Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87/Parte II/Napoli. Ad Herder
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1875)
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NAPOLI
AD HERDER.
Napoli, il 17 maggio 1787.
Mi trovo qui di bel nuovo, mio caro amico; riposato, ed in buona salute. Ho fatto il mio viaggio di Sicilia bene e presto, e quando sarò di ritorno costì, potrete giudicare se io l’abbia visitata con frutto. Siccome poi, del resto, io esamino le cose con molta attenzione, ho acquistata una facilità incredibile di poterle riprodurre sulla carta, e mi trovo propriamente felice di avere idea così chiara, così precisa, di quanto vi ha di grande, di bello, d’incomparabile nella Sicilia. Ora io non desidero guari più avere visto altro in queste contrade meridionali, avendo fatta, ieri ancora, una nuova escursione a Pesto. Le isole mi hanno procacciato soddisfazione e dolore ad un tempo; ne sono tornato contento, ma vogliate consentirmi di differire i particolari al mio ritorno in patria. Ed anche qui fa d’uopo di un certo sforzo per potermivi raccogliere; ora però vi potrò descrivere questi luoghi meglio che nelle mie prime lettere. A meno di caso di forza maggiore, nei primi giorni di giugno fo conto di far ritorno a Roma, per ripartirne poi ai primi di luglio. Ho desiderio di rivedervi tutti al più presto; passeremo ancora belle giornate assieme. Ho raccolte molte idee, ed ho d’uopo di quiete, di riposo, per ordinarle.
Ti ringrazio le mille volte di quanto hai fatto per i miei scritti, e vorrei pure a mia volta potere far cosa la quale ti tornasse accetta. Riceverò con piacere quanto mi farai avere; siamo cotanto d’accordo nel modo di vedere le cose, e quasi fossimo una persona sola in ordine ai punti principali. Se tu hai lavorato molto durante questo tempo, io ho veduto molto, e posso sperare faremo scambio piacevole, e vantaggioso d’idee.
Sono per dir vero, come tu ritieni, troppo attaccato al presente nel mio modo di vedere le cose, e quanto più io vedo il mondo, tanto meno oso sperare che il genere umano possa formare un complesso d’uomini savi, prudenti, felici. Forse fra tanti milioni di mondi i quali esistono, ve ne sarà uno il quale si potrà vantare di questo privilegio; al modo che trovasi costituito il nostro, non lo si può sperare, per i suoi abitatori, più di quanto lo possa sperare la Sicilia, per i Siciliani.
Nel foglio che annetto alla presente, troverai alcuni cenni sulla strada di Salerno, e su quella verso Pesto; sarà questa l’ultima, e potrei quasi dire la più splendida idea, che io potrò riportare completa nel settentrione, ed a mio avviso poi, il tempio centrale è superiore a tutto quanto si vede in Sicilia.
Per quanto poi riguarda Omero, potrei dire addirittura che mi si sono aperti gli occhi; le descrizioni, le similitudini ci possono parere poetiche; sono però di una naturalezza incredibile, riprodotte con una precisione, con una cognizione di ogni particolare, la quale reca stupore. Anche i casi più strani, i meno comuni, posseggono una naturalezza che io non ho mai capita bene, quanto in vicinanza agli oggetti descritti.
Permettimi di condensare in queste poche parole il mio pensiero; rappresentano quello che esiste; e noi soltanto quanto vediamo; descrivono quanto è terribile, quanto è piacevole; noi descriviamo quanto appare terribile, piacevole, e via dicendo; e da questo nostro difetto traggono origine l’esagerazione, lo stile manierato, le grazie di gusto equivoco, l’ampollosità; imperocchè si carica sempre la dose, si teme sempre di non produrre abbastanza effetto. Forse non dico cosa nuova; ad ogni modo, ho avuto di recente occasione di conoscere, di persuadermi, che la cosa sta così. Ora io tengo presenti davanti alla mente tutta quella spiaggia, tutti quei promontori, tutti quei golfi, tutti quei seni, quelle isole, quegl’istmi, quelle rupi, quelle spiaggie arenose, quelle colline imboschite, quei pascoli in dolce pendio, quei campi fertili, quegli ameni giardini, quegli alberi ben tenuti, quegli scogli, quelle caverne che ad ogni tratto, ad ogni ora mutano di aspetto; ora soltanto posso dire che l’Odissea è diventata per me parola, la quale ha vita.
Ti devo poi confidare che io sono vicinissimo a scoprire il segreto della generazione delle piante, non che della loro organizzazione, e che la cosa si è la più semplice che si possa immaginare. Si possono pure fare le più belle osservazioni sulla superficie del globo. Ho scoperto in modo evidente, e tale da escludere ogni dubbio, il punto principale dove si nasconde il germe; scorgo pure in complesso tutto il resto, e non ho d’uopo più che di formarmi idea più precisa di alcuni particolari. La pianta originaria dovrà essere la creazione più meravigliosa del mondo, e per questo la natura stessa mi dovrà portare invidia.
Per mezzo di questo tipo, e della chiave, ovvero formola, si potranno scoprire piante in numero infinito, e la conseguenza sarà, che anche quelle le quali non esistono, potrebbero però esistere e non essere già per avventura creazioni poetiche, ovvero pittoriche; non già ombre, ma bensì cose vere e reali. E la stessa legge si potrebbe applicare a tutto quanto ha vita al mondo.
Napoli, il 17 maggio 1787.
Tischbein, il quale intanto ha fatto ritorno a Roma, lavorò per noi in questo frattempo, come ebbimo già occasione di rilevare, in modo che quasi non ci dovremo accorgere della sua assenza. Sembra abbia ispirata a tutti gli amici che tiene qui tanta confidenza in noi, che tutti dimostrano premura di servirci, di esserci utili, la qual cosa nella mia attuale condizione mi è di grande giovamento, non trascorrendo giorno, per così dire, che io non abbia occasione di pregarli di un favore, di un piacere. Intanto ho pensato di stendere un elenco sommario di quanto vorrei ancora vedere, imperocchè il tempo mi stringe, e converrà decidere quanto potrò fare ancora.
Napoli, il 22 maggio 1787.
Oggi mi è capitata un’avventura piacevole, la quale potrebbe benissimo darmi occasione di fare alcune riflessioni, e che intanto merita essere narrata.
Una dama, la quale mi aveva usate già molte cortesie durante il mio primo soggiorno in questa città, mi richiese di trovarmi oggi alle cinque precise in casa sua, per farvi la conoscenza di un Inglese, il quale desiderava parteciparmi qualcosa intorno al mio Werther.
Probabilmente sei mesi fa avrei data risposta negativa, mi sarei scusato; ma ora potrei dire che il mio viaggio in Sicilia ha esercitata influenza favorevole sopra di me, e promisi che sarei venuto.
La città per disgrazia è cotanto vasta, gli oggetti da vedere sono mai tanti, che io arrivai un quarto d’ora troppo tardi, e salite le scale, stavo sulla stuoia davanti alla porta la quale era chiusa, nell’atto di suonare il campanello, quando la porta si aprì, e mi trovai di fronte ad un signore di mezza età, di bellissima presenza, che tosto riconobbi per un Inglese.
Egli non mi aveva ancora quasi veduto, che tosto mi disse: «Voi siete l’autore del Werther?» Risposi affermativamente, e lo pregai di volere scusare il mio involontario ritardo.
«Non potevo aspettare più a lungo, replicò l’Inglese, ma quanto vi debbo dire è breve, e ve lo posso dire anche qui, sulla stuoia. Non voglio ripetervi quanto avrete udito da cento altre persone, ed il vostro libro avrà fatta forse sopra altri impressione più viva ancora che su di me; tutte le volte però che io penso al complesso di doti che si richiedono a dettare un libro di quella fatta, non posso a meno di provarne meraviglia.»
