Rime (Guittone d'Arezzo)/Annotazioni ai sonetti d'amore

Annotazioni ai sonetti d’amore

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Guittone d'Arezzo - Rime (XIII secolo)
Annotazioni ai sonetti d’amore
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ANNOTAZIONI AI SONETTI D’AMORE

1, v. 12: «facie». Preferisco questa forgia e la seg.: «vade» del ms. A a «facci» e «vadi» di B.

2, v. 9: «tu», manca nei mss. ed è emendamento del Pell.

v. 12: «l’averesti in». Seguo, contro l’opinione del Val. e del Pell., la lez. di A, laddove B legge: «la vorresti al». È possibile che il poeta ammetta che Amore, pur volendo la donna a lui sottoposta, non abbia tanto valore»? Mi par debba piuttosto dire: Tu mostri di non aver tanto valore di ridurla al tuo potere; credo invece che ti sarebbe agevole. Ma se non puoi sottoporla a me, tuo servitore, fa almeno ch’io non debba morire.

4, v. 5. Seguendo fedelmente A, mi sembra si possa ottenere questo senso: che inoltre, com’è buon diritto, accade che l’una cosa suol succedere come l’altra, può cioè avere l’un effetto come l’altro. Intendo dunque «sorte» come verbo, laddove il Pell. vi vedeva un avverbio («sorte che», nel caso che), e il Par. un sostantivo: destino.

v. 10. Sull’interpretazione del verso il Pell. nota: «non avendo io coraggio di mostrar piacere verso ciò che mi piace», e il Pellizz., p. 280 preferisce la lez. di A: «usare me» per spiegare: «non usarmi piacere ciò che per natura sua è piacente (la donna)», spiegazione questa esatta, ma che non richiede necessariamente la lez. di A, poiché «osare» vale: usare.

5, v. 9 segg. Intendo: Il dolore che mi viene da voi, mi spegne, mi distrugge, poiché voi siete assai piú bella e crudele d’ogni altra, e piú mi interessa il vantaggio e il danno che vengon da voi. [p. 342 modifica]

6, v. 6: «no alento». Se lo iato sembrasse troppo forte si potrebbe facilmente emendare, col Val.: «non alento».

v. 10. Il ms. e il Pell. mancano del «che», inutile per il senso, ma indispensabile per la misura, poiché «guisa», come notò il Par., non può contare che per due sillabe. L’emendam. è del Val. Il senso è: al solo veder dipinto il mio tormento, anche il peggior mio nemico avrebbe compassione.

7, Tutto il son. è poco chiaro. Il senso mi par questo: Ahimè, buona donna, se quantunque io sia per voi un nemico, secondo la vostra opinione, io vi dedico questa mia inimicizia con cortesia ed umiltá, ebbene voi mi mostrate pur sempre con villania ed orgoglio il vostro malvolere. Ma cortesia vale nell’inimicizia come nell’amicizia. Si può uccidere usando cortesia e si può dar vita con villania. Siatemi dunque nemica ed uccidetemi cortesemente. Mi sarebbe non meno gradito, che se mi rendesse vita un’amicizia vile e sconoscente.

v. 14. I mss. hanno: A: «a vita a. vile nescon.»; B: «vita d amista desc.». Il Pell. s’attiene a B con lieve modificazione: «vita da amistá desc.». È lecito un tale iato? — domanda il Par. — Certo di iati se ne incontran tanti e d’ogni genere e in lezioni sicure, che anche questo non meraviglia troppo. Tuttavia mi sembra che o sia da seguire in tutto A, o da ammettere nella lez. di B l’omissione di «vil». Al Pell. quel «vile» sembrava peraltro poco opportuno.

8, v. 8. Il Pell. e il Par. hanno molto discusso la lez. e il senso di questo verso. M’allontano da entrambi, seguendo con un lieve emendamento la lez. di A. Ne risulta questo senso: E voi, amore, m’avete dimostrato che mi date tanto piacere quanto basta per spegnere, ammortizzare il veleno, in guisa che non mi uccida, cosí che io mi arrenda in vostro potere.

v. 14. Il v. manca nel ms. B. Il Pell. aggiunge al testo di A un «che», che non serve al senso e guasta la misura: «piacciavi che l’org.».

