Ricordanze della mia vita/Parte seconda/II. Tre giorni in cappella

II. Tre giorni in cappella

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Parte seconda - I. La nuova prigionia Parte seconda - III. Al Signor Amilcare Lauda, avvocato

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II

Tre giorni in cappella.

Ergastolo di S. Stefano, 27 aprile 1851.

 Alla moglie mia dilettissima,

Gli uomini fortunati sogliono offerire alle loro donne diversi doni e preziosi: io che sono uno sventurato non posso offerire altro a te, o cara compagna della mia vita e de’ miei dolori, che la mesta descrizione delle nostre sventure, delle quali tu sofferisti la parte maggiore e piú amara. Ho potuto durare a scrivere, perché in questo abisso spaventevole di tutti i vizi, io sento che scende a me un angelo consolatore, che mi difende, mi assecura, mi solleva l’anima, mi riempie tutto il cuore, e non mi lascia spegnere quel poco lume d’ingegno che mi rimane. Quest’angelo è la tua immagine, o diletta mia: e tu insieme coi nostri figliuoli sei sempre presente all’anima mia, e mi dái vita e speranza. Eravam giovanetti entrambi, eravam giá lieti del nostro Raffaele, e la Giulia ti palpitava nel seno, quando la sventura ci colpí grave e lungamente; e poi datoci tanto spazio quanto bastava per farci sentire piú vivo il dolore di un altro colpo, ci ha percosso piú furiosa. Il mondo non sa, né vogliamo che sappia, tutte le nostre pene, e quanto ci costa la virtú. Ci hanno fatto ingoiare tutte le amarezze, ci hanno trafitti con tutte le punte del dolore, ci hanno tolto ogni cosa, ma non l’amor nostro: e l’amore ci sostiene e ci fa parer bella la stessa virtú. Io scrivo non per avere dal mondo una lode che non merito, o una pietá che m’irrita e m’offende; ma perché resti ai nostri [p. 228 modifica] figliuoli, come utile insegnamento, la memoria delle nostre sventure. Poveri figli; che trista ereditá avranno da noi! Ma pure, o mia diletta, se essi impareranno da noi come si soffre, come si crede in Dio e si benedice anche nei dolori, come si perdona a chi stoltamente ci perseguita, non saranno scontenti di noi, e ci benediranno. I figliuoli altrui sieno fortunati, i nostri sien buoni. Se la fortuna si fará men rea, e mi concederá di rigustare le dolcezze della pace domestica, oh di quante cose io ti parlerò, e tu e i figli mi parlerete nelle ore soavi della sera, nel santuario della famiglia! Forse allora rileggeremo i Tre giorni in cappella e l’Ergastolo di Santo Stefano che ora ti mando; ed allora ti dirò con quanta fatica, con quanti timori, fra quanti strazi io scrissi. Per ora leggi, e credi che l’anima mia e con te, e co’ nostri figlioli.

1

La causa dell’unitá italiana, trattata per otto mesi innanzi la corte criminale di Napoli, non potrá essere dimenticata da chi scrive la storia de’ nostri tempi: e forse un giorno si saprá che vollero, che fecero, e che patirono alcuni uomini napoletani, e per quali vere ragioni e con quali arti furono condannati. Io non ho altro intendimento che di narrare semplicissimamente quello che sentii, che feci e che dissi con Filippo Agresti e Salvatore Faucitano, durante i tre giorni che stemmo condannati a morte in cappella.

La pubblica discussione di questa causa cominciò il 1° giugno 1850, e continuò per sei mesi, nel qual tempo fu da tutti osservato i giudici tacer sempre, il presidente stolto e furioso sragionar sempre: il procurator generale parlar rado, con poche formole e pochissime idee: i denunziatori e testimoni esser uomini pagati, perduti, scelleratissimi, noti per ogni piú brutta infamia: gli accusati serbar grave contegno e parlare non timidamente. Il procurator generale, che nell’accusa scritta aveva richiesto a morte tutti i quarantadue accusati, il 7 dicembre nelle sue orali conclusioni si contentò di richieder morte [p. 229 modifica] solamente per sei, cioè per Nicola Nisco, Felice Barilla, Filippo Agresti, Luigi Settembrini, Michele Pironti, Salvatore Faucitano; e per gli altri gravi pene di ferri; 30 anni per Carlo Poerio, Francesco Catalano, Cesare Braico. Dopo la requisitoria dei procurator generale, noi richiesti a morte fummo separati dagli altri e piú ristretti: il Nisco, perché ammalato, ed il Barilla, perché prete, stettero nell’ospedale di San Francesco: noi quattro, che eravam nella Vicaria, fummo tratti dalla carcere dei nobili, e passammo in quella del popolo, in luogo detto il Provvisorio, dove sono molte stanze segrete: e fummo allogati in due stanze dette lo Sperone e Marco Perrone, dataci la facoltá di passeggiare in uno stretto corridoio, e bere un poco d’aria da un’alta finestra che è in fondo di esso. Ci fu conceduto di aver con noi, per farci qualche servigio, quel caro giovane di Vincenzo Esposito, sartore, e fra i quarantadue richiesto anch’egli a 19 anni di ferri. Io non descriverò la crudele agonia di due mesi che sofferimmo in quel luogo, le intere notti vegliate meditando e scrivendo le nostre difese, l’alterna vicenda di speranze e di timori che ci venivano date: le parole dei giudici a noi riferite dagli avvocati, le promesse che si farebbe giustizia, le voci diverse: perché la decisione fece tutto vano.

Finalmente il venerdí 31 gennaio 1851, tre ore dopo il mezzodi, i giudici si chiusero nella camera del consiglio per decidere, e noi discesi nel carcere fummo ristretti piú che nei giorni precedenti. Desinammo tranquillamente secondo il solito; e poiché fu venuta la sera, tutti e quattro prendemmo a ragionare. «Faranno giustizia?» «E lo speri?» «Io non credo che saranno tutti malvagi, e qualcuno di essi penserá all’avvenire». «Costoro hanno un’altra logica». «Ricordiamo che questa causa si è fatta per esempio pubblico, e che il governo ha necessitá di condanne per giustificare le sue azioni». «Ebbene, io sono disposto a tutto». «Nessuno di noi smentirá se stesso». «A noi condanna, ad essi infamia». «Io dico che da questa decisione dipende la libertá o la servitú del nostro paese: se avranno il coraggio di essere giusti, il governo non [p. 230 modifica] fará piú cause, e dovrá cessare questa furia d’imprigionamenti e di processi». «Il governo conosce i suoi, e li ha scelti, costoro si brigan poco di patria, di libertá, di servitú, vogliono serbare la toga, e niente altro, son carnefici col soldo di cento otto ducati il mese». «Ma non tutti». «Tutti ribaldi, o vili; il magistrato è il primo puntello della libertá, perché la giustizia è la prima virtú degli stati: e questi sono primi strumenti della nostra servitú». «Ma tante promesse, tante assicurazioni, tante proteste!» «Arte di legisti». «Vedremo».

Mentre facevam questi discorsi udimmo su la volta della prigione un rumor grave come di seggioloni rimossi, e di un calpestio di piú persone. «Son dessi, dicemmo, ci stanno sul capo, e giudicano di noi. O se alcuno dicesse loro che noi siam qui». La camera dei consiglio sta propriamente su la stanza dove noi eravamo.