Volevo rispondere poche parole per ringraziarlo, se non chè egli m’interruppe, dicendo: «Non posso trattenermi più a lungo; il mio desiderio di dirvi queste poche parole è soddisfatto; state bene, e possiate essere felice!» e senz’aggiungere altro, scese precipitosamente le scale. Stetti alcun poco riflettendo a quelle poche parole, finalmente suonai il campanello. La signora udì con piacere che io avessi incontrato l’Inglese, e mi narrò vari particolari curiosi intorno a quell’uomo strano.
Napoli, venerdì 25 maggio 1787.
Non vedrò più questa volta la mia principessina ricciuta; ella è propriamente andata a Sorrento, e prima di partire mi ha fatto l’onore di lanciare qualche frizzo al mio indirizzo, per avere data la preferenza alla sassosa e deserta Sicilia, sulla sua compagnia. Alcuni amici mi hanno date informazioni su quella creaturina singolare. Nata di famiglia distinta, però poco agiata, Venne educata in un monastero, poi si decise a sposare un principe vecchio ma ricco, e fu tanto più agevole cosa il persuaderla a fare quel passo, inquantochè sortì dessa dalla natura cuore buono bensì, ma poco capace di provare amore. In questa sua nuova famiglia ricca, ma di relazioni troppo ristrette, cercò aiutarsi col suo spirito, dando almeno libero corso alla sua lingua, dacchè non poteva guari godere altra libertà. Mi si assicurò che la sua condotta era propriamente irreprensibile, e che pareva si fosse prefissa colla libertà della sua parola di fare rimprovero agli altri per le loro relazioni men regolari. Si diceva scherzando, che se i suoi discorsi fossero stati scritti, nessuna censura ne avrebbe potuto permettere la stampa, tuttochè nulla contenessero che potesse recare offesa al Governo, alla religione ed ai buoni costumi.
Si narrano le storielle le più curiose e le più graziose di lei, e voglio riferirne qui una, tuttochè non sia la più decente.
Poco prima che avvenisse il terremoto nelle Calabrie, ella si era portata colà in certe possessioni di suo marito. Anche in vicinanza al loro castello era stata innalzata una baracca, ovvero casipola in tavole, di un piano solo, la quale posava immediatamente sul terreno: del resto la era dipinta, tappezzata, e fornita di mobilio a dovere, ed ai primi sintomi di terremoto, la signorina corse a rifugiarsi colà. Stava seduta sopra un canapè, davanti ad un piccolo tavolo, intenta a lavoro donnesco, e di fronte stava seduto un vecchio prete, famigliare di casa. Tutto ad un tratto il suolo prese a vacillare, abbassandosi dalla parte dove stava la damina; e sollevandosi dal lato opposto, il prete ed il tavolo si trovarono lanciati in alto. «Oibò! diss’ella appoggiando il capo alla parete, la quale s’inclinava. Stà ciò bene ad un reverendo qual voi siete? Si direbbe propriamente che mi volete cadere addosso. Ciò è contro ogni convenienza.»
Intanto la casuccia aveva ripresa la sua posizione orizzontale, ed ella non si poteva saziare dal ridere della figura ridicola del povero prete, e pare che quello scherzo l’avesse consolata appieno di tutte le calamità, e delle molte perdite toccate alla sua famiglia, ed a tante migliaia di persone. Carattere propriamente felice, il quale tutto si allieta di uno scherzo, anche quando la terra minaccia volerla inghiottire!
Napoli, 26 maggio 1787.
Considerando attentamente le cose, si potrebbe pure dire essere cosa opportuna che vi siano cotanti santi; ogni fedele si può scegliere quello che gli pare migliore, e volgersi ad esso con tutta fiducia. Oggi era il giorno del santo scelto da me, ed a fargli onoranza, lo venerai divotamente alla foggia sua, e secondo la sua dottrina.
S. Filippo Neri è tenuto in molto pregio, ed in pari tempo la sua memoria è lieta. Si rimane edificati o consolati quando si sente parlare di lui, del suo grande timore di Dio; ma in pari tempo corrono pure molte storielle curiose ed allegre, intorno alle sue bizzarrie. Fin dalla sua prima giovinezza nutriva in cuore sentimenti religiosi vivacissimi, i quali, col crescere degli anni, finirono per acquistare il carattere dell’entusiasmo religioso; ebbe il dono dell’orazione spontanea, della preghiera mentale, il dono delle lagrime, dell’estasi; e finalmente quello pure di potersi sollevare dal suolo, e trattenersi sospeso per aria, il quale fra tutti quei doni fu ritenuto il più singolare.
A tutte queste prerogative interne preziosissime, egli univa ingegno perspicace; sapeva apprezzare al loro giusto valore, ovvero per dir meglio disprezzare le cose terrene, ed era poi caritatevolissimo, prestando assistenza al suo prossimo ne’ suoi bisogni spirituali e temporali. Era osservantissimo di ogni dovere religioso, della santificazione delle feste, delle visite alle chiese, della preghiera, del digiuno, e di tutto quanto si richiede da un bravo sacerdote. In pari tempo si occupava dell’istruzione della gioventù, ammaestrandola nella rettorica, nella musica, proponendo ai giovani la soluzione di temi, non solamente religiosi, ma ancora letterari, i quali davano luogo a discorsi animati, a dispute. Ed il più singolare si è, ch’egli tutto ciò faceva per impulso proprio, per propria soddisfazione, e che continuò a battere per vari e vari anni quella strada da solo, senz’appartenere a verun ordine, a veruna congregazione religiosa, ed anzi senz’essere iniziato neppure agli ordini sacri.
La cosa più notevole ancora si è, che S. Filippo ciò faceva ai tempi di Lutero, e che in Roma un uomo dabbene, timorato di Dio, energico, operoso, avesse formato il disegno di conciliare la religione con il mondo, di farla penetrare nel secolo, e di ottenere per tal via la riforma ad un tempo, della chiesa e dei costumi. Imperocchè in ciò consisteva il suo scopo; liberare il papato dai mali che lo rendevano inetto a compiere il proprio ufficio; ridonare il mondo liberato al suo Iddio.
La corte papale intanto, la quale si trovava avere a sè vicino, in Roma stessa, e sotto la sua dipendenza un uomo di tanta importanza, il quale non solo viveva da religioso, ma aveva ridotta la sua casa a convento dove insegnava la sua dottrina, ed il quale aveva intenzione già di fondare, se non addirittura un ordine religioso, quanto meno una congregazione libera, nulla trascurò per indurlo, come difatti lo indusse, ad entrare negli ordini sacri per acquistare tutte quelle prerogative, le quali fino allora erano mancate al suo tenore di vita.
E quando anche si voglia, siccome è ragionevole, porre in dubbio la sua facoltà di sollevarsi materialmente da terra, sarà però sempre cosa certa che in ispirito si era reso superiore al mondo, e ch’egli faceva guerra alla vanità, all’apparenza, all’ostentazione, ch’egli considerava quali i i più grandi ostacoli alla vita religiosa, e tutto ciò, siccome provano vari fatti che di lui si riferiscono, sempre con umore gaio e sereno.
Egli si trovava un giorno, a cagion d’esempio, presso il Papa, allorquando venne riferito a questi che una monaca, in un monastero in vicinanza della città, si poteva dire propriamente distinta per singolarità miracolosa di pregi spirituale. Il papa diede incarico a Neri di riconoscere quanto vi fosse in ciò di vero. Questi salì tosto sulla sua mula, e si avviò al monastero con tempo pessimo, e per strade peggiori ancora. Introdotto presso la badessa, le diede conto questa coi più minuti particolari delle grazie che aveva impartito il cielo alla sua monaca. Chiamata questa, entrò, ed il santo, senza nemmen salutarla, le porse il suo stivale lordo di fango, in atto di richiederla di doverlo pulire. La santa e pura vergine si trasse indietro irritata, dando sfogo con parole piene di vivacità alla sua indegnazione per quel contegno. Neri non disse altro, salì di bel nuovo sulla sua mula, e tornò presso il Papa, quando questi non poteva menomamente ancora pensare al suo ritorno, imperocchè la chiesa cattolica, ammettendo bensì la possibilità dei miracoli, impone però prescrizioni minutissime per istabilirne l’autenticità. San Filippo espose in poche parole al Papa meravigliato il risultato della sua visita. «Quella monaca, disse, non è santa; se ne vanta unicamente; dessa non fa punto miracoli; le fa difetto il primo requisito, l’umiltà.»