9, v. 4 segg. Il senso è: e non trovate altra ragione di questo, nessun altro perché, all’infuori del fatto che io vi chiedo, pretendo dalla maestá vostra un compenso qualsiasi per la mia fedeltá. [p. 343 modifica]

v. 11. Nel primo emistichio m’attengo alla lez. di A, laddove B, seguito da tutti i precedenti editori, ha: «ma ciò d.». Non vedo come l’avversativa possa dar senso, ché anzi qui si vuole spiegare la ragione dell’asserzione precedente e cioè che egli non vede che cosa ci perderebbe se si degnasse di mettere un poco in valore la misericordia, ché anzi — soggiunge — questo ucciderebbe l’orgoglio e vi starebbe bene, donerebbe grazia. È il concetto medesimo che si troverá anche nel son. n, v. 3: «che merzé vince orgoglio e lo decede». Nel secondo emistichio i mss. hanno concordemente «orgoglio che vi sta bene», e cosí stampa il Pell. senza preoccuparsi troppo della misura, in omaggio alla quale il Val. ridusse «orgoglio» in «orgoi». Ma io non vedo come potrebbe trarsi un senso conservando il «che»; e non esito ad emendarlo in «e», come richiedono il senso e la misura.

v. 12. Anche qui credo che si debba giungere ad un emendamento. I mss. hanno: A: «Soviemi tanto», B: «Tene me tanto». Il senso corre, seguendo come han fatto i precedenti editori, la lez. di B, cioè: mi preme tanto di trovar mercé, ecc. Ma la rima al mezzo non mi pare che possa essere «-ene», conforme all’ultimo verso della terzina precedente, ma debba essere «-eo», com’è in tutti gli emistichi dei primi versi d’ogni strofa. Né è possibile pensare ad un emistichio di sei sillabe: «Tene me tanto ch’eo», quando negli altri versi è sempre di due o tre sillabe. Il senso è: io tengo tanto a trovar misericordia, che, in fede mia, altro non si fa piú da me, se non invocar mercede.

10, v. 1. In B manca il primo «mercé», che in A è «merzede». La ricostruzione, operata giá dal Valeriani, è ovvia. Il Pell.: «Amor, per Deo, mercé, mercé, mercede».

v. 3 seg. Il senso è: per misericordia si perdona, si risparmia la morte a chi ha ben meritato di morire.

v. 7: «vertú», cosí A; ma B, seguito dal Val. e dal Bell.: «pietá». Il senso mi sembra questo: mercé per suo valore vince anche Dio, cioè lo stesso Dio è vinto dalla virtú della misericordia. L’espressione «per vertú» si riferisce dunque non a Dio, ma a mercé.

11, v. 12. Il Val. e il Bell., seguendo la lez. di B, leggono: «Deo fece está mercé si gr.», evidentemente intendendo che Dio [p. 344 modifica] diede a questa mercé natura cosí graziosa, ecc.; ma a me sembra che qui debba continuare il concetto della prima terzina, nella quale, a riprova del potere di «mercede», è detto che per essa la sua donna è diventata pietosa da crudele che era, e — continua — la ridusse, la Dio mercé, cosí graziosa, ecc. Accolgo pertanto la lez. di A.

12, v. 12 segg. Intendo: non foste voi opera della natura, ma dello stesso Dio, che vi fece direttamente, cosí come fece Adamo ed Eva.

13, v. 7. Seguo la lez. di A ed intendo: ché io mostro me stesso prima che l’esperimento; cioè: prima che egli stesso ne faccia esperimento, gli presento come prova me stesso, in quanto io avevo ecc.

v. 13: «vince». Il Pell., seguendo B: «vencen». Par naturale che il soggetto debba esser «potenza».

15, vv. 9-11. Cosí il Pell., il quale però, nelle aggiunte (p. 361) dichiara «piú verosimile» la forma «anoia» o «inoia» «in senso neutrale, anche per confronto col verso precedente». Ma a me sembra che una coordinazione sia indispensabile tra «ha noia» e «par forzato». Il senso è: il servo s’affanna ed erra nel chiedere e il signore ha noia e par forzato a concedere, tanto che il premio che egli poi concede non gli conferisce l’onore che viceversa gli verrebbe da una concessione non sollecitata.

16, v. 1 segg. Intendo: Stia attento alle mie parole chiunque per avanzare desidera restar servitore: il signore deve avere due qualitá: conoscenza e potere.

v. 7 seg. Cioè: chi riconosce il servizio come può rimeritarlo se non ha mezzi? E chi è ricco piú di quanto egli stesso desideri come lo fará se è sconoscente?

17, v. 5: «che face». Il Pell., conforme a B: «E i face», cioè: e le fa da buon servo. Seguo A perché credo che qui s’abbia «che face» coordinato a «che mette» del v. 2.

18, v. 2. Si richiama al son. 16. [p. 345 modifica]

19, v. 1 seg. Intendo: Verso di lei, fiore di bellezza, io sono stato, come ogni altro uomo, finto e, ora, assai piú tale che amante; e tanto le sono andato intorno con preghiere ecc., che mi promise... Potrebbe anche leggersi: «Si como ciascun omo è ’nfingitore e, ora, ecc.», oppure, come fa il Pell.: «Si corno ciascun quasi enfingitore è ora, maggiormente ecc.», intendendo: come ciascuno è ora (cioè ai tempi nostri) assai piú disposto a fingere che ad amare, cosí sono stato io ecc.