Dopo alquanto tempo io prendendo una seggiola me la trovai rotta e disfatta tra le mani, e dissi sorridendo: «Brutto augurio questo per me». Filippo ricordò che c’eran brutti augúri per tutti, perché la sera precedente s’era rovesciato sul tavolino un candeliere d’olio. «L’ho rovesciato io, disse Faucitano, e male per me solo». E Filippo ridendo: «Non dubitate, c’impicheranno tutti». Ed io: «Oh, non s’è trovato ancora il campo per seminarvi quel canape che dovrá stringerci la gola». «Ma che uomo sei tu?» mi disse Michele. «Ora parli di cattivi augúri come una femminetta, ora sfidi la morte, e scherzi. Non sai che ora qui sopra si può formare il laccio per noi?» «Bah! non sanno farlo: l’avrebbon fatto prima: se lo fanno ora, si spezzerá nelle loro mani». «E se ci manderanno in galera?» «Il saggio sta bene in ogni luogo». «Ma neppure adesso vuoi finirla? Via parliamo d’altro». Io aveva il maggior gusto del mondo a contraddire il caro Michele, e con istrane parole e con qualche stravaganzella fargli venire un po’ di stizza. Attaccavamo certi moccoli lunghi lunghi, nei quali talvolta c’era da imparare: egli strillava, io ridevo, poi ridevamo ambedue. Uomo carissimo, di bello ingegno, di molte e varie cognizioni, di cuore ottimo, [p. 231 modifica] di costumi candidi, di fede rara nell’amicizia. Io non seguitai secondo il solito, perché pensai che questo diletto amico ignorava un’altra sua sventura, la morte d’un suo fratello sostegno e speranza della famiglia. Andammo a letto, e dormimmo placidamente.

2

La mattina del 1° febbraio ci levammo per tempo. Rompeva l’alba, ed io fattomi alla finestra del corridoio vidi nella strada un gendarme che rivolto ad un finestrone che mi stava sul capo, dimandò: «A che stanno?» ed udii una voce che rispose: «C’è tempo ancora». Allora io pensai, e dissi tra me: «Giacché c’è tempo, usiamone bene: forse non potrò piú rivedere mia moglie; le scriverò l’ultima lettera». E scrissi la seguente lettera, e la diedi a Vincenzo affinché in ogni caso l’avesse fatta pervenire a mia moglie.


1° febbraio 1851, ore 8 del mattino.

Io voglio, o diletta e sventurata compagna della vita mia, io voglio scriverti in questo momento che i giudici stanno da sedici ore decidendo della mia sorte.

Se io sarò dannato a morte non potrò piú rivederti, né rivedere le viscere mie, i carissimi miei figliuoli. Ora che sono serenamente disposto a tutto, ora posso un poco intrattenermi con te. O mia Gigia, io sono sereno, preparato a tutto, e, quello che piú fa maraviglia a me stesso, mi sento la forza di dominare questo cuore ardente che di tanto in tanto vorrebbe scoppiarmi nel petto. O guai a me se questo cuore mi vincesse. Se io sarò dannato a morte, io posso prometterti sul nostro amore e sull’amore de’ nostri figliuoli, che il tuo Luigi non ismentirá se stesso; morirò con la certezza che il mio sangue sará fruttuoso di bene al mio paese, morirò col sereno coraggio de’ martiri, morirò, e le ultime mie parole saranno. alla mia patria, alla mia Gigia, al mio Raffaele, [p. 232 modifica] alla mia Giulia. A te ed ai carissimi figliuoli non sará vergogna che io sia morto suile forche: voi un giorno ne sarete onorati. Tu sarai striturata dal dolore, lo so: ma comanda al tuo cuore, o mia Gigia, e serba la vita per i cari figli nostri, ai quali dirai, che l’anima mia sará sempre con voi tutti e tre, che io vi vedo, che io vi sento, che io seguito ad amarvi come vi amava e come vi amo in questa ora terribile. Io lascio ai miei figliuoli l’esempio della mia vita ed un nome che ho cercato sempre di serbare immacolato ed onorato. Dirai ad essi che ricordino quelle parole che io dissi dallo sgabello nel giorno della mia difesa. Dirai ad essi che io benedicendoli e baciandoli mille volte, lascio ad essi tre precetti; riconoscere ad adorare Iddio: amare il lavoro; amare sopra ogni cosa la patria. Mia Gigia adorata, eran queste le gioie che io ti prometteva nei primi giorni dei nostro amore, quando ambedue giovanetti, tu a quindici anni con invidiata bellezza e con rara innocenza, ed io a vent’anni pieno il cuore di affetti, e di speranze, e con la mente avida di bellezza, di cui vedeva in te un esempio celeste, quando ambedue ci promettevamo una vita di amore, quando il mondo ci pareva cosí bello e sorridente, quando disprezzavamo il bisogno, quando la vita nostra era il nostro amore? E che abbiamo fatto noi per meritare tanti dolori, e tanto presto? Ma ogni lamento sarebbe ora una bestemmia contro Dio, perché ci condurrebbe a negare la virtú, per la quale io muoio. Ah Gigia, la scienza non è che dolore, la virtú vera non produce che amarezze. Ma pur son belli questi dolori e queste amarezze. I miei nemici non sentono la bellezza e la dignitá di questi dolori. Essi nello stato mio tremerebbero: io sono tranquillo perché credo in Dio e nella virtú. Io non tremo: deve tremare chi mi condanna, perché offende Dio.

Ma sarò io dannato a morte? Io mi aspetto sempre il peggio dagli uomini. So che il governo vuole un esempio, che il mio nome è il mio delitto, che chi ora sta decidendo della mia sorte ondeggia tra mille pensieri e tra mille paure: so che io sono disposto a tutto. Sarò sepolto in una galera, con un [p. 233 modifica] supplizio peggiore e piú crudele della morte? Mia Gigia, io sarò sempre io. Iddio mi vede nell’anima, e sa che io non per forza mia, ma per forza che mi viene da lui, sono tranquillo. Vedi io ti scrivo senza lagrime, con la mano ferma e corrente, con la mente serena, il cuore non mi batte. Mio Dio, ti ringrazio di quello che operi in me: anche in questi momenti io ti sento, ti riconosco, ti adoro, e ti ringrazio. Mio Dio, consola la sconsolatissima moglie mia, e dálle forza a sopportar questo dolore: mio Dio, proteggi i miei figliuoli, sospingili tu verso il bene, tirali a te, essi non hanno padre, son figli tuoi: preservali dai vizi: essi non hanno alcun soccorso dagli uomini; io li raccomando a te, io prego per loro. Io ti raccomando, o mio Dio, questa patria, dá senno a quelli che la reggono, fa che il mio sangue plachi tutte le ire e gli odii di parte, che sia l’ultimo sangue che sia sparso su questa terra desolata.

Mia Gigia, io non posso piú proseguire perché temo che il cuore non mi vinca: io non so se potro piú rivederti.

Addio, o cara, o diletta, o adorata compagna delle mie sventure e della mia vita. Io non trovo piú parole per consolarti, la mano comincia a tremarmi. Abbiti un bacio, simile al primo bacio che ti diedi. Danne uno per me al mio Raffaello, uno alla mia Giulia, benedicili per me: ogni giorno, ogni sera che li benedirai, dirai loro che li benedico anche io. Addio.

Tuo marito: Luigi Settembrini.