Questa massima può essere considerata quale la norma direttiva di tutta quanta la sua vita, e voglio addurne ancora un esempio. Allorquando egli ebbe fondata la congregazione dei padri dell’oratorio, la quale non tardò ad acquistare grande credito, e ad ispirare a molti il desiderio di appartenervi si presentò un giovane principe romano, al quale venne imposto di vestire l’abito, e di fare il noviziato come tutti gli altri. E quando dopo un certo tempo domandò di fare la sua professione, gli fu risposto essere d’uopo che si sottoponesse ancora ad alcune prove, alle quali egli si dichiarò senz’altro disposto. Allora Filippo Neri cavò fuori una lunga coda di volpe, esigendo che il principe se la lasciasse cucire a tergo, sulla lunga veste talare, e che dovesse con quella passeggiare seriamente per le strade di Roma. Il giovane si dimostrò offeso al pari della monaca, ed osservò, che non era già entrato nella congregazione per sottoporsi ad un’onta, ma bensì per ottenere un onore; ed il santo ritenne che il giovane non era ad datto a far parte del suo ordine, dove l’umiltà e l’abnegazione erano la prima legge. E difatti il giovane principe, domandò, ed ottenne il suo congedo.
Neri aveva riassunta in poche parole la sua dottrina: Spernere mundum; spernere te ipsum; spernere te sperni. Queste parole dicono tutto. Un ipocondriaco può osservare con tutta facilità i due primi precetti, ma per adattarsi al terzo, è d’uopo propriamente avere vocazione alla santità.
Napoli, il 27 maggio 1787.
Per mezzo del conte Fries,1 ho ricevuto ieri da Roma tutte le vostre lettere della fine del mese ultimo, ed ho provata la più viva soddisfazione nel leggerle, e nel rileggerle. Trovai con quelle la scatoletta che desiderava, e vi ringrazio le mille volte del tutto.
Sarà tempo oramai che io pensi a partire di qui, imperocchè, mentre vorrei pure rivedere a dovere Napoli e suoi dintorni, per riportarne idea più esatta, le giornate mi volano, ed a ciò si aggiungono ancora le persone distinte, antiche e nuove conoscenze, alle quali mi riesce impossibile sottrarmi. Trovai una signora amabilissima, colla quale avevo passate giornate piacevolissime la state scorsa a Carlsbad, ed ora ci tratteniamo con soddisfazione a ricordarle. Parliamo di tutto quanto che ci era caro, di tutto quanto tenevamo in pregio, e più di tutto, dell’umore gaio del nostro caro principe. Dessa possedeva ancora la poesia di cui le ragazze di Engelhans le fecero sorpresa, al momento della sua partenza. Dessa ricorda tutte le scene piacevoli, tutte le burle spiritose, tutte le mistificazioni, tutti i tentativi briosi di far valere il diritto di rappresaglia. In una parola ci sentivamo sopra terreno tedesco, nella migliore società tedesca. Ristretta in mezzo ai monti, radunata in un locale singolare, ma tanto più riunita dai vincoli di stima, di amicizia, d’inclinazione. Non appena però ci accostavamo alla finestra, rimanevamo sbalorditi da tutto il chiasso della vita napoletana, e tutti quei ricordi tranquilli svanivano.
Parimenti non mi fu possibile evitare di fare la conoscenza del duca e della duchessa di Ursel. Sono eccellenti persone, di modi distinti, di natura semplice, ingenua, amanti caldi di arti belle, pieni di benevolenza per tutti quelli che hanno la sorte di avvicinarli. Guadagnano moltissimo ad essere conosciuti intimamente.
Hamilton e la sua bella compagna continuano a darmi prova della loro amicizia. Ho pranzato uno di questi giorni in casa loro, ed alla sera miss Hart fece mostra de’ suoi talenti musicali e vocali.
Pregato dall’amico Hackert, il quale mi tiene ogni giorno in maggiore conto, e vorrebbe ch’io potessi vedere tutto quanto vi ha di raro e di bello a Napoli; Hamilton c’introdusse nelle stanze riservate, dove tiene i suoi oggetti d’arte, e le sue rarità. Trovai colà nella maggiore confusione oggetti di tutte quante le epoche, gli uni accanto agli altri; busti, torsi, vasi, bronzi, mobili guarniti di agate di Sicilia di tutte le qualità, persino una piccola cappelletta, pietre incise, quadri, il tutto raccolto a caso qua e là. In una lunga cassa che giaceva per terra, sollevando al quanto per curiosità, il coperchio il quale del resto era per metà infranto, vidi due stupendi candelabri in bronzo. Li additai collo sguardo ad Hackert, susurrandogli all’orecchio la domanda: «Se non fossero propriamente simili a quelli che si vedono a Portici?» Hackert mi fece cenno di tacere, essendo possibilissimo che dagli scavi di Pompei, siano passati nella casa di Hamilton; ed è precisamente a motivo di questa, e di altre fortunate eventualità, che il cavaliere non lascia vedere suoi tesori segreti ad altre persone, che a quelle nelle quali ripone illimitata fiducia.
Mi colpì specialmente una cassa od armadio ritto, aperto sul davanti, nero all’interno con sculture, e circondato da stupende cornici dorate. Lo spazio era abbastanza ampio per poter accogliere e dare ricetto ad una figura umana, e seppimo, che difatti l’armadio era destinato a quell’uso. L’amico delle arti e della bella ragazza, non bastandogli ammirare la bella creatura quale statua animata, voleva godersela pure sotto l’aspetto di riproduzione di pitture; e parecchie volte, su quel fondo nero, fra quelle cornici d’oro, le aveva fatto riprodurre pitture antiche di Pompei, come parimenti figure di dipinti recenti. Sembra che ora il cavaliere non si prenda più pensiero di quella sua fantasia, e del resto l’apparato deve essere malagevole e grave a trasportare, nè facile neanco ad essere collocato in buona luce, cosicchè non abbiano potuto godere di quel trattenimento.
Torna qui a proposito il ricordare un’altra viva passione dei Napoletani; quella dei presepi, che nella notte di Natale si vedono in tutte le chiese, ed i quali rappresentano, più o meno accuratamente, più o meno riccamente l’adorazione dei pastori, dei re, degli angeli. In questa città cotanto allegra, la passione di tale rappresentazione si è arrampicata perfino sui tetti a foggia di terrazzi delle case; si fabbrica colà con legni leggieri una capanuccia la quale si adorna con rami di piante, con erbe sempre verdi, e vi si scorgono all’interno la Madonna, il Bambino, gli angeli sospesi per aria, ed altre figure, vestite spesse volte anche con eleganza, e con una certa spesa. Se non chè la cosa la qual val meglio a dare risalto al quadro, si è il Vesuvio con i suoi dintorni che ne formano il fondo. Colà spesse volte si vedono figure vive pure fra i fantocci ed in quest’ordine di idee uno fra i passatempi serali più graditi delle famiglie, si è di rappresentare nei loro palazzi fatti tolti alla storia, od alla poesia.
Se io mi potessi permettere un’osservazione, alla quale per dir vero non si dovrebbe arrischiare un ospite al quale venne fatta buona accoglienza, direi che quelle rappresentazioni di figure mute difettano di anima, di espressione; e talvolta lo stesso qui accade del loro canto. Sonvi dovunque persone di bell’aspetto, ma poche le quali abbiano una bella voce, e più poche ancora, le quali a questo vantaggio aggiungano pure quello di una bella figura.