21, v. 6: «ch’eo», oppure secondo B: «ch’e’»; il Pell.: «che». A parte il valore transitivo o intransitivo del vb. «innamorare» (cfr. son. 28), che qui non si debba intendere: «he l’anima mia debba innamorarsi, ma: che io debba innamorare l’anima mia, mi par dica chiaro la lez. di A: «ch’io degia».

v. 10: «amare», è da intendere come sostantivo: a quell’amore, che voglia prendere e donare secondo giustizia.

22, v. 1. Il Pell. spiega: se vero è che ecc.; ma mi pare che, anche in relazione al «ragion n’hai» del v. 4 sia da intendere: se c’è ragione, causa («cosa») perché tu ecc.

v. 6: «fedeltá», cioè: sicura promessa.

v. 8: «grande», cosí il ms.; ma il Val. e il Pell. per la rima corressero: «grante».

v. 10 segg. Il Pell.: «e che perd’ e’ diritto: parme che falla, e prender me defendo [per]ché ’n me ecc.» e spiega: «e che perdo diritto di ottenere per l’avvenire: ma sbaglia, a mio parere, chi ciò afferma ed io mi proibisco di nulla prendere perché ecc.»; il Pellizz. (p. 281) propone: «e che perd’ e’ diritto: parme che falla e prender me defendo; È che ’n me ecc.», intendendo: «e perdo il diritto (ai favori della donna), prima che mi venga a mancare da se medesimo, e mi vieto di prendere. Egli è che in me ecc.». Il senso mi sembra questo: Or si dirá che son folle se non prendo ciò che posso avere e che io perdo il diritto prima di commettere la mancanza. Io però mi difendo, mi guardo dal prendere, dall’approfittare, perché ecc.

v. 14: «en cortesia», è felice emendamento del Pell. del «e nonsesia» del ms.

23, v. 9 segg. Il senso è: è doloroso vedere che un uomo piacente ama una donna brutta e questa non lo ricambi ed anzi esso le dispiaccia. [p. 346 modifica]

24, v. 8: «l’amore»; il ms.: «lo core», l’emendamento è del Val., che volle evitare la ripetizione del vocabolo in rima. Contro l’opinione del Pell. e non ostante l’analogia col v. 96 della canz. VII, accolgo l’emendam. del Val. anche per il senso de’ versi segg.: laddove altri si sforza d’allontanarlo da sé, io mi sforzo di condurlo a me e di divenir servo della sua corte: naturalmente, d’Amore e non del cuore.

25, v. 3: «quel loco». L’espressione ci richiama al «loco», che, dopo la conversione, chiamerá «desorrato e reo» (v. XXVII, 7).

v. 10: «devisa’», cosí il Pell., intendendo: partii, allontanai. Il Val.: «diviso ha». Forse il meglio sarebbe emendare: «devis’ho».

26, v. 4 segg. Il son. si presenta irto di difficoltá. Mi allontano dal Val. e dal Pell., per conservare la lez. del ms. che può esser tratta ad una spiegazione forzata si, ma... guidoniana. Intendo: che del tutto perda oppure acquisti in me e voi, amore, e la madonna mia. E a voi è mercé far lei in me, cioè far che lei stia in me. Quell’«in me» sarebbe cosí in relazione con il «dentro» del v. 3, mentre il concetto di «mercé» richiama al v. r.

v. 8. Il Pell. spiega: vi prego che vi piaccia che io acquisti in voi, cioè ottenga quanto bramo. Credo invece che, conforme ai concetti precedenti, s’abbia da intendere: vi prego che vi piaccia pur d’acquistare me in voi.

v. 9. Il Pell. emenda: «Ma se perder n[o] è bel...» Ma qui si allude alla seconda delle due ipotesi proposte al v. 4: perdere o accattare. Dell’accattare ha parlato, ora tratta del perdere: Vi piaccia che io accatti, ma se piace invece che perda... Se un emendamento si dovesse introdurre, sarebbe quello di cambiare «ne» in «ue»: «se perder v’è bel...».

v. 13: «soferromi». Il Pell.: «sofferromi», e, nelle «Aggiunte» (p. 362) propone: «sòferomi». Credo però che si tratti di un futuro: «soferrò», coordinato al «viverò» del verso seguente.

v. 14: «par aggio», cioè ho come giusto, ritengo conveniente. Cfr. Not., 6.

27, v. 5: «lor», cioè: lora, allora. Cfr. XXVII, 41.