Intanto domandammo ai custodi se ci era permesso di rivedere le nostre famiglie un’altra volta sola: ci risposero, che non era permesso, ma che alcuni nostri parenti erano andati dal commessario per questo. Indi a poco si riapre la porta, ed ecco mio figlio Raffaele, che mi abbraccia e dice: «Sono stato io dal procurator generale, e gli ho chiesto di vedere mio padre, ed egli lo ha permesso». Entra mia moglie con la mia Giulietta, i miei fratelli, la moglie di Filippo, la moglie [p. 234 modifica] ed un figliuolo di Salvatore Faucitano, ed un ispettore che ci dice: «Il permesso è per un quarto d’ora». Povere donne! con quante amorose parole ci confortarono ad aver coraggio, esse che ne avevano piú bisogno di noi. Passò molto presto il quarto d’ora, diedi io stesso la lettera a mia moglie, le dissi alcuna mia volontá, abbracciai e benedissi i miei figliuoli. Il custode maggiore avvicinandosi a Filippo gli disse: «State allegri: io ho buone nuove: riuscirá bene per tutti». Questo dabbene uomo, a nome Francesco Buonabitacolo, onesto, povero, pietoso, è peccato che faccia il custode, ed è fortuna che i prigionieri siano affidati a lui. Egli, e l’ispettore di polizia don Giulio Verduzio, uomo egregio ed amabile, ci fecero molti di quei favori che in altri tempi era follia sperare, o se n’aveva qualcuno con molto oro. Il governo non li ha perseguitati, perché non li ha conosciuti. Poiché i nostri furono partiti mi parve di avermi levato un gran peso di dosso, e ci ponemmo a passeggiare nel corridoio, ed aspettare. Era un’ora dopo il mezzodí, io mi feci alla finestra, ed ecco nella strada mio fratello Giuseppe, che mestamente con segni mi fa capire essersi pubblicata la decisione, dannati a morte tre, fra’ quali uno co’ baffi; e poi pronunziò la parola «Caserta», e partí. Compresi che mi aveva indicato Filippo Agresti: ma gli altri due? Vincenzo corre da Filippo, che si stava preparando la mensa, e gli disse esser tre i condannati a morte. E Filippo rispose freddamente continuando i suoi apparecchi: «Fra questi sono io, è bene che mangi prima». Non aveva finite queste parole, non ancora aveva gustato un cucchiaio di brodo, che un custode ci dice d’uscire per ascoltar la sentenza. «Ma dove? su la Corte? dobbiamo mutar panni?» «No, qui fuori, nell’estracarcere». Uscimmo dunque nell’estracarcere, dove tra otto custodi che ci guardavano, rimanemmo in piedi un’ora, tra le angosce piú crudeli. Tre dovevamo morire: ma chi tra noi? E perché questo ritardo, questa sevizia di tenerci tanto tempo incerti? Sospettammo si attendesse Nicola Nisco, o Felice Barilla da San Francesco. Ognuno temeva per sè, temeva pei compagni. Filippo mi si accostò, e [p. 235 modifica] pianamente mi disse: «Se io moro, scrivi». Io m’intesi straziar l’anima e non risposi; Michele, che udí le parole, sospirò dolorosamente. Dimandavamo ai custodi chi erano i condannati a morte, ed essi si stringevano nelle spalle, e non rispondevano: ci facevamo allo sportellino della porta ed alla finestra per leggere in volto alle persone alcuna cosa, ma tutti ci guardavano un poco, e subito volgevano gli occhi. I gendarmi stavano schierati nel cortile; molti sbirri armati stavano fuori la porta dei carcere. Infine vedemmo discendere alcuni dei nostri giudici de’ quali tre, con F. Schenardi, spia reale e notissima, entrarono in una carrozza e partirono. Dopo di aver condannati tre uomini a morte, moltissimi ai ferri, sparsa la desolazione in molte famiglie, confermata la servitú della patria, e detto al governo: «Indicate e noi percuoteremo», andarono a godere nelle loro case i piaceri della mensa e del riposo, le carezze delle mogli e de’ figliuoli, e la speranza di onori e di maggiori soldi.

Dopo una lunga ora di strazi ci fecero entrare nella stanza di udienza, e ci chiusero fra i due cancelli di ferro che ivi sono; fatti venire per udire la decisione ancora Giuseppe Caprio ed Emilio Mazza che stavano nella carcere comune del popolo. Dopo alquanti minuti entra un vecchio usciere seguito da vari ispettori, da custodi, da sbirri, e con le lagrime agli occhi e con voce tremante legge: «La Gran Corte condanna alla pena di morte Salvatore Faucitano, Luigi Settembrini, e Filippo Agresti», e si fermò. «Proseguite,» gli diss’io, «vogliamo sentir tutto». Ed egli proseguí:

«La Gran Corte speciale di Napoli, a voti uniformi,

Ha condannato e condanna:

Salvatore Faucitano alla pena di morte, col secondo grado di pubblico esempio, da espiarlo in luogo pubblico, ed alla multa di ducati cinquecento;

Filippo Agresti alla pena di morte col laccio sulle forche, e col terzo grado di pubblico esempio, da espiarla in un pubblico luogo di questa capitale, non che alla multa di ducati mille; [p. 236 modifica]

Luigi Settembrini alla pena di morte col terzo grado di pubblico esempio, da espiarla in pubblico luogo di questa capitale, ed alla multa di ducati seicento;

Felice Barilla alla pena dell’ergastolo, ed alla multa di ducati mille;

Emilio Mazza alla pena dell’ergastolo;

Niccola Nisco alla pena di anni trenta di ferri, ed alla multa di ducati mille;

Luciano Margherita alla pena di anni trenta di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Francesco Catalano alla pena di anni venticinque di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Lorenzo Vellucci alla pena di anni venticinque di ferri, ed alla multa di ducati seicento;

Cesare Braico alla pena di anni venticinque di ferri, ed alla multa di ducati seicento;

Carlo Poerio alla pena di anni ventiquattro di ferri, ed alla multa di ducati seicento;

Michele Pironti alla pena di anni ventiquattro di ferri, ed alla multa di ducati seicento;

Gaetano Romeo alla pena di anni ventiquattro di ferri, ed alla multa di ducati seicento;

Achille Vallo alla pena di anni venti di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Francesco Nardi alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Francesco Cocozza alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Giuseppe Caprio alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Vincenzo Dono alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Salvatore Colombo alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Gaetano Errichiello alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento; [p. 237 modifica]

Francesco Cavaliere alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Giovanni de Simone alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Francesco Antonetti alla pena di anni diciannove di ferri, ed alla multa di ducati cinquecento;

Antonio Miele alla pena di anni sei di relegazione;

Raffaele Crispino alla pena di anni sei di relegazione;

Ferdinando Carafa alla pena di un anno di prigionia;

Ludovico Pacifico alla pena di un anno di prigionia;

Giuseppe Tedesco alla pena di un anno di prigionia;

Enrico Piterá alla pena di un anno di prigionia;

Giambattista Torassa alla pena di un anno di prigionia;

Pasquale Montella alla pena di giorni quindici di detenzione;

Nicola Molinaro alla multa di ducati cinquanta;

Condanna gl’individui di sopra mentovati, contro dei quali si è pronunziata la pena de’ ferri, la relegazione e la prigionia, a dar malleveria di loro buona condotta in ducati cento per ciascuno, e per la durata di anni tre.

Condanna tutti solidamente alle spese dei giudizio.

Veduto poi l’art. 280 legge di procedura penale concepito nei seguenti termini:

‘Art. 280. Se la Gran Corte adotti la seconda risposta: non consta ecc., è nelle sue facoltà di disporre o che l’accusato sia messo in istato di libertá provvisoria, o pure che si prenda una istruzione piú ampia, ritenendo intanto l’accusato medesimo nello stato di arresto, o mettendolo in istato di libertá provvisoria con quel mandato o con quella cauzione che si creda conveniente;’

A voti uniformi;

Ordina che Michele Persico, Francesco Gualtieri, Giovanni di Giovanni, Onofrio Pallotta, Giambattista Sersale, Giovanni Miraglia, Vincenzo Esposito, e Niccola Muro siano messi in liberta provvisoria.

La presente decisione sará ristampata per estratto.

La esecuzione è affidata al pubblico ministero. [p. 238 modifica] Fatto, e deciso nella camera di consiglio, a porte chiuse, in continuazione dell’ultimo atto della pubblica discussione del dí 31 gennaio, e pubblicato all’udienza pubblica a norma della legge nel successivo mattino del primo febbraio mille ottocento cinquantuno in Napoli.

Firmati
Navarra Consigliere presidente
Del Vecchio Vice presidente
Lastaria Giudici
Canofari
Amato
Radice
Vitale
Mandarini
Ascione Vice cancelliere».


Dopo la lettura io dissi: «Ringraziate la corte in nome di Luigi Settembrini». «Ringraziatela anche a nome di Agresti», rispose Filippo: e cosí dissero ancora il Faucitano, il Pironti, e gli altri. L’usciere andò via. Allora Filippo si tolse l’orologio e i denari che aveva in tasca, un anello che aveva al dito, diedelo a Michele e disse: «Darai questa alla mia povera Alina». Io gli diedi anche il mio orologio ed alcune monete, e lo pregai di darlo a mia moglie. O che momento fu quello! Pironti piangendo a singhiozzi ci abbracciava, ci stringeva, diceva: «Luigi mio, Filippo mio, mio Salvatore, io voglio venire con voi, voglio morire con voi! perché mi hanno separato da voi? Ah, io non potrò rimanere senza di voi!» E quando lasciava uno per abbracciar l’altro, ci sentivamo stretti ed inondati di lagrime or da Vincenzo Esposito, or da Giuseppe Caprio, or da Emilio Mazza, che dicevano: «Perché soli tre a morte, e non tutti?» Io non so se i custodi o altra gente ci guardavano, e che sentivano: nessuno ci diceva alcuna cosa. Filippo disse a Michele: «Ricordati di te stesso, questo pianto sconviene». Io confortava il povero [p. 239 modifica] amico, confortava gli altri; ma poiché vidi che il dolore e le lagrime crescevano e che qualcuno avrebbe potuto goderne, dissi al custode: «Apri. Addio Michele, addio tutti». E seguito dagli altri due entrai nell’estra-cappella. Erano due ore e mezzo dopo il mezzodí.

