Come bene e sovente ecc.», oppure, come ha fatto il Val., «Come e sovente tristi e rei r.».


187, v. 1 segg. Il Val.: «Di vertude scienzia... Merto avan’ tee; ecc.» e spiega «avan’ tee»: «innanzi a te». Credo che debba intendersi: Eccoti qui, t’è davanti il merito della virtú di scienza, di cui nessuno può stimare il grande potere e valore, perocché il sapere vuol condurre, guidare ed illuminare tutte le virtú. E dico che poco vale ogni virtú ed ogni bontá, dove bene scienza non appare. [p. 369 modifica]

v. 14. Il Val.: «E senza lei diparte onne corrutto»; ma non dá senso. Potrebbe infatti spiegarsi: senza lei, cioè senza la scienza, s’allontana ogni pianto? Intendo: senza lei è pianto da ogni parte.


188, v. 11. Il Val. emenda: «e Dio fai tu regnare». Parrebbe debba intendersi: rendi Dio ciò che tu vuoi.


189, v. 3: «demettendo» cioè perdonando. Perdonare al nemico è ciò ch’egli ritiene meritevole, sopra ogn’altro dono di generositá.

v. 9: «an nemici», cioè: anche nemici; il Val.: «annemici», cioè inimici.

v. 12: «A degni»; il ms.: «addegni», come, nel verso seguente: «arricchi». Il Val. però ha: «addegni» che considera come verbo che spiega in nota: «degni, dignaris».


190, v. 8. Potrebbe anche leggersi: «tuoi car’e belle figli’ha’isposate»; il Val.: «Tue care e belle figlie hai tu sposate». Per «tuoi» = tue ogni dubbio è tolto dal «tuoi gioi’» del v. 13.

v. 11: «è ’n lor», il ms.: «ellor», con la ben nota grafia; il Val.: «è lor».

v. 12: «a cui», cioè: in confronto della qual dolcezza celeste quella carnale vale ecc.


191, v. 14: «e miser fort’e vil»; il Val.: «Miser el forte, e vil ecc.»; ma «forte» ha qui, come spesso, valore avverbiale di molto, assai.


192, v. 14: «tutto», è emendamento del Val.; il ms.: «retto».


194, v. 5: «tu’ regna», cioè: i tuoi regni.

v. 13. Il Val.: «Siccome Naso avisò con dottrina», intendendo per «Naso», Ovidio. Il senso è: Tu sei per la dottrina quello ch’è il naso per il viso.


195, v. 14. Intendo: e dove sei, si fa per opera tua un dono buono e vero.


196, v. 14: «ch’è fine», cioè: cui è fine ecc. Per «che» con valore di «cui» cfr. l’analoga espressione nella lettera XIII (Mer., p. 164). [p. 370 modifica]

199, v. 8. Intendo: se, come è detto ne’ versi precedenti, per se stesso ogni buon cuore deve amar la virtú ed odiare il vizio, quanto piú non deve farlo in considerazione di ciò che ciascuno (cioè la virtú e il vizio) dá?


201, v. 12. Intendo: la virtú vuole libera la volontá e chiede d’operare volentieri nascostamente, come davanti ad un gran pubblico.


203. È in risposta al son. indirizzatogli da Meo Abbracciavacca, pubbl. dallo Zaccagnini, Rimatori ecc., p. 10. L’Abbracciavacca osservava che alla castitá è necessaria l’astinenza dal mangiare e dal bere; e perciò i santi padri frenavan lussuria con erba ed acqua. Si può, domandava, rimaner casti non astenendosi dal bere e dal mangiare? Guittone risponde che è possibile.

v. 2: «cred’om ecc.»; cioè: credo che l’uomo esperto dica che è, sí, necessario mangiare e bere, ma non la lussuria.

v. 5: «apparo», so, conosco, riconosco; e cioè: riconosco che è necessario, cioè inevitabile, lo stimolo alla lussuria.

v. 8. È concetto conforme al v. 9 del son. dell’Abbracciavacca. Contrario a chi vuol vincer lo stimolo di lussuria è certo il mangiare e il bere, ma molto piú, come ho sperimentato, gli son contrarie le delicatezze del mangiare e del bere.

v. 13. Il Val. pone «:» dopo «cor», ed emenda, nel verso seguente «e si» in «cosí». Mi sembra invece che «gran valimento» debba considerarsi come oggetto di «han difeso» del verso 11.