28, Questo son. e i due segg. formano una breve corrispondenza con Mastro Bandino. In margine al son. 30 nel ms. è [p. 347 modifica] notato: «Questo Maestro Bandino è il Padre di quel Mastro Domenico d’Arezzo che fiori ne’ tempi del Petrarca e compose molti volumi». E di questa opinione è anche il Pellizz., p. 35.

vv. 3-4. Il Pell. spiega: «Io voglio e ho bisogno d’amare (tale donna) di cui («che») non sono degno e in gran bene me ne verrei riuscendoci». E possibile un tal significato di «che»? Può esso mai valere: «tal donna di cui»? Il Pellizz. crede che l’espressione «non son degno» sia un’allusione alla slealtá di cui si parla al son. 20, 3. Certo è piuttosto strano asserire: Voglio amare, ho bisogno d’amare, non ne son degno, ma mi gioverebbe assai, perché senza amare non spero d’essere onorato. Molto si chiarirebbe il pensiero se si volesse ammettere ahe Amore è la setta dei «Fédeli d’Amore». Per chi non vuol farlo ci potrebbe essere una soluzione per la prima parte del v. 4, ponendola come un inciso interrogativo: (che forse non ne son degno?); ma resterebbe pur sempre da spiegare come mai senza amare G. disperi d’essere onorato.

v. 6: «ennamorar». Per il Pell. questo verbo è transitivo, per il Pellizz. intransitivo. Il Pellizz. osserva, a ragione, che questi tre sonetti non debbono esser considerati separatamente da quelli che li precedono, e si rifa appunto al son. 23, dov’è detto chiaro: «E trovomi che non guair’amo quella che m’ama forte ecc.». Comunque del vero significato che «amare» ed «ennamorare» hanno in questi sonetti potranno forse rendersi conto soddisfacentemente solo quanti siati disposti ad ammettere l’ipotesi dei «Fedeli d’Amore»; ché allora «amare» varrebbe: esser fedele d’Amore, e «ennamorare»; entrare nel novero dei Fedeli d’Amore.

v. 11: «en tale loco» cfr. son. 25, 3.

v. 13: «a guisa de li amati», cioè: come quelli che sono nelle grazie d,’Amore, e non come quelli, di cui s’è detto sopra, che amanti non sono amati, ma disdegnati.

29, v. 1: «nome ecc.»: nome non veritiero, in quanto richiama a «guitto». Cfr. i sonn. 209 e 235.

v. 4: «che ’l cor fa ghiaccio». Il Pellizzari spiega: «mentre il tuo cuore è di ghiaccio» (p. 43).

v. 8: «gioios’, e’n ciò...». Il Pell. divise: «gioio’se’n ciò»; ma al Parodi — e mi sembra giustamente— «questo «gioio’», se sta per «gioiosa», sembrava troppo strano»; e dubitava si trattasse d’errore di stampa per «gioi’ò», sebbene anche questa [p. 348 modifica]

divisione non lo soddisfacesse — né comprendo perché — tanto da avanzare la poco felice congettura «che sotto il ‛divo gioio’ del cod. si nasconda un ‛diraggio’ io dove l’‛io’ è enfatico». Sono rimasto incerto tra la lezione «gioi ho» che darebbe questo senso: «ma dirò pure; son lieto se in questo ti fo piacere», e quella prescelta: «ma pur dirò lieto, e in ciò ti compiaccio».

v. 12 segg. Cosí il Pell., il quale nota che «o’» del v. 13 è un «ubi» temporale da intendersi ’quando*. Il Pellizz., pur accettando questa lezione e la relativa spiegazione, osserva (p. 43, nota) che potrebbe anche leggersi: «accompagnato a le’ tu, o sta con ella; gioi’ né ’ntenza ecc.» e spiegare: «Parla d’amore, se sei accompagnato a lei, o stalle vicino, ma non manifestare la gioia che ne provi, né le tue intenzioni». Secondo la leJ. da me prescelta è da intendere: Parla d’amore se ti trovi con compagni, ma quando sei dove essa sta, a lei devi celare ogni gioia, ogni intenzione. Il Pellizz. riconosce che «quello consigliato da Bandino non sarebbe certo il miglior modo per fare innamorare una donna di noi», laddove con la spiegazione da lui proposta il consiglio di Bandino risulterebbe «non meno accorto, né meno utile». Ma forse qui non si tratta d’accorgimenti di questo genere.

30, v. 8: «acquistato», pel Pell. è sost.: acquisto. Intendo invece: come il suo bene ha acquistato pregio.

v. 9. In quanto a soddisfazione e gioia, «de ciò» (cfr. al v. 4: «de gioia») non c’è chi possa starmi a pari, a ben considerare ciò.che io «ho pari», cioè ciò che io ritengo rispondente. Il Pell. invece legge: «ciò ch’è paraggio» e spiega: «a voler ben considerare che cos’è il significato della parola «paraggio». E cfr. Not., 6.

32, v. 5: «ch’amando»; il «che» è qui temporale e vale: quando.

33, v. 3 seg. Cioè: dove il mio sguardo vi scorge benigna («de bel colore») verso di me.