3

L’estra-cappella è una stanza oscura, che a destra ha la cappella chiusa da una porta, ed a sinistra prende lume da una stanzetta piú alta, che ha una finestra sporgente nel cortile. Alle pareti di questa stanzetta stanno appiccate con midolla di pane varie figure della vergine e dei santi, innanzi alle quali arde una lucerna posta su di un pezzo di legno conficcato nel muro. Qui stanno i condannati a morte. Entrati in questa stanzetta con quattro custodi, ed alcuni prigionieri serventi detti chiamatori, io dissi ad un custode: «Se devi ricercarmi le vesti, fa pure». Egli si confondeva, non sapeva che fare, non voleva pariare. Poco dopo entra don Ciccio, il custode maggiore, e con le lagrime agli occhi ci dice: «Dovete spogliarvi e rivestirvi dei panni del fisco. Non vi turbate, perché è una formalitá. O Dio, che debbo io fare ed a chi». Ci spogliarono di tutti i panni, e lasciateci solo le calzette e le scarpe, ci vestirono di una camicia, di un paio di calzoni e di una giubba di tela bionda, aspra di stecchi, e puzzolente di canape. Io per caso mi trovai in una tasca una letterina scrittami dalla mia Giulietta, la mostrai al custode maggiore, e risoluto gli dissi: «È una lettera di mia figlia, voglio ritenerla, Morirò con essa in mano.» Ei rivolse la faccia e mi disse: «Ritenetela». Io me la riposi sul cuore. Ci fecero sedere a terra, ci posero le pastoie delle traverse, e le ribadirono con aspri colpi di martello; pesavano piú di dodici rotoli, non ci facevano muovere un passo senza essere sostenuti, e con un fazzoletto tenevamo sospesi i grossi perni che dolorosamente pesavano su i talloni. Dimandammo i nostri mantelli per difenderci dal freddo: ci portarono mantelli di [p. 240 modifica] altri prigionieri, che noi non potevamo ritenere alcun abito nostro. Ci portarono e distesero a terra quei duri materassi di capecchio che dicono farti e n’avemmo due per ciascuno. Ci gettammo sopra questi farti Filippo ed io d’appresso, Salvatore di fronte a noi. Quelle pastoie pesavano assai, e ci raffreddavano i piedi. Poichè fummo distesi su quei strapuntini a terra, Salvatore disse: «Ci hanno vestiti da pazzi». «No», risposi io, «da condannati a morte». E Filippo: «È bene che questa noia durerá poco: se dimani non fosse domenica saremmo sbrigati tra ventiquattr’ore». Ed io: «Aspetteremo fino a lunedí mattina». Don Ciccio rispose: «Non dite questo, io spero che il Signore Iddio vi faccia la grazia. Oh, chi poteva credere questo di voi!» E pianse: i custodi e i chiamatori anche piangevano; noi dovemmo confortarli, ma alle nostre parole piú si addoloravano e si meravigliavano. Don Ciccio dimandò se volevamo alcun cibo o ristoro: noi lo ringraziammo: ma poiché seppe che Filippo era digiuno, disse: «Vi farò io una tazza di brodo: non dubitate di nulla: state in mano mia: la farò fare a mia moglie, e ve la porterò io». Andò via, e noi restammo guardati a vista da due custodi e da due chiamatori: perché il condannato a morte non può muoversi, non può toccar nulla, tutto gli dev’essere porto dai custodi, i quali hanno stretto obbligo di guardarlo sempre fiso, di notare e riferire ogni movimento che faccia, ogni parola che dica. Filippo ed io talvolta parlavamo francese per non farci intendere.

Io mi volsi ad un custode, e dissi: «Quando verranno i Bianchi?» Ed egli: «Non so; ma non pensate a questo, o signore». «Debbo pensarci», risposi io; e voltomi a Filippo gli dimandai come li riceverebbe. Ei mi rispose: «Come gentiluomo e come cristiano. Dei miei falli chiedo e chiederò sempre perdono a Dio: a loro dirò poco, perché non ho delitti e so quello che mi vorrebbero dire». «Bene», diss’io, «con questa serenitá vedremo i Bianchi, li ascolteremo, saliremo il patibolo». «Noi siamo cristiani, rispose Salvatore, e moriremo da cristiani». «Dunque», diss’io, «ci vogliono far [p. 241 modifica] morire? ma che intendono di fare? che sono tre capi? faranno morire l’idea? l’idea non muore mai, anzi ha vita e forza dalle persecuzioni. Miserabili! mi fanno pietá anche ora che ho i ferri ai piedi!» Filippo e Salvatore chiesero di fumare, ed avute ed accese le pipe seguitammo i nostri ragionamenti: i custodi ci chiesero permesso di fumare anch’essi ed ascoltavano. Filippo mi disse: «A me non fa paura la morte, perché l’ho veduta e sfidata molte volte nelle battaglie, non l’ho temuta quando assisteva i colerici in Marsiglia; e poi ho cinquantaquattr’anni: ma mi duole di te che se’ giovane». «O mio Filippo», risposi, «degl’infelici miei studi io non ho cavato altro frutto che conoscere le miserie della vita, e non temere altro che l’infamia. Io morirei contento se sapessi che il nostro sangue giovasse al nostro paese, fosse l’ultimo che qui si sparge; se nessun altro patisse, nessun altro piangesse; se tornasse la pace alla nostra patria sventurata». «Oh sí», disse Filippo, «sí», disse Salvatore, «purché giovasse alla nostra patria mille volte morire.» E poi tutti dicemmo: «Gioverá senza dubbio». «Io», soggiunse Filippo, «non ho altro dolore che per mia moglie, che, essendo francese, qui non ha, cioè non aveva altro sostegno che me: e per mio fratello che è vecchio e mi ama assai: ma tu sei padre di due bambini, Salvatore ne ha sette...» Salvatore sospirò; io risposi: «Iddio non abbandonerá i nostri figliuoli». Qui tacemmo alquanto.

Io ringrazierò sempre Iddio che in quei terribili momenti mi diede una serenitá grande ed una forza di volontá da scacciarmi dalla mente l’immagine di mia moglie e de’ miei figliuoli. Non so se questa sia debolezza; ma confesso ingenuamente che l’amore della famiglia mi avrebbe vinto, senza un nuovo coraggio che mi venne da Lui. Sentivo in me come due anime contrastanti. L’una affettuosamente crudele mi presentava le piú belle e liete ricordanze della mia vita, quando io amava ed era riamato, quando ottenni la diletta donna mia, quando mi nacquero i miei figliuoli, quando mi scherzavan su le ginocchia; mi rammentava l’angelico sorriso di quei pargoletti, le loro parole tanto care ai padri, e le mie [p. 242 modifica] speranze che crescevano con essi, e quando la madre ed io li menavamo a passeggiare, e quando la sera io li baciava e benediceva prima che andassero a letto. Ed ora chi li benedirá? Chi avra curá di loro? L’altra poi si faceva incontro a questa, e la combatteva: subito che nasceva un pensiero, lo vinceva; e mi faceva portar la mano alla fronte quasi per iscacciarlo. Io non so per qual legge della nostra mente quando abbiamo un dolore forte, deve sorgere in noi potentissima e vivissima la memoria dei passati piaceri, per darci maggior tormento col confronto, e lacerarci ogni fibrilla del cuore. Io volli vincere me stesso, e mi vinsi: nessuno seppe o sospettò la guerra che io sentii dentro, e che anche ora a ricordarla mi spaventa.