204, v. 6. Verso oscuro. Il ms.: «chessenbra pio uia cheuenesiamarchi»; il Monaci: «che ssembra piò ’n via che Venesia Marchi», e spiega «Marchi» come «persone col nome di Marco». L’espressione «piò via» è comune come «mante via»; intendo: che sembra molto piú di quel che Venezia in confronto di quelli che si chiaman Marco». Per «a» in questo senso, cfr., per es., il son. 190, v. 12. Si potrebbe anche pensare ad un lieve emendamento: «piò via ch’en Venezia Marchi»: il senso sarebbe il medesimo.

v. 8: «sovralarchi», cioè larghissimi, ed è spiegazione del Monaci.

v. 11: «accorgo»; intendo: guido; il Mon. e il Val.: accorro. [p. 371 modifica]

v. 13 seg. Intendo: perciò cercate che ciascuna parte (borgo) di essa riesca a limare per mezzo delle vostre correzioni ogni imperfezione.


205, v. 2: «m’archi»; cosí il Monaci propone di risolvere il «marchi» del ms., intendendo: mi tiri, mi lanci.

v. 3. Cioè: il saggio non ode volentieri la sua lode, anche se chi loda in tutto marchi (cioè segni, noti) giustamente. E perciò il cuore non ardisce lodar te, ancorché tu meriti lode e marchi lode. Quest’ultimo «marchi» è dal Monaci spiegato come voce del vb. «marcare», coniare, battere.

v. 8: «marchi». Il Mon.: plur. di «marco», moneta, o di «marco» da «martulus», martello. Ma la parola dovrebbe avere un significato opposto a quello di «saggi»: che significhi «somari»? Cfr. «Arri, marco!».

v. 12: «dicimi», cioè: mi dici.


206, v. 1. Intendo: Si può un poco scusare chi parla con sicurezza di cosa ecc.

v. 7: «guer mo», cioè: guari adesso.


207, v. 8. Intendo: non amo che ferro tocchi il mio corpo.

v. 9 segg. Intendo: È necessario che ognuno raccolga quel che ha seminato; il cattivo seme ha prodotto il cattivo frutto, perché cosí fu seminato in principio. Ben fa ciascuno che teme ciò che può venire, non ciò che fu nel passato, e ne vorrebbe insieme vedere la semenza per il bene comune.


208. Su questo son. inviato dal giudice Ubertino, che fu podestá di Arezzo nel 1249 a G. e sulla risposta seguente v. Eg. Guitt., pp. 37, 38.


211, v. 1. Il conte Gualtieri, al quale è diretto il sonetto, è forse lo stesso, cui si fa cenno nella canz. XXIX, v. 211 . Si noti la «replicacio»: conto... Conte... conta. Anche questo sonetto si riferisce al momento della conversione ed espone il concetto stesso dei vv. 36-38 della canz. XXVII.

v. 5: «homi», cioè: ho per me, ritengo sia per me.

v. 9. Intendo: né a me né a te è lecito servire al di fuori di Lui, cioè del Signore, di Dio. [p. 372 modifica]

v. 10: «lo»; il ms. e il Val.: «la». L’emendamento mi sembra inevitabile.

v. 12: «vietal, cioè «vietali»; il Val. emenda: «vieta».


212, v. 1: «Guidaloste» fu identificato dal Torraca, Per la st. lett. del sec. XIII, p. 29 segg. con un «joculator de Pistoria».

v. 12. Il Pell. nella recensione a Mer. (Giorn. st., LXXXV, 133 segg.) propone un emendamento che non mi sembra accettabile: «ciascun[o] biasmi e reo ten, si t’è bono:», intendendo: tu biasimi e tieni reo ciascuno, se ti torna conto; credo che il senso sia: ritieni reo ciascuno, e sí ritieni te buono.

v. 14: «galeati». Il Mer.: «ga eat’i»; ma credo che l’articolo non ci debba essere qui, come non c’è nel verso precedente: «matti». Nel ms. leggiamo: «galeati saccenti di te non sono»; per restituir la misura l’emendamento piú semplice è quello giá adottato anche dal Val. e dal Mer., e cioè la soppressione di «di te».