35, v. 9. Intendo col Par.: non v’è al mondo signore cosí crudele, al quale non osassi, con minor paura, di offrire la morte (cioè di fargli minacce di morte). Perciò il mio cuore pende angoscioso nell’incertezza e trema di tacere e di parlare. Cioè: è piú pericoloso fare a voi, donna, un’offerta d’amore, che a un crudele [p. 349 modifica] uomo una minaccia di morte. Il Pell. e il Pellizz. spiegano diversamente.

v. 14: «se dir voglio» è congettura del Par.; il Pell.: «in dir ‛voglio’».

36, v. 9: «Non che», cioè: inoltre, per di piú.

v. 10: «se», cioè: che se, che se anche ecc.

37, v. n: «amiraglio». Il Pell.: «a miraglio»; ma che valore avrebbe qui per il senso l’espressione: a specchio, ad esempio?

44, v. 5 segg. Intendo: e mi dici ch’io m< sforzi a dispiacerti, solo per far la figura dell’innamorato; e non t’è necessario, perché io non ho apparenza tale da poter far innamorare di me qualcuno.

v. 11: «e non te vale». Intendo: e non ha valore per te. Il Pell., seguendo B: «né non te vale», cioè: «per cui sprechi il tuo tempo».

45, v. 8: «poi», cioè: dopo la prova. Il ms. B: «lor», donde il «’lor», cioè: allora, del Pell.

48, v. 3: «di’», per «dia» o «die», ‛debes’ infatti il ms. A: «lo dia tosto». Potrebbe anche leggersi: «dia, ‘vacci’ acc.». L’amante deve chiedere, la donna deve negare.

50. Letteralmente il son. si spiega cosí: v’ho molto pregato di non trovarvi dove io vi veda o vi oda, per cessare cosí d’amarvi; ma invano. Ditelo dunque chiaro ch’io vi debbo vedere ed udire senza peraltro amare né servire. A voi piace solo ch’io moia. Ma mi sforzo a vivere per disservirvi, poiché non mi vale servirvi. E questo forse mi gioverá, perché s’addice lá dove, come in voi, è partita conoscenza.

59. Questo sonetto è in risposta al son. 49 e sarebbe stato da collocare dopo quello, se non ci fossimo proposti di conservar l’ordine del ms. B.

63, v. 2: «servon». cioè: servano, serbano, con un fenomeno d’assimilazione ed espansione analogica che perdura nel dialetto chianaiolo (v. S. Pieri, Nota sul dial. aretino, Pisa, 1886, p. 40). [p. 350 modifica]

64, v. 14: «donna, senza»; il ms. B: «donno sensa», donde il Pell.: «donna, ò senza»; ma mi sembra che il verbo si possa sottintendere.

65. Rima derivativa: sul bisticcio, di cui fan le spese Elena e Paride, v. R. Ortiz, nel G. Stor. LXXX, 249 e LXXXV, 91.

v. 2: «che no ecc.»; intendo: che non ne è altro folle (di gioia) al pari di me.

v. 3: «spare», cioè: dispiace, il contrario di «pare».

v. 6: «paro», cioè: riparo, difendo.

v. 9 segg.: «apparasse... apparo... para... paresse»: intendi: imparassi... riesco... apparisca... si rivelasse.

v. 12: «s’apparasse», si apprestasse.

67, v. 13 seg. Intendo: chi con poca ricchezza val molto, dá segno di quel che varrebbe con assai.

69, v. 5. Il Pell. segue il ms. B e legge: «Perché moglieri, o sorore, o parente». Parrebbe che, almeno per «moglieri», dovesse esser lecito far «noia e dolore»: perciò preferisco la lezione di A.

v. 8. Anche per questo verso il Pell. preferisce la lez. di B, e stampa: «perch’á ’n altrui bailia l’alma e lo core».

v. 14: «li gioca si», ed è lezione di A. Il Pell. segue B e legge: «li cresce si», spiegando: «Che se l’importuno custode persevera a vietare il passaggio e se l’amante non sa rassegnarsi ad attendere, questi (l’amante stesso) commette qualche follia, onde il danno ridonda su chi l’ha impedito». Mi sembra che si debba invece intendere: che se quello persiste ad impedire il passaggio e l’uomo (l’amatore) non può trattenersi dall’andare, la follia si fa gioco degli amanti, li perde in modo che lo scandalo e il danno si accrescono.

71, v. 5: «perché meglio». I mss.: «pero che meglio»; il Pell. emenda: «però che me’». Ho preferito emendare «pero che» in «perché», anche per l’analogia con i vv. 7 e 12.