Dopo due ore tornò don Ciccio portando il brodo, e Filippo ne bevve solo due cucchiai. Io tornai a dimandare dei Bianchi, e don Ciccio rispose, che non v’era alcuna disposizione, e non sarebber venuti la sera. «E voi sempre co’ Bianchi? io vi dico non temete». «Temere?» risposi; «temano i malvagi, non noi: deve temere chi ci ha condannati: noi siamo traquilli perché crediamo in Dio, ed operammo la virtú». «Oh certo», disse Filippo, «io non cambierei questi panni con la toga del presidente Navarra, che è tinta di sangue e d’infamie». E quel dabben uomo: «Dio deve fare a me questa grazia, perché questo che hanno fatto a voi è stato...» «Dite», replicai, «un assassinio. Eppure non ci duole di noi, che siamo disposti a tutto e perdoniamo chi ci odia, ma ci duole che dopo di noi si fará lo stesso agli altri». E Salvatore disse: «Non dubitate, questo è uno scherzo che vogliono far con noi, per vedere se abbiamo coraggio: io vi dico che riuscirá a nulla». Filippo disse: «Bien ou mal c’est égal: io credo il contrario». Vennero altri due custodi per dar lo scambio ai primi, che andarono via col custode maggiore, il quale andava ripetendo: «Che mi tocca di fare, che mi tocca di fare!».

Cominciammo poi a discorrere dei nostri amici, ci rallegrammo che Michele non era con noi, e dicemmo che essi [p. 243 modifica] dovevano sofferire piú di noi. «Oh» disse un custode, «questo è vero. Don Michele vi chiama sempre a nome, e pare un forsennato: il barone Poerio è afflittissimo, don Vincenzo Dono, don Cesare Braico, tutti ci domandano di voi, come state, che dite, che fate». «Dite loro che noi stiamo tranquilli». I custodi ed i chiamatori intendevano di confortarci narrandoci come essi avevano guardati altri condannati a morte per delitti comuni, dicendoci che il tale stava dove stavamo noi, e mentre mangiava gli fu partecipata la grazia; e che lí, in altro angolo della stanza, stava colui che uccise un ispettore di polizia, ed andò a morte. E cosí udendo i loro discorsi, e le consolazioni che credevano di darci, passò buona parte della notte. Infine stanchi ed addolorati dalle pastoie, che non ci lasciavano serbare altra posizione che la supina, cercammo d’addormentarci. Filippo e Salvatore dormirono profondamente: io stetti alcun’ora in uno stordimento doloroso.

4

La mattina della domenica 2 febbraio don Ciccio ci portò il caffé, e ci disse: «Ve lo manda don Michele, che vi saluta e vi dice di stare di buon animo. Egli è passato nella carcere comune de’ nobili. Tutti gli altri vi salutano caramente». Questi saluti ci furono carissimi, e ci sorprese come si portava il caffé a condannati a morte. Ci disponemmo ad aspettare i Bianchi, e credevamo che entrassero ogni volta che s’apriva la porta. Poco di poi ritornò don Ciccio, mi diede una lettera, e mi disse: «Vostro fratello, che vi manda questa, vi fa sapere che vostra moglie co’ figliuoli, con la moglie del signor Agresti, con quella dei signor Faucitano, e con un vostro fratello prete, sono partiti al momento per Caserta». «O dabbene uomo, Iddio possa benedire te, i tuoi figliuoli, e tutta la tua famiglia, dacché non temesti di essere uomo, e desti una consolazione grande a tre condannati a morte». Lo ringraziai, e lessi questa lettera:

«Carissimo Luigi mio, mio sventurato Luigi, Come stai? [p. 244 modifica] Io sto bene e tranquilla, perché sicura che il re fará esso giustizia alla vostra innocenza. Addio, spero di rivederti subito. Non posso dilungarmi, perché qui in mia casa vi sono molte signore. Addio, mio buono, mio caro, mio sventurato Luigi. Tua moglie Gigia».

«Mio caro padre, io vi bacio la mano e beneditemi. Giulietta».

«Sventuratissimo padre mio, io vi abbraccio, state di buon animo e fidate in Dio, che voi uscirete. Coraggio e costanza, perché non avete fatto nulla. Addio, amatissimo padre, beneditemi voi. Raffaele».

«Caro Filippo, io sto bene, spero che tu stai egualmente bene per quanto si può, ti prego stare di buon animo, giacché le notizie sono buone per tutti e tre. Io sto a casa della signora Settembrini: se mi puoi scrivere, mi faresti grandissimo piacere. In casa tua tutti stanno bene fino a ieri sera, oggi anderò un momento io stessa per vederli. Alina Perret».

A stenti frenammo le lagrime e stemmo lungamente muti. Dipoi ci venne un custode gran parlatore, e a noi ben conosciuto, il quale dolendosi a suo modo, con parole, con gridi, con gesti, con dimenamenti di capo cercava di confortarci e diceva: «State di buon animo, la cosa riuscirá a nulla. Io son vecchio custode e conosco queste cose, come voi sapete leggere e scrivere. Voi avete avuto il caffé, avete avuto la lettera, non ci sono disposizioni pe’ Bianchi: eh, sentite la voce de’ chiamatori, giá è aperta l’udienza per gli altri detenuti. Dunque per ora non c’è niente, né ci sará niente. Lo vedrete: il re vi fará la grazia». «Cioè impedirá che si commetta un’ingiustizia». E qui incominciammo a ragionare su la cagione della nostra condanna; ed io dissi: «Dimmi, ché tu lo sai qual è stata la nostra condotta in carcere: a chi abbiamo fatto male? o piuttosto a chi non abbiamo fatto bene? Abbiamo pregato per gl’infelici, non mai per noi: ed anche gl’impiegati di polizia hanno dovuto lodarci e rispettarci». «Voi avete fatto bene non solo ai carcerati ma anche ai carcerieri: ed io sarò sempre obbligato al signor capitano Agresti [p. 245 modifica] che parlò per me all’ispettore, e non mi fece pagar quella multa». «Ebbene, quando non eravamo in carcere facevamo lo stesso. Non abbiam fatto male a nessuno, non odiamo nessuno; eppure ci hanno dipinti come scellerati, ci vogliono dividere dagli uomini come malefici, ci hanno condannati a morte. Ti pare che siamo scellerati?» «Gesú e Maria! che dite? voi?» «E sai perché ci chiamano tali? Sai chi ci ha ridotti a questo? Perché noi volevamo quella costituzione che fu giurata da tutti, quella costituzione che non è stata ancora abolita con un decreto, che c’è, e ci sará, ed un giorno sará rimessa: e guai a chi l’ha spergiurata e conculcata. Sai tu che cosa è la costituzione? Il popolo non ebbe tempo di capire il bene che essa produce, perché i nemici dei popolo la fecero durar poco. Costituzione non significa togliere il re, come vi hanno fatto credere, ma onorarlo, rispettarlo, e farlo amare da tutti piú di prima, significa che il re conosca la veritá, i bisogni dei popolo, e i desidèri della nazione non da quei grossi birboni che tiene attorno, e che lo ingannano; ma dalla voce dei deputati i quali insieme con lui fanno le leggi: significa che i ministri ed i grandi debbono dar conto delle loro azioni, e se fanno un’ingiustizia la debbono pagare: significa che ci debbono esser leggi, e non favori, non protezioni, non furti: significa che le rendite dello stato non si debbono spendere a capriccio, non debbono essere mangiate da pochi; perchè queste rendite sono il sangue della nazione, son tutti i dazi che la nazione paga, e chiunque ha una casa, un palmo di terra, chiunque mangia, chiunque vive, tutti pagano. E che? tu dài roba tua, o roba rubata quando dài la roba dello stato, la roba di tutti? Se è roba di tutti, dunque tutti dobbiamo sapere come si spende e perché. E facendosi buone leggi tutti i figliuoli del popolo dovrebbero avere un’educazione, tutti dovrebbero imparare un’arte, tutti dovrebbero imparare gratuitamente a leggere e scrivere nelle scuole della sera o della domenica, si dovrebbe abolire la lotteria, e stabilire una cassa di risparmi: si dovrebbe provvedere che tutti lavorassero; che chi lavora meglio avesse un premio; che chi [p. 246 modifica] è vecchio ed ammalato e non può lavorare non morisse di fame su le strade, ma avesse un ricovero, fosse nutrito, ed i figliuoli fossero educati. Tutte queste cose ed altre ancora si sarebbero fatte a poco a poco, se ci fosse stato tempo e buona fede. Sul principio ci fu un po’ di disordine: sia pure. Se un uomo stato molti anni in criminale esce a camminare all’aria aperta, necessariamente deve cadere in deliquio: or non sarebbe pazzo e scellerato chi dicesse che quest’uomo non può piú camminare, e lo tornasse a chiudere nel criminale coi ferri ai piedi? Cosí hanno fatto a noi, che dopo ventotto anni di brutta schiavitú nel risorgere a moderata libertá facemmo alcuna cosa smoderatamente sul principio. Ma poi quai disordini accaddero? a chi fu fatto male? a chi fu torto un capello? E ti pare giustizia, ti par ordine, ti par pace, tranquillitá questa che ora godiamo? Tanta gente in carcere, tant’altri fuggiti all’estero, tante famiglie che piangono, tanta miseria per tutto, tanti uomini uccisi, tante cittá rovinate. Dunque ci hai messo in un criminale piú oscuro, e fra tormenti piú crudeli di prima: e tu sei buon governo? sei governo paterno e giusto? E se noi ci lamentiamo, ci chiami ribelli, cospiratori, repubblicani, ci fai accusare e condannare?» Disse Filippo: «Questi sono i nostri principii: queste cose che ora diciamo qui a voi, le abbiam dette sempre a tutti, e le diremo sino alla forca: e per questi desiderii siamo giunti a questo». Ed il custode: «Oh se tutti sapessero queste belle cose, quante disgrazie non sarebbero avvenute!» Ed io: «Ma chi non vuole farle sapere? chi non vuole che il popolo s’istruisca? chi vuole opprimerlo e far tutto secondo suo capriccio? Aprite gli occhi, o miseri, ed almeno considerate perché moriamo, che volevamo, e che abbiamo fatto: almeno che il nostro sangue giovi al nostro paese. Povero paese! io non so dove sará condotto: e se fortuna per poco volgerá la ruota, quante vendette, quant’ira, quanto sangue, quanta desolazione! E perché? e per chi? Oh povero paese nostro!» Di queste cose parlammo assai: i custodi ed i chiamatori ci ascoltavano con attenta maraviglia, sospiravano e dicevano: «Avete ragione». [p. 247 modifica]