Fo miei sinceri complimenti ad Herder per la sua terza parte. Tenetemi conto di questo, in fino a tanto io possa dire dove ci potremo incontrare. Si avvererà per certo il suo bel sogno, che, mercè sua, l’uman genere deve un giorno migliorare. Ed io pure sono seco lui di parere che l’uman genere finirà per riuscire vincitore, se nonchè io nutro timore che contemporaneamente il mondo finirà per diventare un grande spedale, e che egli, in allora, dovrà essere uno degl’infermieri.
Napoli, il 28 maggio 1787.
Mi trovo di quando in quando costretto ad essere di parere contrario dell’ottimo e utilissimo Volckmann. Egli dice a cagion d’esempio che in Napoli vi sono dai trentamila ai quaranta mila oziosi, e chi non lo ha detto e ripetuto dopo di lui? Però, dopo di avere acquistata una certa cognizione delle condizioni delle popolazioni delle contrade meridionali, io ho potuto ritenere che quella sia asserzione originata dalle idee prevalenti nel settentrione, dove si qualifica ozioso, chiunque non attende a lavoro indefesso tutta quanta la giornata. Ho voluto pertanto fissare la mia attenzione in modo particolare sul popolo, sia quando si muove, sia, quando sta in riposo e posso dire di avere visti bensì molti straccioni, ma nessuno di questi disoccupato.
Domandai pertanto ad alcuni amici dove fossero tutti quegli oziosi che io avrei pure voluto imparare a conoscere, ma dessi non me ne poterono addittare che pochissimi, e mi diedi pertanto a ricercarli io stesso, ed a dare loro la caccia, nel girare per la città.
Cercai a conoscere in quell’immenso brulichio di gente le varie figure, a dividerle, e per così dire classificarle, secondo il loro aspetto, il loro modo di vestire, il loro contegno, le loro occupazioni. Trovai questa operazione più facile qui che in qualsiasi altro sito, imperocchè gli uomini qui si rivelano più facilmente che altrove quali sono, e dal loro aspetto esteriore si può giudicare più agevolmente la loro condizione.
Facevo le mie osservazioni di buon mattino, e tutte le persone che incontravo qui e colà, in atto di riposare, erano uomini, de’ quali tosto a primo aspetto si riconosceva la professione, l’occupazione.
I facchini, i quali hanno in vari punti della città le loro stazioni privilegiate, e che stanno ivi aspettando chi voglia richiedere l’opera loro; i calessari, i loro giovani, i loro garzoni, i quali stanno sulle grandi piazze presso i loro calessini ad un cavallo solo che governano, e che sono continuamente a disposizione di chi voglia richiedere i loro servigi; i barcaiuoli i quali stanno sul molo fumando la loro pipa; i pescatori, i quali se ne stanno sdraiati al sole, probabilmente perchè il vento contrario loro impedisce potere lanciare la loro barca in mare. Parecchi individui pure in moto qua e là, tutti rivelavano in qualche modo avere una occupazione. Di veri mendicanti non viddi che un povero vecchio, tutto storpio, inetto a qualsiasi lavoro. Per quanto io abbia girato, guardato, e non solo al mattino, ma ancora durante la giornata, non ho potuto scorgere veri oziosi, nè delle classi infime, nè del ceto medio, nè uomini, nè donne, qualunque età.
Voglio addurre poi un particolare, per dare idea più precisa di quanto ho esposto, e per renderlo più credibile. Anche i ragazzi più giovani sono occupati in varie maniere. Molti di questi portano da S. Lucia pesci in vendita per la città; se ne vedono altri nei dintorni dell’arsenale, dove lavorano i carpentieri sulla sponda del mare, occupati a raccogliere i pezzettini di legno, avanzi delle costruzioni navali, ovvero rigettati dalle onde, ad allogarli in piccoli cestellini. E si vedono colà, frammisti a giovani più adulti, intenti a lavorare dessi pure per quello che possono, bambini, i quali appena cominciano a camminare. Quando hanno riempite le loro cestelline, le portano nella città, sul mercato, dove quei piccoli legni sono acquistati degli artieri, dai cittadini meno agiati, i quali se ne valgono per accendere sul trepiede il carbone col quale si riscaldano, ovvero fanno la loro modesta cucina.
Altri ragazzi portano in vendita l’acqua delle sorgenti sulfuree, delle quali si suole fare grande uso dalla popolazione, specialmente nella primavera. Altri cercano fare un piccolo guadagno portando in vendita frutta, miele filato, cialdoni, confetti, che offrono di preferenza ai ragazzi, per poterne ottenere da questi la loro parte. Ed è propriamente grazioso il vedere taluno di cui tutto il negozio egli attrezzi di bottega consistono in una tavola, ed in un coltello con un popone od una zucca arrostita per metà, il quale, dopo avere radunata attorno a sè una schiera di altri ragazzi, depone in terra la sua tavola e distribuisce il suo popone, la sua zucca, tagliata a fette sottili. Stanno attenti a vedere se loro si dà la piccola moneta di rame che loro è dovuta per ogni fetta, e trattano il loro piccolo negozio con tutta serietà, per evitare di essere alle volte ingannati dall’avida schiera dei piccoli acquisitori che li attorniano. Sono persuaso che in un soggiorno più lungo, potrei trovare altri esempi di occupazioni analoghe dei ragazzi.
Molti altri individui poi, in parte adulti, in parte tuttura giovanetti, ed i più, stracciati in modo compassionevole, sono occupati a caricare le immondizie sopra asinelli, ed a trasportarle fuori della città. Tutti i terreni a contatto immediato di Napoli sono coltivati ad orto, e reca soddisfazione il vedere la quantità enorme di legumi di ogni specie che s’introducono da quelli in città in tutti i giorni di mercato, come parimenti l’industria degli uomini, la quale riporta negli orti quanto sopravanza, quanto le cuoche cacciano via perchè inutile, allo scopo di affrettare per tal guisa il circolo della vegetazione. La consumazione dei legumi che si fa dai Napoletani, essendo difatti enorme, i fusti, le foglie dei cavolifiori, dei broccoli, dei carcioffi, dei cavoli, dell’aglio, entrano per grande parte nella formazione del concime di Napoli, ed è questo quello a cui si dà la preferenza. Ogni asinello porta sulla schiena due ceste di vimini flessibili, e non si riempiono queste soltanto di concime; se ne forma ancora un cumulo sul dorso della bestia, fra le ceste. Un orto non può sussistere senza il suo ciuco. Un servitore, un ragazzo, talvolta il padrone stesso dell’orto, si recano ogni giorno quante volte occorre nella città, dove loro si porge ad ogni ora una miniera inesauribile di concime, e non è d’uopo aggiungere quale attenzione speciale si porga a raccogliere gli escrementi dei cavalli e dei muli. Quegli ortolani coi loro asinelli si partono mal volontieri dalla città quando scende la notte; ed il ricco il quale se ne torna a casa dopo la mezzanotte dall’opera, non pensa probabilmente, che vi sono uomini laboriosi, i quali prima che spunti il sole, verranno a raccogliere quanto i suoi cavalli hanno lasciato sul selciato. Mi si assicurò che due individui i quali facciano società fra di loro, acquistino un asinello, prendano a pigione da un gran proprietario un pezzetto d’orto, lavorando assiduamente, in questo clima felicissimo dove la vegetazione non è mai interrotta, non tardano guari a fare un guadagno di una certa importanza.