75, vv. 12-14. Versi oscuri; il Pell. legge al v. 12: «s’aggio» e al v. 13: «lo chiar e scur ben è meo c.» e spiega: «ben è il mio convenente, cioè la mia condizione, d’ignorare io stesso se [p. 351 modifica] ho chiaro o scuro, se ho bene o male, in questo mio amore. Deh, voi, o uomo saggio, ponete mente a quello che io non so guardare e veder da me solo; consigliatemi, in somma». E per meglio ottener questo senso avrebbe voluto ritoccare il principio del v. 13 cosí: «o chiar, o scur», oppure: «chiaro né scur». La mia lezione porta ad una interpretazione alquanto diversa, ma neppur essa sicura: «io sperimento il chiaro e lo scuro (il bene e il male) del non sapere: questa è la mia condizione; ma voi, uomo saggio, guardate quel che io non so guardare».

77. Il Pell. ha affrontato l’«enigma forte» di questo sonetto congetturando intorno al senso, dopo essersi, molto lambiccato il cervello. Non sapremmo far di meglio che riferire la sua spiegazione: «Nel mio cuore arreca gioia e diporto e ne allontana il male che ho portato (la considerazione) che ora ho possesso di un porto, é (ciò) mi apporta che io entro adesso per la porta, fuor dalla quale prima andavo (ero) apportato... Verso di lei, che io amo, ho fede tale che non mi trasporta, ma mi fa star di buon grado lá dove sono trasportato. Forse significa: La mia fede verso la donna che io amo è cosí illimitata, che non mi permette di spingermi a nessuna determinazione, ma mi lascia guidare in tutto e per tutto da lei; poiché un porto non mi si addice piú, se avviene che ella (me ne rimuova e) mi apporti lá dove comporta il comodo suo... Fino a questo punto ho sofferto tanto male, quanto ne posso sopportare: ormai mi fanno d’uopo dei diporti (un «diversivo» direbbero oggigiorno) per differire — e quindi, forse, impedire — che io approdi colá dove vado giá morto, se uomo mi ci portasse. Perciò adunque non tollererei che altri mi portasse seco nei porti — mi facesse raggiungere la meta — qualunque fosse costui, a portarmi; perché mi «disporterebbe», mi terrebbe lungi, dall’essere io portato, guidato, da lei. La costruzione dell’ultimo verso è dunque, a mio credere: «me deportara dal lei me portare», in cui le ultime tre parole formerebbero in complesso come un solo sostantivo».

78, v. 6: «metta», cioè: mitra, nel senso di persona che porta la mitra. V. Not., 7.

v. 7: m’adagra», m’incita, mi eccita a servir ecc.

v. 8: «a metra». Intendo: mi trovo a maggior concessione che a mitra. Non presenta difficoltá l’aver qui in rima lo stesso [p. 352 modifica] sostantivo che al v. 6, se lá, come s’è detto, esso ha un significato diverso.

v. 11. Il Pell. spiega: «s’adoperi contro di me ciascun noioso, che non fa festa e vigilia al mio volere (che non s’accorda in nulla con me)». Credo però debba intendersi: e mi stia pure di contro ogni noioso perché io non faccia a mio piacere e la festa e la vigilia.

v. 13: «Sartia Subilia». Per la spiegazione di questo verso il Pell. si giovò delle indicazioni di E. Monaci, il quale appunto gli scriveva: «si affaccia subito il sospetto che si tratti di una allusione alla regina «Sebille» della Chanson des Saines». Il Pell. trovò cosí che in tutto un ciclo di romanze spagnole derivato dalla canzone dei Sassoni appare un Baldovino amante di Sevilla; e potè avanzare il dubbio che Guittone anche senza conoscere le redazioni spagnole, potesse — per la diffusione che ebbe anche fuori di Francia il tipo di Baldovino e di Sibilla — nominare con onore la sassone Sibilla, ch’è viceversa malmenata nella Canzone di Jean Bodel.

79, vv. 1-6. Ecco la spiegaz. del Pell.: «Giá sono stato punto lungamente per opera dei noiosi, che affermano di sapere dov’io mi appunto in amore, cosí che tale circostanza mi fa quasi piangente. Ma poi, se miro in me stesso, non lo credo affatto, perché son punto d’amore verso tale, con cui rimanendo, me ne può venir soltanto gentile onore».

vv 7-8. Per l’interpretazione di questi due versi mi sembra necessario discostarsi dal Pell., il quale spiegò: «In seguito a ciò... il mio volere — l’animo mio — che è stato punto, si rivolge alla gioia e opera gradevolmente verso di sé». Intendo invece: Poscia acuisco per la gioia il mio volere, che è stimolato e diventa verso, poesia, secondo il piacere, conforme a piacere.

v. 12 segg Intendo: A tutti gli amanti conviene far cosí; questo sconvolge nel pensiero la parte avversa («la noiosa gente» del v. 2), parte che cosí resta ingannata in ciò che crede.