Dopo questa lezione di politica ne facemmo un’altra di morale. Venne un altro custode, giovane imberbe, che non aveva piú di venti anni. Gli dimandammo da quanto tempo era custode. «Da quattro mesi». «Hai soldo?» «Niente». «E come vivi?» «Con quello che mi regalano». «Cioè con quello che ti fai regalare, strappi dagl’infelici. E prima che arte facevi?» «Ero salassatore, aveva bottega, viveva: la gente veniva da me, perché mio padre era esattore de’ diritti di piazza: ma mio padre perdé l’uffizio, la gente m’abbandonò, io vendetti ogni cosa, e disperato mi posi a fare il carceriere». «Ma non potevi entrare come garzone di bottega, e lucrar piú che non lucri adesso? Hai lasciato un mestiere di sollevar gli uomini ed hai preso quello di tormentarli? Che vergogna per te che hai vent’anni fare il carceriere e per niente? E che farai a quaranta?» Disse che stava cercando un posto di salassatore in un ospedale, e promise di lasciar subito le chiavi.

Erano giá passati tre quarti della giornata, e non avendo veduto né i Bianchi né altra persona, stavamo tra dubbi e speranze. Io non potendo piú star disteso su i duri farti, volli levarmi un poco, e piano piano mi accostai alla finestra. Da lontano mi venne veduto Francesco Catalano che stava con la moglie presso una ferrata dell’udienza dei nobili: e cacciata la mano fuori, salutai. A questo saluto fu risposto con molto agitar di mani e di fazzoletti: chiamai Filippo e Salvatore che salutarono anch’essi. Riconoscemmo Michele Pironti, Carlo Poerio, Vincenzo Dono, Cesare Braico ed altri. «Allegramente», gridarono, «coraggio, e non dubitate». Noi rispondemmo di star bene e tranquilli. Quanto ci furon cari quei saluti e quelle parole! I soldati svizzeri si erano fermati nel cortile e guardavano la nostra finestra: sopravvenne altra gente pietosamente curiosa: onde noi per non essere di spettacolo ci riponemmo a giacere. Indi ad un poco udimmo entrar nel cortile una carrozza. Faucitano disse ad un chiamatore di guardare chi fosse: e quegli, poiché guardò alcun poco, disse che eran prigionieri venuti dalle provincie. Di poi sapemmo [p. 248 modifica] che in quella carrozza eran venuti da Santa Maria i carnefici perché il carnefice di Napoli era morto da qualche mese.

La sera vennero due giovani custodi puliti e rispettosi. Con costoro parlammo di varie cose. Salvatore, che è uomo piacevolissimo e facondo napolitano, pieno di motti, narrò molte sue avventure, e cantò ancora un canzoncino mezzo tedesco. Filippo parlò de’ suoi viaggi in Francia, in Inghilterra, in Ispagna, de’ vari usi e costumi di quei paesi. I due custodi non si persuadevano come stavamo cosí sereni.

Volemmo addormentarci. Io dopo una fiera lotta con i miei affetti e con le care memorie della mia famiglia, chiusi gli occhi; ma fui desto dolorosamente da un gran battere di ferri della finestra, fatto da un chiamatore da noi beneficato, il quale dacché eravaramo entrati in cappella, non so se per zelo o per crudeltá, batteva con piú forza. Filippo a un tratto si leva a sedere, e con una voce ed una stizza che mai la maggiore disse a quel tristo la piú grande villania del mondo: «Siamo ferrati, siamo guardati a vista, e tu batti cosí crudelmente? Se domani non mi taglieranno il capo, io ti romperò le braccia». Il chiamatore si nascose nella stanza oscura, i custodi rimasero balordi, e poi ci chiesero perdono per lui. Mi ricordai di Cesare tra i corsari. Non potetti piú gustare una stilla di sonno.

5

Ed ecco il giorno di lunedí 3 febbraio. Don Ciccio venne a portare il caffé, che fu differente da quello del giorno innanzi, e non fu permesso a Michele di mandarcelo. Dunque ci stringono: brutto segno. Stavamo attenti alle piccolissime cose. Dopo che si fu partito, sentimmo un odore di zucchero bruciato e d’incenso, ed un rumore di gente che va e viene. Dimandammo che cosa fosse, ed un custode rispose che si facevano i soliti suffumigi. Noi osservammo che i suffumigi non si fanno di lunedí, né di zucchero e d’incenso: onde capimmo che erano venuti i Bianchi. Mentre stavamo tra dubbi [p. 249 modifica] e dispettosi pensieri, non comprendendo questi indugi, e poi questa subita venuta, torna il custode maggiore e dice: «Il commessario vuole fuori i signori Agresti e Settembrini: levatevi, venite». Salvatore rispose: «Ed io non son degno di essere chiamato dal commessario?» E non disse piú. Un terribile lampo mi venne alla mente, guardai il povero Salvatore, e sostenuto da due chiamatori, uscii in quella stanza dove il sabato avevamo aspettato un’ora. Vi trovai il commessario, molta gente, ed il procurator generale, il quale vedendomi divenne pallidissimo, e mi disse: «Don Luigi... in questo stato!» Io fiutando del tabacco che aveva tra le dita risposi: «Son sereno come il primo giorno». Egli rivolse la faccia quasi per celarmi il suo dolore: poi volto ai custodi comandò mi togliessero i ferri. Dovetti sedermi a terra, e mentre mi sferravano, io gli dimandai: «E Faucitano?» Egli si restrinse nelle spalle: ed io dissi: «Povero Salvatore, ha sette figli!» Tutti stavano muti, e mi guardavano. Poiché mi furon tolti i ferri, mi levai, e dissi: «Finalmente son padrone delle mie gambe!» Venne Filippo portato in braccio da un chiamatore e fumando; gettò il sigaro, fu sferrato anch’egli, e non disse altro che: «Gli abiti sono indecenti, ma io non ci ho che fare». Il procurator generale ci fece rientrar nella stanza che prima occupavamo, e volle vederci rivestire de’ nostri panni. Filippo disse che la chiave dei suo baule l’aveva Vincenzo Esposito, che subito fu mandato a chiamare, e venne, e senza badare ad altri ci abbracciò inondandoci di lagrime. Mentre Filippo si rivestiva il procurator generale stringendo le labbra e dimenando il capo mi guardava fiso, ed io lui senza far motto. Non so che cosa allora sentiva e pensava, ma mi pareva commosso molto. Poiché ci vide rivestiti disse: «Per ora non posso dirvi nulla; spero di ritornare». Ci salutò ed andò via con tutti gli altri.