213, v. 4: «anch’ee», cioè: anch’e’, anch’esso.

v. 8: «see», cioè: sei («se’», con «e» epitetico).

v. 11: «torna final», torna finalmente. O sará da leggere: «torn’a final»?

v. 14. Il verso è ipermetro e non si riduce a misura se non troncando, nella lettura, «seme» in «sem».


214, vv. 9-14 II senso delle terzine non è chiaro. Forse si potrebbe interpretare cosí: Nell’amore è ragionevole dare importanza, stimare la «voglia», cioè l’aspirazione, non il fatto; e l’uomo prode deve stimare, dare importanza solo a ciò che è ragionevole (e quindi all’aspirazione, al desiderio, anche se non è seguito dal fatto). E a voi, messere, vi acqueti la vostra straordinaria prodezza, la vostra grande ragionevolezza, non la mia bassezza, nella vostra alta posizione. A me, la materia della vostra bontá sempre è obbligazione della mia fede.

v. 11: «sorprò»; il Val.: «sol pro». «Sor» ha qui, come altrove, un valore rafforzativo.

v. 12: «en»; il ms.: «e», ma si può supporre che sia stato omesso il segno d’abbreviazione; il Val. emenda: «a», che pur concorderebbe col senso, se inteso, come è possibile in Guittone, come: in confronto di. [p. 373 modifica]

215, v. 3: «edoce», cosí il ms. C; B: «adduce». Il Val.: «addoce». Credo che il senso sia: La voce degli strombazzatori del vostro pregio mi colpisce spesso, e bene nel cuore per amor vostro mi insegna ciò che io giudico buono in me, perché spesso adduce l’anima mia a voi, dove io ho preso grande sapore di gioia. E in confronto di quel che mi sembra vivanda («dapo», daps ) d’amore, ogn’altro sapore mi par cattivo e nocivo.


216. Il Mer. riporta questo son. (p. 344) nell’ipotesi che sia diretto allo stesso Messer Don Angelo, priore di Camaldoli, a cui è rivolta la lett. XXVIII.

v. 11: «in despregio», cosí emenda anche il Val.; il ms.: «io despregio».

v. 12: «a voi voi son», cosí il ms., ed è da intendere: vi son tacente di lodarvi, cioè: taccio di lodarvi.

vv. 13 e 14. Cosí il ms.; ed è da intendere: mi fu diviso, impedito di chiedere amore tra noi, ma io chiedo, desidero voi signore e me servente.


217, v. 6. Il senso è: fare a voi le vostre lodi (lodar voi a voi), per quanto ve ne sappia degno, non me lo consentono ragione e sapere.


220. Il Pell., che pone questo sonetto tra quelli d’amore, spiega i primi 6 versi cosí: «Messer Bandino, non mi è grave il peso d’amore, ché anzi ne fui sommamente (?) onorato; ma tuttavia m’aggrada e mi è bello l’avere ‛dislogato’ (liberato) l’anima, il cuore, e il trovarmi ora uomo libero. Quantunque sia detto comune che uomo si anima (?) per forza d’amore, io so dirvi che, da principio a fine, accade tutto il contrario»; ma a questo punto dichiara: «Come poi prosegua il ragionamento, non so vedere». Né so io vedere, se anche non rinuncio a qualche tentativo, pel quale si potrebbe forse intendere: Se n’è giovevole dire, la ragione è nel corpo, per cui lo sento bene e ho ogni cosa al massimo grado. Comodamente ora scende in me e sale la vera gioia, che discende (disomma) da vero bene, cosí che io assai mi appago, se ho appagamento al corpo È ben giusto che in ciò seguiate il sommo voi, a cui non credo che ora piaccia questa canzone, o quest’antifona (salmo). Seguita quell’amare dove mai sale il male. [p. 374 modifica]

v. 14: «Seguita». Se il senso fosse sicuro, sarebbe forse da emendare: «Seguit’ho», per toglier la sconcordanza col «voi» del verso precedente.