Mi scosterei troppo dal mio proposito, se volessi far parola delle molte e svariatissime industrie, le quali si possono osservare con piacere a Napoli, come del pari in qualsiasi altra vasta città; però voglio dire qualcosa ancora dei venditori ambulanti imperocchè appartengono questi specialmente, all’ultima classe della popolazione. Gli uni girano portando attorno un barile d’acqua ghiacciata, e limoni, per potere fare dovunque limonata, bevanda la quale non deve fare difetto neanco ai più poveri; altri portano in giro carri dove stanno fiaschi di liquori di varie qualità e bicchieri fatti a punta, ed infilati in una tavola bucata, perchè nel muovere il carretto non cadano; altri portano ceste ripiene di paste, di ogni specie di altre ghiottonerie, di aranci, di altre frutta, e si direbbe che ognuno vuole prendere parte alla vita facile e lieta, che di continuo si vive a Napoli, e contribuire ad accrescerne la piacevolezza.
Oltre questi venditori ambulanti, vi sono ancora altri piccoli merciaiuoli, i quali girano offrendo agli avventori le loro minute mercanzie, schierate sopra una tavola, talvolta pure in un semplice coperchio di scatola, ed altri ancora, i quali le espongono addirittura sul suolo delle piazze. Non sono queste, merci per certo, le quali si vendano nelle grandi botteghe; la è tutta roba di ferravecchi. Non havvi pezzo minuto di ferro, di cuoio, di panno, di tela, di feltro, e via dicendo, il quale recato sul mercato non finisca per trovare chi ne faccia acquisto. Molti individui poi delle ultime classi, si trovano occupati presso i mercanti, ed i fabbricanti, in qualità di operai, e di fattorini.
È vero che non si fanno molti passi senza incontrare un individuo molto male vestito, ovvero stracciato addirittura, ma questi non è punto un fannullone, un perdigiorni. Mi sentirei anzi di sostenere il paradosso che a Napoli la massima parte forse delle industrie, vi è esercitata dalle infime classi. Per dir vero però, non si potrebbero paragonare queste colle industrie dei paesi settentrionali, le quali si devono non solo esercitare in ogni giorno, in ogni ora, ma ancora con tempo buono o cattivo, nella state come nell’inverno. L’abitante delle contrade settentrionali trovasi costretto dalla natura a pensare di continuo a provvedere a’ suoi bisogni, in guisa che fa’ di mestieri alla donna porre mente a salare ed affumicare le carni per tutta l’annata; all’uomo non perdere di vista nè la provvista della legna, nè quella delle derrate, nè quella dei foraggi per gli animali. Ne deriva quindi che le ore, le giornate le più belle, sono sottratte ai sollazzi, ai trattenimenti, devono essere dedicate tutte al lavoro. Per vari mesi è forza a quelli rinunciare all’aria libera, vivere in casa rinchiusi per difendersi contro il cattivo tempo, la pioggia, la neve, il freddo; le stagioni si succedono le une alle altre, e chiunque non voglia andare in rovina, deve necessariamente pensare ad essere previdente, economo. Imperocchè non è quivi questione s’egli voglia o no, fare privazioni; non deve volere fare privazioni, per la gran buona ragione che non ne può fare; la natura lo spinge a pensare di continuo a provvedere a’ suoi bisogni, e per certo l’azione della natura sempre costante da secoli, ha contribuito alla formazione del carattere cotanto pregevole sotto molti aspetti delle popolazioni delle contrade settentrionali. E pertanto noi giudichiamo dal nostro punto di vista con troppa severità i popoli del mezzodì, i quali vivono sotto un cielo cotanto più clemente. Le opinioni emesse dal signor di Pauw nelle sue Recherches sur les Grecs, colà dove parla dei filosofi cinici, corrispondono appieno a quest’ordine d’idee. Egli dice, che noi non ci formiamo un’idea esatta della misera condizione di cotali uomini, imperocchè il loro principio fondamentale di privarsi di ogni cosa, era grandemente favorito da un clima, il quale provvede a tutto. Tale individuo in quelle contrade, il quale a noi pare povero e miserabile, non solo trova soddisfazione a suoi bisogni più indispensabili, ma si può ancora godere la vita, e per tal guisa un così detto lazzarone napoletano, potrebbe sprezzare la carica di vicerè nella Norvegia, ovvero respingere l’onore del governo della Siberia, se l’imperatrice di Russia glie lo volesse affidare.
Per certo che nei paesi nostri un filosofo cinico farebbe una cattiva vita; nelle contrade meridionali per contro, la natura stessa lo alletta a quella. Ivi l’individuo cencioso non si può dire nudo; quegli il quale non possiede casa propria, nè tolta a pigione, che nelle strade, dorme sulle porte dei palazzi, delle chiese, riparato dal cornicione, ovvero sotto i portici; che quando fa cattivo tempo, trova per piccola moneta un sito dovunque, da porsi al riparo, non si può dire nè miserabile, nè abbandonato; non si può dire povero, perchè non ha pensato all’indomani. Si pensi soltanto quale abbondanza di mezzi di nutrimento offra questo mare ricchissimo di pesci, dei quali per precetto religioso la popolazione qui si deve cibare per due giorni in ogni settimana; si ponga mente all’abbondanza di frutta e di legumi che vi regna; si consideri come la contrada alle porte di Napoli abbia ricevuto nome di Terra di Lavoro, che è quanto dire nel senso che si dà in questo caso alla parola, terra dell’agricoltura, e che quella provincia ha meritato da secoli il nome di Campagna felice, non si avrà difficoltà a comprendere, come ivi debba essere facile la vita.
Sovratutto poi, varrebbe il paradosso che io esternai poc’anzi, a dare occasione ed argomento a moltiplici considerazioni, di chi intendesse porgere una descrizione accurata di Napoli, per la quale cosa non si richiederebbe soltanto un ingegno distinto, ma vi vorrebbe lo studio ancora di vari anni. Si verrebbe probabilmente in allora a conchiudere, che il così detto lazzarone non è per nulla più ozioso, che tutte le altre classi della popolazione, ed a comprendere che quegli lavora a modo suo, non solo per vivere, ma ancora per godere, e che si compiace del suo stesso lavoro. E da ciò si possono dedurre molte conseguenze, e fra le altre, che gli operai sono qui, in generale inferiori a quelli delle contrade settentrionali; che non si possono stabilire fabbriche; che ad eccezione dei forensi e dei medici, l’istruzione è poco diffusa nella popolazione; che quei pochi i quali studiano si trovano isolati; che nessun pittore della scuola napoletana ha mai acquistata vera celebrità; che il clero vive in ozio assoluto; che i ricchi dissipano in generale i loro redditi nei piaceri sensuali, nello sfarzo, e nella magnificenza.
So poi benissimo che queste non sono altra cosa fuorchè asserzioni generiche, e che per descrivere minutamente i distintivi caratteristici di ogni classe, sarebbe d’uopo esaminare, studiare, stabilire confronti; però ritengo che in ultima analisi si arriverebbe alle conclusioni che accennai.
Voglio ora far parola ancora del minuto popolo di Napoli. Si osserva in quello, come nei ragazzi vispi ai quali si affida un qualche incarico, che lo disimpegnono bensì, ma che in pari tempo si fanno, di quanto loro si richiede, un passatempo. Si osservano in quella classe ingegno pronto, svegliato, criterio franco, sicuro. Il suo linguaggio è figurato; i suoi frizzi sono vivacissimi, pungenti. Le antiche stellane erano originarie dei dintorni di Napoli; il Pulcinello prediletto ne ha serbate le tradizioni, e diverte tuttora i Napoletani di oggidì, nella stessa guisa che le atellane formavano la delizia dei Napoletani dei tempi antichi.
Plinio nel capitolo quinto del terzo libro della sua storia naturale, fece alla Campania unicamente, l’onore di un’ampia descrizione. Queste contrade, dice egli, sono cotanto felici, cotanto graziose, cotanto amene, che si conosce come in esse la natura si compiaccia dell’opera sua. Imperocchè, quale aria pregna di vita, quale serenità costante di cielo, queste fertilità di campi, quale amenità di colline, quale presenza di foreste, quali ombre di boschi, quale abbondanza di piante utili, quale ampiezza di siepi, quale quantità di vigne, di oliveti, quale razza distinta di pecore, di animali cornuti; quanti laghi, quale ricchezza di fonti, di acque correnti, quanti mari, quanti porti! La terra a pare dovunque spontaneamente il suo seno al commercio, e quasi volesse giovare agli uomini stessi stende le sue braccia in mare.