Rimanemmo soli con Vincenzo che non si saziava di abbracciarci e di piangere: e ci narrava il dolore de’ compagni e specialmente dei carissimo Michele quando ci dividemmo, e quanto vide i nostri panni. «In tutto Napoli, in tutto il carcere [p. 250 modifica] si è pregato per voi: tutti i carcerati sono stati nella chiesa pregando e facendo voti ai santi: i piú poveri si hanno venduto mezzo pane ed hanno comperato i ceri: ora si prega per don Salvatore». Queste parole ci fecero piangere di tenerezza: ed allora piangemmo la prima volta.

Io non so dire da quante punte crudeli ci fu lacerato il cuore in quel giorno terribile, vedendoci divisi dal caro Salvatore. Ne dimandavamo ogni momento i custodi, i quali or ci rispondevano che i Bianchi lo avevan condotto nella cappella; ora che non si voleva confessare e parlava sempre dei figli: ora che non aveva voluto provare nemmeno una stilla d’acqua. Ne dimandammo don Ciccio, il quale ci diceva. «Io non ho cuore di andare da lui: che posso dirgli? come confortarlo?» Filippo ricordò come nella causa dei militari nel 1822 i soli Morelli e Silvati furono decapitati, e disse: «Con noi faranno lo stesso: hanno scelto Faucitano». Piú tardi don Ciccio mi portò una lettera di mio fratello Giovanni che mi diceva che le nostre mogli erano a Caserta, che per Filippo e per me la condanna di morte era solamente sospesa, che il procurator generale aveva combattuto con tutti per aiutarci. Io mi feci al finestrone del corridoio e salutai il mio caro Giovanni, che mi risalutò con un mesto sorriso ed andò via. Intanto molto popolo e tutta la gente che passava fermavasi per guardarci: onde dovemmo lasciar quella finestra: ma udivamo le confuse voci della moltitudine, che dispersa dalla sentinella si riuniva piú lontano. Mentre nella nostra stanza parlavamo della sospensione, e dicevamo: «Chi sa se non ci hanno tratti dalla cappella per maggior tormento; e non ci condurranno ivi piú tardi»; ecco entrare subitamente don Ciccio, correre alla finestra, guardare per tutto e dimandarci: «Dove sono le corna?» «Che cosa sono coteste corna?» «Sí, le corna: uno sbirro le ha vedute: uno sbirro ha detto al commessario che voi avete ricevuto la grazia, ed avete messe le corna per insultare il re» «Noi?». «Il commessario è sdegnato con me, e mi ha mandato per verificare il fatto». Dopo molto cercare per tutte le segrete che sono in quel corridoio, [p. 251 modifica] fu trovato che un prigioniero, che stava nella segreta piú lontana dalla nostra e detta l’Asprinio, volendo chiamare un suo parente che passava, aveva cacciato un fazzoletto fuori la ferrata: e quel fazzoletto ad una fantasia sbirresca era sembrato un corno, ed un oltraggio che noi facevamo al re. Con simile fantasia, con simile logica fu compilato il nostro processo, e noi fummo condannati a morte da uomini che per anima, per cuore e per perfidia sono similissimi a quello sbirro. Quel povero prigioniero per contentare il commessario e lo sbirro fu battuto, ferrato, e messo in altra piú trista segreta: e solamente dopo molte nostre preghiere, ed aver mostrata e chiarita l’innocenza del fatto, fu liberato dal nuovo tormento.

Vincenzo fu chiamato ed andò nel carcere dei nobili: poi ritornò e ci diede questa lettera: «Miei carissimi Luigi e Filippo. Iddio sia benedetto che ci ha liberati da queste angosce crudeli! ora con le lagrime della gioia vi abbracciamo, e speriamo di breve, fra qualche ora, stringervi al cuore qui fra noi. Solo dello sventurato Salvatore ci stringe pensiero, ma confidiamo che anche per lui si mitighi il crudele destino. A te, mio Filippo, rendo il tuo anello, esso è stato di buon augurio tra le mani dei tuo amico: lo porrai tu stesso in dito alla signora Alina come memoria delle mie lagrime. Ed a te ed al buon Luigi rendo gli oriuoli. Tutti gli amici qui vi stringono al cuore con me. O miei amici, coraggio, speriamo che di breve fossimo consolati. Un bacio, miei carissimi. Ah questo giorno sará sacro nella mia vita! Vostro affezionatissimo Michele».

Dipoi Vincenzo ci disse che egli e gli altri assoluti dalla corte dovevano a momenti uscire di prigione: il povero giovane piangeva, e non voleva lasciarci, diceva che egli non poteva uscire mentre noi eravamo ancora in pericolo, e Salvatore in cappella: ma dovette uscire. Passammo il resto di quel giorno e la sera tra le angosce e gli strazi piú fieri. «Si sono fatte molte piccole cause politiche, moltissimi sono stati assoluti e dichiarati innocenti dalla corte criminale e dal [p. 252 modifica] consiglio di guerra, sono ancora in prigione da vari mesi: e i nostri compagni assoluti l’altr’ieri sono liberati oggi!... Dunque si vuol mostrare che si esegue subito la sentenza, chi a morte, chi ai ferri, chi a casa sua». «Povero Salvatore! vittima dell’altrui stoltezza! O chi avrá cuore di sentire dimani le voci di quelli che grideranno le sante messe per l’anima sua! Quelle voci forse saranno udite dalla moglie, dai figli, dai parenti. O povero Salvatore! oh! ci avessero fatto morire tutti e tre! E chi sa se non ci ricondurranno da lui! se non saremo serbati a morir dopo di lui!» Cosí dicevamo Filippo ed io rimasti soli, e seduti presso ad un tavolino nel silenzio di quella notte terribile. Non trovavamo loco, non sapevamo che dire, dimandavam sempre i custodi se vi era qualche novitá. Finalmente un’ora dopo la mezzanotte, si apre la porta, entra un custode, dice: «È venuto il procurator generale: Faucitano ha ricevuto la grazia: datemi de’ panni per rivestirlo». Ringraziammo Iddio, e dopo un quarto d’ora abbracciammo il buon Salvatore, che entrò con gli occhi smarriti. Il procuratore generale con altra gente entrò anch’egli nella nostra stanza, e cavandosi il cappello ci disse: «Signori, il re vi fa la grazia della sola vita: io griderò sempre: Viva il re, viva Ferdinando secondo». Noi ci cavammo le berrette, ed io risposi: «Ringraziamo il re che ha impedita una grande ingiustizia: ringraziamo la corte che ci ha condannati nella sua giustizia: ringraziamo voi, o signore: e ringraziamo ancora la nostra coscienza che non ci rimprovera alcun delitto». Ed egli rispose: «Bene o male che sia, la corte ha giudicato. e non bisogna parlarne: io ho fatto il dover mio e son lieto di avervi annunziata la grazia». Voleva farci salassare, darci un ristoro: noi sorridendo lo ringraziammo, lo salutammo, e rimasti soli ci demmo a ristorare il povero Salvatore.