81, Con questo son. comincia una tenzone che comprende i sonn. 81-86.

v. 1. Il Pell. legge: «non mi ridisdire», non tenendo conto della lez. di A, che io ho accolto; cfr. i vv. 1, 7 del son. 82 e 10 e 14 del son. 83. [p. 353 modifica]

v. 6: «covrire»: il Pell. nota l’uso del vocabolo piú proprio del connubio ferino che umano.

v. 12: «de ragione», è ricostruzione mia in luogo di «veramente» di B e «ciecamente» di A. Il Val. e il Pell.: «veramente»; ma la metrica richiede qui una rima in «-one»; ed una rima in «-ente» isolata, senza rispondenze, è del tutto irregolare.

v. 14: «ch’e’». Seguo il Pell. che cosí ha diviso il «che» dei mss. intendendo «ch’e’» come: ch’ei, che sei.

83, v. 6. Il Pell. esclude questa lez., di A, e legge: «dann’e disnor a me con tuo s.».

84, v. 9: «mente», lez. di A; il Pell.: «nente», e spiega: «... che non mi tieni buona né bella, qual credi tu che sia per incontro l’opinione mia a tuo riguardo?». Intendo invece: se è vero che non mi tenga, possegga, occupi un pensiero buono e bello, qual credi sia quello che tiene te?

85, v. 1: «vezata», cosí A; ma B e il Pell.: «viziata». Penso ad un «vezzata» che può significare: piena di vezzi, ed anche: astuta, concetto che s’addice a quello di «gioco», di cui al v. 4.

v. 5 segg. Il senso è: n’esco sconfitto; e mi piace, dal momento che tu sei sempre vittoriosa in ogni mala parte, che tu non ti sottragga alla tua malvagia consuetudine.

86, v. 12: «la lingua corta», cosí B e il Pell.; ma A: «la lingua acorta», cioè: «la lingua accorta», prudente: e potrebbe anche accettarsi.

87, Comincia con questo son. un «Trattato d’amore» o «Ars amandi», come vuole il Pellizz., p. 119, o «Ensenhamens d’amor», che continua fino al son. no compreso.

v. 3: «alcuno autore»; e sarebbe, secondo il Pellizz., p. 65 Aimeric de Peguilhan; ma giustamente R. Ortiz (Giorn. St. LXXXV, 79) vide qui un accenno ad Andrea Cappellano.

v. 7: «ad esso», cioè: di codesto desiderio.

v. 11: «fare di ciò che vol». I mss.: «fare e dire ciò che vol»; il Pell.: «fare e dir giochevol». Su questa lez. v. Not., 8. [p. 354 modifica]

88, v. 13: «doe» è ricostruz. del Pell. da «c̦oe» di B e «duo» di A. Ma non accetto la punteggiatura del Pell., intendendo: l’amore fa il cuore desideroso e pieghevole all’amore o meno, in modo che due si accordino; il fatto che l’uno ama e l’altro no, è caso disgraziato, del quale esso amore non è causa.

92, vv. 1-4. Il senso non chiaro fu cosí fissato dal Pell.: «Io non crederei che nessun amante, tra quelli che si dolgono della crudeltá dell’amata, sia in condizione sí triste da non vedere nell’aspetto di lei qualche traccia almeno di benevolenza».

95, vv. 3-4. Cioè: si vuole, occorre che ragionevolmente guardi se la donna è di condizione superiore, o pari, o inferiore.

96, v. 1: «saggio». Il Pell. facendo «l’amante» soggetto di «volsi», spiega «saggio» come aggettivo e nota «il doppio ricorso in rima (vv. 1 e 3) della forma «saggio» con valore d’aggettivo». Ma il Parodi propose di spiegare «saggio» del primo verso come sostantivo: «di ciascuna (rispetto a ciascuna) si vuole avere informazione particolareggiata e «saggio», cioè esperienza, e studiare ciascun singolo caso. E poi pare che continui dicendo: Badate però, che quando avrete ben tutto considerato, rimane sempre come regola generale questa che si deve essere fin da’ primi principii saggi e cortesi».

v. 13. Il Parodi propose di emendare «è» in «á», e certo il senso, senza cambiare, risulterebbe piú chiaro: è di maggior forza.

98, vv. 1-8. Intendo: Verso la maggiore occorre comportarsi similmente (che verso la «sormaggio»): lodarla e dire e fare verso di lei in ogni occasione ciò che le sembri gradito. Ed occorre («se vol») dire o far dire ch’egli vuol sempre esser suo fedele.

vv. 9-14. Nelle terzine il testo è corrotto. Il Pell. ha tentato una ricostruzione che soddisfa il senso e che ho accolto.

104, v. 12: «n’ho». Il Pell. emendò: «n’á» ritenendo che in questo verso non continui il soliloquio della donna. Credo, col Parodi, opportuno lasciare intatta la lezione dei mss.

v. 14: «ove». I mss. hanno «e ne» e il Pell.: «e’ ve lei p.» spiegando: «nel quale egli possa parlarle e forse le faccia anche [p. 355 modifica] di piú, cioè ne ottenga altri favori». Ma il Parodi, notando che «parie» è congiuntivo e «fae» indicativo, propose di correggere, come ho fatto «e ve» in «ove» e di intendere: «la donna consentirá luogo dove egli le parli; essa gli concederá forse anche di piú».