Non fo parola dell’ingegno svegliato degli abitanti della loro forza, della vittoria che ottennero colla parola e colle opere, sopra tanti altri popoli.
E di questa contrada i Greci soliti a magnificare con esagerazione le cose loro portavano il giudizio il più favorevole col dare a parte di esso il nome di Magna Grecia.
Napoli, li 29 maggio 1787.
Si osserva dovunque con vera soddisfazione una grande allegria. I fiori, le frutta di colori e di tinte vivaci, di cui fa pompa la natura, sembrano invitare gli uomini ad ornare di colori ugualmente vivaci gli oggetti tutti, i quali servono ai loro usi. Tutti coloro i quali in qualche modo lo possono, si ornano di nastri, di veli di seta, portano fiori sul cappello. Nelle case le più modeste, le sedie, gli armadi, sono ornati di fiori dipinti sopra fondo in oro; i calessini ad un cavallo, sono coloriti in rosso; i finimenti dei cavalli sono guerniti di dorature; i cavalli stessi sono ornati di fiori, di fiocchi rossi, di lamine di talco. Molti portano penne sulla testa, altri piccole banderuole, le quali si muovono, svolazzano, quando corrono. Noi siamo usi per lo più a qualificare barbaro di gusto corrotto, la passione dei colori chiari, vivaci, e può darsi che sia tale difatti in un certo senso; ma sotto questo cielo sempre sereno, sempre azzurro, lo sfoggio di quei colori non urta punto la vista, imperocchè nulla vale a vincere lo splendore del sole, la magnificenza del riflesso di questo in mare. La vivacità dei colori è temperata dall’intensità della luce, e dal momento che tutte le tinte, il verde delle piante, degli alberi, il gialliccio, il bruno, il rossiccio della terra, compaiono in tutta la loro forza allo sguardo, anche i colori, le tinte le più vivaci, dei fiori, dei vestiti, rientrano nell’armonia generale. Il busto, la gonella scarlatta delle donne di Nettunno, guarnite di larghi galloni d’argento e d’oro; altri costumi nazionali, tutti di colori vivaci; le barche dipinte si direbbe vogliano gareggiare fra loro, nel fare comparsa sotto quello splendido cielo, in vista di quello splendido mare.
E nello stesso modo in cui vivono, danno pure sepoltura ai loro morti; nessuna processione lunga e nera, viene a turbare l’armonia di quel mondo di gaio aspetto.
Vidi portare in terra un ragazzo. Scorgevasi un’ampia bara, coperta da un tappeto di seta rossa, ricamato in oro, e su questa era posata una specie di cestellina, ornata di sculture in oro ed in argento, nella quale giaceva il corpicino del defunto, vestito di bianco, e tutto ricoperto di nastri, colore di rosa. Ai quattro angoli della cestellina sorgevano quattro angeli, dell’altezza di due piedi all’incirca, i quali sostenevano grossi mazzi di fiori sul piccolo cadavere, e non essendo fissati questi alla bara, se non per mezzo di fili di ferro, vacillavano ad ogni movimento di quella, spandendo nell’atmosfera il profumo dei loro fiori. Si muovevano tanto più quegli angioli, in quantochè il corteggio procedeva rapido per le strade, ed i sacerdoti cogl’individui i quali portavano ceri, e che precedevano la bara, pareva corressero, piuttostochè camminare.
Non havvi stagione dell’anno nella quale non abbondino derrate sul mercato, ed il Napoletano non si compiace soltanto nel mangiare, ma vuole ancora che le derrate le quali si espongono in vendita, siano ornate, e facciano bella figura.
Presso S. Lucia si vedono i pesci separati per specie; ostriche, gamberi di mare, frutti di mare, esposti entro ceste di forma graziosa, con sotto uno strato di foglie fresche. Parimenti le botteghe dei venditori di frutta disseccate, di legumi, sono ornate in bella forma, e gli aranci ed i limoni di ogni specie, frammisti a rami di piante, colle loro foglie, producono bellissimo effetto. Però le botteghe ornate con maggiore eleganza sono quelle dei macellai, dei venditori di carne, e su queste si fissa con più avidità lo sguardo del popolo, il cui appettito trovasi maggiormente aguzzato dalla privazione periodica.
Sui banchi dei macellai non si sospendono mai i pezzi di bue, di vitello, di montone, senza che il fianco o la coscia, non siano rivestiti di carta dorata. Vi sono certi giorni dell’anno, quelli specialmente delle feste del Natale, i quali sono dedicati alla gastronomia, ed allora la è una vera cuccagna generale, per la quale si direbbe siansi data parola cinquecento mille persone. In allora tutta la via di Toledo, parecchie altre strade e piazze, sono dedicate per intiero al commercio delle derrate alimentari. L’occhio è rallegrato dalle botteghe dove si vendono frutta fresche, poponi, zibibo, fichi secchi. I viveri pendono in ghirlande sopra le strade; specialmente salsiccie voluminose ornate di nastri rossi, di frastagli di carta dorata; si scorgono polli d’India, i quali portano una banderuola rossa piantata sulla schiena, all’origine della coda. Mi si assicurò che di questi ultimi se ne vendano ben trenta mille, senza tenere conto di quelli, che si allevano e s’ingrassano nelle case. Arrivano inoltre asinelli in numero sterminato, carichi di capponi, di agnelli, di legumi, i quali tutti vengono avviati sul mercato, ed i cumuli di uova che colà si vedono, sono di un tale volume, da non potersi imaginare. E non basta il piacere di consumare tutta quella roba; in ogni anno un ufficiale di pulizia percorre la città a cavallo, preceduto da un trombetta, ed annuncia su tutte le piazze, sui crocicchi delle strade, quanti buoi, quanti vitelli, quanti agnelli, quanti maiali abbiano divorato i Napoletani. Il popolo ascolta con attenzione quella lunga litania, e si rallegra nell’udire tutti quei numeri, ricordando ognuno con compiacenza la parte presa a quella soddisfazione generale.
I cibi condizionati colla farina e con il latte, che le nostre cuoche sono valenti ad apprestare in tante svariate maniere, sono doppiamente apprezzati da questo popolo, dove sono poche le varietà di quelli, e dove non si hanno forni adatti a cuocerli. I maccheroni formati di una pasta fina, lavorata a lungo, molta compressa, e fatta passare a traverso forme apposite, sono di varie qualità, e si trovano dovunque a modico prezzo. Si fanno in generale cuocere semplicemente nell’acqua, quindi si condiscono con il cacio sul piatto stesso. Sull’angolo di tutte le strade principali si vedono friggitori colle loro padelle piene di olio bollente, occupati, nei giorni di festa specialmente, a friggere pesci, o cialde sull’istante, a chiunque loro ne porga domanda. Lo smercio di quei cibi fritti è grandissimo, e parecchie migliaia d’individui, portano via, da quelle botteghe all’aria aperta, il loro pranzo e la loro cena, in un pezzo di carta.
Napoli, il 30 maggio 1787.
Nel passeggiare a sera inoltrata per la città, arrivai al Molo. Colà vidi in un solo colpo d’occhio la luna, i lembi delle nuvole illuminati dalla luce di quella, i riflessi della stessa in mare, dove le sommità delle onde agitate splendevano di più limpido, e più vivo chiarore. Si riflettevano in oltre nel mare le stelle del cielo, la luce del faro, le fiamme del Vesuvio, e quà e là i lumi di varie barche. Sarebbe pure stato un bel soggetto di quadro, per un Van der Nere.
Napoli, giovedì 31 maggio 1787.