221, v. 11. Mi sembra che qui sia istituito un paragone tra quella «tale» ed Elena. Il verso non è certo chiaro; ma lo è ancor meno nella lezione del Val.: «Per tal che ben piú valse e lena alquanto,».


223. Manca nel Val. che ha voluto forse evitare le enormi difficoltá d’interpretazione che il son. presenta, e per le quali è forse azzardato dare una spiegazione qualunque.


224, v. 2: «a le centre» non capisco; il Val.: «al ventre».

v. 8. Verso oscuro. Il ms.: «dete che grande acor picciulon uentre». Il Val. emenda arbitrariamente: «Che a grande picciol uom fa che sottentre».

v. 9. Il Val. emenda: «Ma che te mosse almeno a saver abbo».


229, vv. 5-7. Versi oscuri, ai quali non saprei dare un senso soddisfacente. Dal modo come ho risolto «enonbene» del v. 5 e «como saggialdo dere» del v. 7, si potrebbe forse intendere: la mia piccolezza («picciuol» inteso come neutro) sta nel compiere il «non bene», cioè il male, dove (sta invece) la ragione del vostro onore. Il vostro è grande cosí che uomo lo saggia di udire, cioè che si prova udendolo, è «vox populi». Il Val.: «como saggio altro dere», spiegando «dere» per «dire».


230. Il sonetto è rivolto a Meo Abbracciavacca, che rispose col son. «Vacche né tore piò neente bado», che si può leggere tra i Poeti pistoiesi dello Zaccagnini a p. 11.

v. 7: «sono»; il ms.: «sontu». Volendo conservare la lezione del ms. si potrebbe leggere: «Allegro son; tu, Meo, che se’ tornato; se pelegrin fusti, ciò m’è a grado».

v. 12: «ten», cioè forse: «tieni».

v. 13: « ’n un»: il Val. «nun», che spiega: niun.


231, v. 3: «nomino, ma»; oppure forse: «no mi noma». [p. 375 modifica]

232. Il ms. A attribuisce questo son. a Chiaro Davanzati. Lo pubblico qui per l’autoritá del ms. B; ma forse è da assegnare a Chiaro, anche perché esso si legge in B nell’ultima parte, dove si raccolgono sonetti di autori diversi, laddove esso si trova in A in un gruppo notevole (nn. 545-602) di sonetti tutti di Chiaro. Nel ms. A al sonetto è aggiunta una coda, che dice:

     Però se carta impetro
per Dio or intendete:
se con voi è san Petro,
al suo detto credete.


233. In risposta al son. di Meo Abbracciavacca pubbl. dallo Zaccagnini (Pistoiesi, p. 12). Il senso par questo: Dio è tanto degno d’esser servito, che può stimar nulla chi piú lo serve; e trovo sia tanto grave ingiuriarlo, che può non soddisfare chi meno lo ingiuria. Non ha il buono un segno certo per la sua speranza, e cosí non deve il reo disperare di Dio. Misericordia è il maggior regno ch’abbia il buono e il non buono per aver fiducia. Sono d’accordo Giustizia e Pietá e ciò che l’una vuole, l’altra lo desidera da Dio, poiché Giustizia non condanna mai l’uomo che poi si pente, né pietá perdona, quando permanga la malizia. La Giustizia vuole e sa a chi deve conceder pietá e questa punisce («puna») con lei, cioè con la Giustizia, chi duramente nuoce.

v. 13: «e sa»; il ms. «essa», per la nota grafia. Il Meriano: «essa», e spiega: «La Giustizia vuole quella Pietá che deve (cioè: che è giusto concedere)».


234, 235. Tenzone con messer Onesto. Seguo il ms. F per l’ordine dei sonn., giudicando quello di Onesto una risposta a Fra G. e non viceversa. Il son. di Onesto è in Zaccagnini, Rimatori bolognesi, Milano, 1933, p. 124.