105, v. 1: «l’amante». I mss.: «la donna»; l’emendamento è del Pell.

106, vv. i-8. Il Pell. dichiara di non esser riuscito a cavare il senso di questi versi; ma il Pellizz. (p. 284) giustamente proponeva di intendere: «Mi pare d’aver ben (mostrato la via che [debba usare] chi la sa compiutamente usare, e che per necessitá quasi debba [usare] colui che dura di buon cuore all’amare. Quando l’uomo vuole la balia [della donna], e quando l’abbia, non pena molto se non [s’]allontana [da questa via]; e so ch’è difficile [allontanarsene], e se ne ricava poco profitto».

108, v. 12: «e lo suo stato alegro». Il Pell. aveva stampato cosí, spiegando: «e procuri di trovarla di buon umore, mentre in pari tempo ella sia crucciata ecc.»; ma nelle «Aggiunte e correzioni» (p. 364) notò: «Meglio s’accorda col senso complessivo il leggere cosí questo verso: E lo suo stato ál egro e ’l suo pensare...». Ma il Parodi si domandava: «lo «stato alegro» della donna non sará il suo buon stato di salute? Dev’essere cioè fisicamente ben disposta. Guittone la sa lunga».

109, v. 4: «degna», cioè: conveniente, adatta.

v. 10 seg.: «e di che fare ecc.», cioè: e di quello che essa sempre dica di fare e in che punto le paia conveniente che sia fatto.

110, v. 14: «che n’ostarie ecc.», che ne ostacolerebbe, gli diminuirebbe la pena.

111, v. 7. Il Pell.: «ch’è di gemma».

v. 9. Il Pell. discute a lungo la lez. di questo verso e stampa: «Or tale pregio par donna av.», spiegando: «Ora sembra proprio che un tal pregio (attribuito poeticamente ad una donna) possa aggiungere lustro alla donna medesima, mentre essa, insieme con [p. 356 modifica] l’uomo, è il capolavoro della natura?». Intendo: È forse questo un pregio per esaltare la donna, la quale è superiore ad ogni cosa che si possa vedere o toccare? Il D’Ancona, nella stampa del codice, interpretò il «tale» del v. 9 come correlativo del «che» del v. 12 e quindi non pose il punto interrogativo al v. 11.

112, v. 4 segg. Intendo: poiché sa «dir» (cioè: essa dire, che essa dice) che è per lei cattivo (cioè che lo giudica cattivo). In questo modo egli fa sembrare a lei di usare (cioè: che egli (amante) usi) oltraggio, e di accogliere (cioè: che essa accolga, riceva, sopporti) orgoglio e reo padrone.

v. 9: «svantaggio»; il ms.: «vantaggio»; l’emendamento è del Pell. il quale ben notò che è reso necessario dalla coordinazione ideale dei due versi: E con ciò non penso di fare il danno, ma l’utile vostro, piú che il mio.

113, Strana composizione della quale non so, come non seppe il Pell., indicare neppure approssimativamente lo scopo e il senso. Sono sette versi dello stesso suono che si ripetono certo con significato diverso, che non m’è stato possibile precisare.

114, Anche questo son. appare nel suo complesso incomprensibile.

115, v. 3: «dico». Il Pell., per ristabilir la misura, emenda: «dico[te]». Forse è piú semplice pensare all’omissione di un «eo», o semplicemente «e» iniziale.

116, v. 11: «potè». Il Pell. emenda: «[poi] potè», ma l’aggiunta non mi sembra indispensabile.

117, v. 3. Ho emendato il testo del ms.: «ed a ragione il vi dirò io matto», secondo un’ipotesi, che il Pell. ha relegato in nota, ma che mi sembra opportuna per il senso.

118, Comincia con questo la serie dei sonetti conservataci dalla Giuntina di rime antiche (Libro ottavo, c. 89 r — 96 v), serie non completa, perché i primi sette e l’ultimo di quel nucleo non sono certamente da assegnare a Guittone. Degli altri uno ci è dato anche da altre fonti e corrisponde al son. 4; i rimanenti, che [p. 357 modifica] qui si pubblicano (nn. 118-138), lasciano, non ostante la ben ragionata difesa che ne fece il De Benedetti, Nuovi studi sulla Giuntina di rime antiche (pp. 71-81), qualche dubbio d’autenticitá che tuttavia non giudico sufficiente per giustificarne l’esclusione da questa raccolta. Tutti sono nel Val. II, 218-238, e mancano nel Pell.

121, v. 2. Seguo la lez. dell’Ambros.; la Giunt. e il Val.: «Portare penetenza mi valesse».

123, v. 3. Questa ricostruzione fu giá suggerita dal De Benedetti, p. 77, n.