Avevo fissato in modo tanto deciso di volermi trovare a Roma per la festa del Corpo del Signore, allo scopo specialmente di vedervi gli arazzi eseguiti sui cartoni di Rafaello, che tutte queste bellezze naturali, ad onta non abbiano le uguali al mondo, non valgono punto a rimuovermi dal mio proposito, e continuo ugualmente i miei preparativi per la partenza. Tengo già in pronto il mio passaporto; ho ricevuto già da un vetturino la caparra, imperocchè si provvede qui in senso inverso che presso noi per la sicurezza alla partenza dei viaggiatori. Kniep intanto è occupato a porre in assetto il suo nuovo quartiere, migliore e per ampiezza, e per posizione, di quello che occupava prima.
Già prima che il mio amico fosse occupato a fare questo suo cambiamento di domicilio, mi aveva dato questo materia a pensare; mi pareva dover essere cosa spiacevole, e sarei quasi per dire sconveniente lo entrare in una casa, senza portarvi assolutamente nulla; mi pareva che un solo fusto di letto, dovrebbe bastare ad ispirare a quelli che la subaffittano, un certo rispetto per il nuovo dozzinante.
E mentre passavamo oggi davanti ai molti rigattieri che stanno sul largo del Castello, vidi due cavalletti in ferro con ornati di bronzo, che acquistai tosto, facendone regalo all’amico, a cui serviranno di base ad una sede futura di riposo, più solida, e più tranquilla. Uno fra i tanti facchini, i quali stanno sempre pronti ad offerire i loro servigi li recò tosto colle tavole indispensabili nel nuovo quartiere, e Kinep fu cotanto lieto di questa disposizione, che tosto mi lasciò, per andare fare acquisto di un cavaletto per disegnare, di carta, e di quanto gli occorre per lavorare, onde porre in assetto la sua novella abitazione. A norma poi dei nostri patti, gli ho lasciata parte delle viste che ha prese nelle nostre escursioni nelle Due Sicilie.
Napoli, il 1 giugno 1787.
L’arrivo del marchese Lucchesini, mi ha fatto differire di alcuni giorni la mia partenza, ed ho avuto molto piacere di fare la di lui conoscenza. Mi pare sia uno di quegli uomini i quali posseggono un buon temperamento morale, per potere sedere di continuo con soddisfazione al banchetto della vita, a differenza di tanti, i quali si riempiono di quando a quando soverchiamente lo stomaco, a guisa di animali ruminanti, e non possono quindi prendere più altro cibo, in fino a tanto abbiano compiuta la loro digestione. Egli mi va realmente a genio, è propriamente di buona indole tedesca.
Ora parto volontieri da Napoli, e sono già sulle mosse. In questi ultimi giorni mi sono abbandonato al piacere di vedere molte persone, e ne ho conosciute parecchie le quali mi andarono molto a genio, e colle quali ho passato ore piacevolissime; ma se avessi continuato a stare qui ancora due settimane soltanto, avrei finito per scostarmi del tutto dal mio scopo. Del resto ogni cosa qui vi porta a fare vita inoperosa. Dopo il mio ritorno da Pesto, ad eccezione dei tesori di Portici ho viste poche cose; e molte me ne rimarrebbero, per le quali io vorrei potermi trattenere ancora. Quel museo poi è propriamente l’alfe e l’omega, di tutte le collezioni di antichità; ivi si scorge propriamente, come il mondo antico fosse superiore per senso artistico a quello moderno, il quale dal canto suo supera l’antico, nell’abilità tecnica di mestiere.
Il 1 giugno 1787.
Il mio domestico di piazza nel recarmi il mio passaporto vidimato, mi disse lamentando la mia partenza, che dal Vesuvio era sboccato un torrente copioso di lava, il quale si avviava verso il mare; che già era sceso lungo le ripide pendici del monte, e che in pochi giorni sarebbe arrivato alla spiaggia. Ed ora io mi trovo in grande incertezza. Ho destinata la giornata d’oggi a fare le visite di congedo, di cui sono debitore verso tante persone, le quali mi furono larghe di ogni cortesia, e vedo già quanto mi succederà domani. Non è possibile il sottrarsi totalmente alle relazioni di società; ma intanto mentre vi si trova piacere, vi distraggono queste dallo scopo serio della vita. Sono di pessimo umore.
Alla sera.
Anche le mie visite di congedo non furono senza recarmi soddisfazione, nè senza giovare, desse pure, alla mia istruzione; mi si fecero vedere molte cose ancora, alle quali non si era pensato finora, ed il cavaliere Venuti specialmente, mi fece vedere molti tesori nascosti, ed ammirai ancora una volta il suo Ulisse, propriamente di raro pregio, tuttochè mutilato. Mi portò, prima che io prendessi congedo da lui, nella fabbrica delle porcellane, dove cercai imprimermi nella memoria l’Ercole, e dove mi ricreai ancora una volta la vista, nel contemplare i vasi della Campania.
Propriamente commosso quando gli strinsi la mano nel partire, mi manifestò il vivo desiderio ch’egli avrebbe avuto che io avessi prolungata ancora la mia stanza a Napoli. Il mio banchiere, presso il quale mi presentai al momento in cui stava per andare a pranzo, non mi voleva lasciare partire; e l’invito mi sarebbe fuor di dubbio tornato accetto, quando la lava non avesse esercitata sopra di me, la sua forza di attrazione. Fra varie occupazioni, fra il preparare i bagagli, il saldare conti, venne la notte, e mi affrettai a portarmi sul molo.
Vidi di bel nuovo tutti i fuochi, e tutte le luci riflesse dalle onde del mare, le quali, per essere questa sera più agitate, le facevano vacillare maggiormente. La luna piena in tutto il suo splendore, gareggiava di luce colle fiamme del volcano, e con il torrente infuocato della lava, il quale proseguiva lentamente il suo corso. Avrei pure voluto portarmi colà, ma vi occorrevano troppi preparativi; non vi sarei potuto arrivare che al mattino. Non mi volli guastare coll’agitazione, coll’irrequietezza, la bella vista di cui godevo, e me ne stetti seduto sul molo, godendomela a mio bell’agio, ad onta dell’andirivieni della folla, de’ suoi discorsi intorno alla lava, de’ suoi paragoni con quella di altre epoche, delle sue conghietture intorno al corso che questa avrebbe potuto prendere, intorno ai danni che avrebbe potuti arrecare.
Napoli, sabbato 2 giugno 1787.
Anche questa bella giornata ho trascorsa per dir vero con piacere, e non senza frutto, con persone distinte; ma però contro i miei propositi, e pertanto a malincuore. Stavo contemplando con desiderio il fumo che scendeva lentamente dal monte verso il mare, segnando la strada percorsa d’ora in ora dalla lava. Neanco alla sera potevo essere libero. Avevo promesso di recarmi a far visita alla duchessa di Giovine2, la quale abita nel palazzo reale, dove, dopo avere salito parecchie scale, mi si fecero attraversare vari corridi, gli ultimi dei quali erano pieni di casse, di armadi, di tutti gl’ingombri della guardaroba di una gran dama. Trovai in una stanza vasta, altissima, arredata molto modestamente, una signora giovane tuttora, di bell’aspetto, la quale conversava molto piacevolmente, ed anche, fino ad un certo punto, seriamente. Nella sua qualità di originaria di Germania, conosceva le tendenze libere e vaste della nostra letteratura; sapeva apprezzare i lavori di Herder, lo scopo che questi ebbe di mira, ed aveva del pari un idea giusta, e precisa delle opere di Garvens. Era pure al corrente di quanto scrivono in Germania le donne, e si poteva rilevare che avrebbe desiderato a sua volta sapersi valere della penna con eleganza e disinvoltura, ed acquistar fama per tal guisa. I nostri discorsi si aggirarono su quegli argomenti, come pure in torno alla sorte riservata alle giovani di famiglie distinte, e come ben si scorge il campo era vasto. Intanto era quasi venuta la notte, e non si erano accesi ancora i lumi. Passeggiavamo sù e giù per la stanza, allorquando la principessa accostatasi ad una finestra di cui erano chiuse le imposte, le aprì tutto ad un tratto, e vidi tale spettacolo, che non si può vedere fuorchè una volta sola in vita. S’ella lo fece coll’intenzione di recarmi stupore, si può vantare per certo, di avere raggiunto il suo scopo. Eravamo al piano superiore del palazzo; di fronte alla finestra sorgeva gigante il Vesuvio; essendo già da buona pezza tramontato il sole, si scorgevano distintamente le fiamme della lava che scendeva, e cominciavano pure queste ad illuminare i nembi di fumo che loro soprastavano, ed ad ogni scoppio di eruzione, tutta la scena si rischiarava, per un istante di luce più viva. Scorgevansi dalla sommità del monte fin verso il mare una striscia di fuoco, una lunga nuvole di vapori infuocati, poi il mare, la pianura, i monti, la vegetazione, ed il tutto distintamente immerso in una luce crepuscolare, pacata, tranquilla. Tutti questi oggetti che si potevano abbracciare con un solo colpo d’occhio, la luna la quale sorgeva a tergo del monte, formavano un quadro meraviglioso, fatto a bella posta per ingenerare stupore.