236. Ho tolto le caratteristiche venete del ms. Q, unico («falbo, richeza, deletanza, falire, vezo, nasesi, nula, zire, ti, zorno, teristi, alegranza»).

v. 9: «stessi» è correzione apportata al ms. da Nicolò de’ Rossi che lo possedé. Il De Rossi si preoccupò evidentemente dell’assenza della rima. Si tratterá forse di lezione guasta che peraltro non si saprebbe come emendare meglio di quel che abbia fatto il De Rossi. [p. 376 modifica]

237, v. 1: «Montuccio» è certamente Monte Andrea del quale segue nel ms. A la risposta per le rime.

v. 3. Intendo: a cui fo sapere qual sapore ha il mio frutto.


238. Il sonetto è indirizzato da un anonimo a Guittone, che risponde col sonetto seguente. Ma il senso risulta solo in parte dalle quartine sia dell’uno che dell’altro sonetto e si oscura in modo per me irrimediabile nelle terzine. All’ultimo verso s’allude ai protagonisti del romanzo di Chrétien de Troyes , Érec et Énide.


240. Questo trattato d’Amore si legge in un ms. del Escorial (Cod. c. III, 23) e fu da me pubblicato nel Giorn. st. della lett. it., XCVII, pp. 49-70). È una collana di sonetti ad illustrazione d’una figura d’Amore, che il ms. non ci ha conservato. La lez. del ms., quale fu giá da me riprodotta, è qui lievemente variata per togliere le peculiaritá grafiche ed i venetismi propri di quel codice. Ho conservato alla testa di ciascun sonetto le rubriche che si leggono nel ms.

v. 4. Intendi: che ha fatto al tuo cuore.

v. 9 segg. Il senso delle terzine è questo: Amore si dipinge come vedi qui e cosí si dipinge ciascun amante ferito fino al morire da un vano sembiante. E io dico che a chi è cosí ferito manca pure il desiderio di curarsi: ciò che largisce Amore teme rimedio.

v. 14. Dopo il sonetto doveva esser riprodotta la figura d’Amore, cosí com’è descritta nel passo che segue. I versetti che si trovano in continuazione completano il senso del sonetto: se curarsi e guarire è cosí facile, non volerlo fare è disonorevole. Nel desiderio di non curarsi è dunque disonore, ma nel desiderio di guarire è nobiltá, «barnaggio», cioè baronaggio, poiché sottostare al nemico diminuisce il valore, è avvilimento.


242, v. 7: è con una «te». Intendi: il nome in volgare è con una «te», cioè aggiungendo a «mor» un «te», si ha in volgare «morte».


245, v. 5. La prima parola del verso è ricostruita. Intendo: si vede fin dal tempo antico cosí come un novizio in ciascun mortale ecc. [p. 377 modifica]

v. 9. Nel ms. si scorge solo: «... che he... de ciascun amante». La ricostruzione non è certo soddisfacente; ma non so trovar di meglio.


247. v. 9. Non oso emendare; ma il venetismo del verbo al singolare è troppo evidente per intuire qui un guasto della lezione primitiva. Sará da ricostruire: «L’ala en cui ecc.»; oppure: «L’ale en lui si figuran; e no è senza».


248, v. 12: «stuta». Mario Equicola che nel suo De natura de Amore ricorda questa serie di sonetti, come una «canzone», cita questo verso ma legge «satia» in luogo di «stuta». Il senso comunque non varia perché qui si parla del fiero volere d’amore che non si «stuta», cioè non si spegne, oppure non si sazia.

v. 20: «le ventri». Il ms.: «llevetri» con un segno d’abbreviazione; dunque: «lle nvetri» o «le ventri». Comunque non capisco.


249, v. 14. Il senso non è chiaro, a meno che non si consideri l’ultima parola come voce di un supposto verbo «infernare», cacciar nell’inferno.


251, v. 4: «la figura», qui è sostantivo e vale: l’immagine, al v. 8 è invece verbo: la disegna.