Da quel punto di vista lo sguardo poteva abbracciarlo tutto quanto, e sebbene non si potessero distinguere i particolari, non era men viva per questo l’impressione prodotta dal complesso. La nostra conversazione interrotta sulle prime da quello spettacolo, prese poco dopo carattere più intimo. Avevamo davanti agli occhi un testo, che mille anni non sarebbero bastati a svolgere. Tanto più scendeva la notte, tanto più si distinguevano gli oggetti; la luna splendeva quasi un altro sole; si scorgevano illuminate da questa in ogni loro particolare le colonne e le nuvole del fumo, e coll’aiuto di un canocchiale si sarebbe detto di potere distinguere i sassi infuocati, che venivano eruttati dal cratére del monte. La mia ospite, che così voglio nomarla per la cena squisita che mi fece servire, ordinò che si collocassero i lumi alla parte opposta della stanza, e la bella donna rischiarata dalla luna, sul primo piano di quel quadro meraviglioso, mi pareva diventare ad ogni istante più bella, e tanto era maggiore il fascino che esercitava sopra di me, col farmi udire in questo paradiso meridionale, il suono gradevole del più puro accento tedesco. Dimenticai affatto che l’ora si era fatta tarda, e fù d’uopo che la signora me lo facesse osservare, dicendomi che le spiaceva che io dovessi partire, ma che si appressava l’ora alla quale tutte quelle gallerie e corridoi si chiudevano, nè più nè meno che quelli di un chiostro. Presi congedo pertanto, temporeggiando per quanto mi fu possibile, dalla signora, ringraziando la sorte di avermi compensato di tutte le contrarietà della giornata, con una così bella sera. Uscito all’aria libera dissi a me medesimo che questo torrente grandioso di lava, visto da vicino non sarebbe stato altro fuorchè la ripetizione di quello più piccolo che avevo già visto, e che me lo potevo figurare quale ultimo spettacolo visto a Napoli. A vece di far subito ritorno a casa, mi portai al molo, per contemplare la scena grandiosa da diverso punto di vista, ma non so se la stanchezza della giornata, ovvero il senso intimo di non volere recare pregiudizio al bellissimo quadro che mi stava tuttora davanti agli occhi, mi fece volgere i miei passi verso la locanda del signor Moriconi, dove trovai Kniep, il quale dopo avere posto in assetto il suo nuovo quartiere, era venuto per finire meco la sera. Feci portare una bottiglia di vino, e parlammo delle nostre future relazioni, promettendogli io che non appena avrei potuto fare conoscere in Germania suoi lavori, e raccomandarlo all’ottimo duca Ernesto di Gotha, non avrebbe mancato per certo di ricevere di colà commissioni. Per tal guisa ci separammo con rincrescimento bensì, ma colla certezza di continuare a mantenere buone relazioni.
Napoli, domenica 3 giugno 1787.
Ho dunque abbandonato or ora questa città impareggiabile, che secondo ogni probabilità non rivedrò più; e ne partii quasi sbalordito, lieto però di non lasciare verun triste ricordo dietro di me.
Giunto all’ultimo ufficio di polizia, all’estremità del sobborgo, fui distratto da miei pensieri dalla vista di un agente, il quale fissò lo sguardo sù di me quasi mi conoscesse, poi tosto scomparve. I doganieri erano tuttora occupati col vetturino nella visita del legno, quando vidi uscire dalla bottega da caffè vicino Kniep, il quale mi mi venne porgere sur una guantiera ed in una tazza chinese, caffè nero, fumante. Si accostò alla portiera della carrozza, con una serietà la quale gli stava benissimo. Rimasi sorpreso, e commosso ad un tempo di un atto cotanto gentile. «Voi mi avete fatto tanto bene, mi disse, e per tutta la mia vita, che voglio manifestarvene almeno, e per quanto posso, la mia gratitudine.»
Non è cosa facile il trovare parole in tali congiunture; e risposi laconicamente, che esso aveva lavorato tanto per me, che io rimanevo suo debitore, e che col trarre profitto di quanto avevamo fatto assieme, si sarebbe accresciuta la mia riconoscenza per la sua persona.
Ci separammo, come si separano per certo di raro persone le quali si siano incontrate a caso, e siano rimaste assieme poco tempo. Forse usando maggiore sincerità nelle vicendevoli relazioni, s’incontrerebbe più di frequente nella vita effetto e gratitudine. Vi sarebbe vantaggio per ambe le parti, e l’indole, il carattere, che si considerano per le cose le più essenziali, non figurerebbero più che quali accessori.
Per istrada 4, 5 e 6 giugno.
Questa volta, viaggiando solo, ho tutto il tempo di riandare le mie impressioni degli ultimi mesi, e lo fò con piacere. Trovo però talvolta lacune nelle mie osservazioni, e mi accorgo che non potrei rendere altri consapevole del complesso del mio viaggio, che si presenta alla mia imaginazione quale fatto, il quale ha connessione, seguito. Chi narra deve necessariamente entrare in tutti i particolari. Come mai è possibile che questi s’imprimano sotto forma complessiva nella mente di un terzo?
Nessuna cosa pertanto mi poteva riuscire più accetta, che la certezza da voi datami nelle ultime vostre lettere, che vi state vale a dire occupando assiduamente dell’Italia e della Sicilia; che state leggendo descrizioni di viaggi, contemplando incisioni; mi conforta il pensiero che tutte quelle cose saranno di commentario utile alle mie lettere. Se lo aveste fatto, o me lo aveste partecipato prima, avrei procurato essere, più zelante ancora, di quanto io sia stato. Il pensiero però di essere stato preceduto da uomini di vaglia quali Bartels, Munter, e da architetti di varie nazioni, i quali si erano certamente prefisso uno scopo più determinato di me, che non mi preocupavo d’altro all’infuori dell’impressione prodotta dalle cose, mi ha tranquillato più di una volta, quando mi accorgevo che ad onta di tutti i miei sforzi non riuscivo ad esprimere quanto sentivo.
Dal momento principalmente e sovratutto, che ogni uomo non deve essere considerato altrimenti, che quale supplemento di tutti gli altri, e che tanto più utile, tanto più accetto riesce quando si comporta a quel modo, questa massima si deve applicare specialmente ai viaggiatori, ed alle descrizioni di viaggi. Persone, scopi, circostanze di tempo, accidenti fortuiti buoni e cattivi, assumono aspetto diverso, agli occhi degli uni e degli altri. Conoscendo io, chi mi ha preceduto, mi compiacerò nel trarne partito non per me solo, ma nel valermene pure a preparare ad agevolare la via a chi dovrà, dopo di noi, visitare le stesse contrade.
Fine.