Poiché fu ristorato alquanto con una tazza di caffé preparatagli da Filippo, tornato sereno disse: «Io non ho voluto gustar nulla di quello che mi offerivano, perché temeva non mi avessero dato qualche cosa per stordirmi, ed io voleva morire con tutti i sensi». «Ma È vero che non ti volevi [p. 253 modifica] confessare?» «Chi ha detto questo? Dopo una mezz’ora che ci siamo divisi, sono venuti i Bianchi, mi hanno messo in mano un crocifisso che io ho baciato, e mi hanno condotto nella cappella. Mi hanno detto se voleva confessarmi, ed io ho risposto di sí, e ribaciando il crocifisso ho soggiunto: ‘Io mi confesso a questo Dio, gli chiedo perdono de’ falli miei, gli raccomando l’anima mia, gli raccomando la sconsolata famiglia mia’. Mi dicevano di non pensare alla famiglia, ma all’anima; ed io rispondeva che doveva pensare ai figli miei, perché Iddio mi ha fatto padre: ed il mio testamento è quel processo che essi leggeranno un giorno. Siete venuti per consolare me, ma sapete quanti sono i condannati a morte? siamo otto, sette figli ed io. Essi moriranno ogni giorno, ogni ora, ogni momento. Andate a confortare i figli miei’. Mi rispondevano che essi anderebbero, che la congregazione de’ Bianchi penserebbe per loro. ‘Ma come li conforterete? restituirete ad essi il padre? siete padri voi?’ Mi dicevano che offerissi le mie pene a Gesú. ‘Sí, diceva io, Gesú è stato sempre il mio esempio. Dimandate il tal prete e vi dirá che io sono stato sempre, sempre buon cristano. Ma Gesú fu crocifisso dai giudei, ed io sono crocifisso dai cristiani’. Dimandai loro di andare al patibolo senza benda agli occhi: essi non volevano, dicendomi che doveva andare tutto raccolto ne’ pensieri dell’anima, che avrei potuto vedere qualche persona che mi avesse turbato. Ed io risposi loro che voleva vedere il sole e il cielo per l’ultima volta, voleva vedere i volti de’ miei cittadini, e se tra la folla v’era qualcuno de’ miei figliuoli, io lo benediceva prima di morire».

«Ed a queste parole che dicevano essi?» «Che potevano dire? piangevano, sospiravano profondamente, stavano con le braccia piegate innanzi al petto. Mi hanno fatto udire la messa: mi hanno tenuto una giornata: io ho parlato piú di loro. Infine la voce mi mancava, i ferri mi davan dolore ai piedi, li ho pregati di lasciarmi, ed essi mi hanno ricondotto ed aiutato a gettarmi su i farti. Mi hanno benedetto, e lasciato il crocifisso. M’annoiava di udire i pianti ed i conforti de’ [p. 254 modifica] custodi, ed ho finto di dormire. E stando cosí udivo un rumor di tavole che si caricavano sopra una carretta, e le voci dei carnefici che si disponevano a preparare il palco. Dopo la mezza notte è venuto il procurator generale, e mi ha chiamato: io gli ho risposto che mi lasciasse dormire. Mi ha domandato come stavo: io ho risposto: ‘Come mi avete ridotto’ Mi ha detto di levarmi, ed io: ‘Signor procurator generale Angelillo, se siete angelo per me, ditemi subito ogni cosa, ché io non mi sbigottisco, se no, lasciatemi tranquillo’. Mi ha fatto scoprire, ed ha pianto: m’ha fatto levare i ferri, e m’ha condotto da voi». Qui Filippo gli disse: «Per te era stata cucita anche una veste gialla, perché tu dovevi andare alla guillottina col secondo grado di pubblico esempio: noi alla forca col terzo grado cioè scalzi e vestiti di nero». «Basta, diss’io ora siam vivi e sani: ci è stata data la sola vita, e questa ci basta per ora». Filippo preparò per Salvatore un’altra tazza di caffé, e fumando ci ponemmo ad aspettare il giorno.

6

Spuntava l’alba del giorno 4 febbraio, e gran gente era intorno la prigione, ed altra andava per vedere il palco, che giá era stato disfatto. Rivedemmo Giuseppe Caprio che abbracciandoci con gran pianto e facendo forza per baciarci le mani, ci disse: «Tutti i carcerati hanno voluto che io vi baciassi le mani per loro: per tre notti e tre giorni non si è mangiato, non si è dormito; tutti han detto rosari e litanie, hanno pregato per voi, e non v’è santo in paradiso che non abbia avuto voti e preghiere. Saputa la grazia, è stata una festa». Io mi sentiva la gola stretta, e non poteva rispondere. Poi venne la moglie di esso Caprio con un figliuoletto, e la moglie di Salvatore Colombo: io non so dire quanto affetto ci dimostrarono queste buone donne popolane, le quali avevan vegliato tutta la notte innanzi la prigione, dolenti piú della nostra sorte che di quella dei loro mariti, condannati a 19 anni di ferri. Lo stesso custode, col quale avevamo parlato della [p. 255 modifica] costituzione, ci condusse due suoi figliuoli a visitarci. Il buon custode maggiore e l’egregio don Giulio non seppero negare a nessuno de’ nostri parenti ed amici di vederci. Rividi primamente il mio diletto fratello Alessandro, e lo strinsi al petto con gran tenerezza. Piú tardi abbracciai i miei figliuoli e mia moglie. O che momento, o che tumulto d’affetti, o che strette di cuore! I figli mi abbracciavano, mi stringevano, piangevano: e quella sventurata, pallidissima, con la faccia impietrita, volgeva gli occhi intorno piú sdegnati che addolorati, e non parlava. Ella sola mentre tutti erano stranamente commossi, ella sola non mostrava di fuori alcuna commozione, e mi faceva spavento. «Stai bene!» ella mi disse. «Sí, sto bene: e tu come stai, tu diletta mia?» «Oh, sto bene perché sei vivo». Ma quella faccia, quei fieri occhi, quel pallore, quell’apparente calma mi facevano tremare, mi mostravano un dolore terribile e profondo, perché io solo conosco l’anima sua, ed ella invano mi nascondeva quello che sentiva dentro. Non pianse, non sorrise mai in tutto quel giorno, solamente mi guardava e mi stringeva forte la mano. Mi disse: «Sono stata a Caserta, coi figli, con Giuseppe e Vincenzo tuoi fratelli, con la signora Agresti, con la moglie e due figli di Faucitano. Tu me lo avevi vietato, ma io ho voluto andarvi: perché l’avvocato Marini-Serra andato per chieder grazia non fu ricevuto. Trovammo ordini severissimi del re che non vuol vedere né ascoltare nessuno: andammo a Capua dal cardinale Cosenza, e quel santo uomo ci accolse come padre e come amico; e, perché malato, scrisse al re, pregando per voi: e ci disse di dare la lettera al vescovo di Caserta per presentarla al re. Andammo da questo vescovo che è anche un ottimo pastore ed acceso di caritá, e questi andò subito a palazzo, ma neppure egli fu ricevuto: onde lasciata la lettera del cardinale ad un ciambellano, ci disse che sperassimo bene, e tornassimo in Napoli. Noi tornammo iersera, lasciando in Caserta tuo fratello prete Vincenzo, che è tornato stanotte recando la nuova della grazia. Questo si è fatto. Tu sei vivo: ringraziamo Iddio». Io mi sentivo scoppiare il petto. Vennero [p. 256 modifica] gli altri miei cari fratelli Giuseppe, Giovanni, Vincenzo. Venne il buon fratello di Filippo, e la moglie; la quale francescamente, o per dir meglio convulsivamente sorridendo, abbracciò il marito e gli disse: «Mon ami, tu as sauvée la tête, á présent tout est rien». Allora sapemmo molte cose.

Il 21 gennaio, cioè dieci giorni innanzi la decisione, il re con un suo rescritto aveva disposto, che essendovi condanne di morte, se ne eseguisse la metá: se fossimo stati sei condannati a morte, quanti ne aveva richiesti il procurator generale, dovevamo morir tre; se quattro, due, se due, uno: e specialmente i capi; e non v’era speranza di grazia, non luogo a pietá ed a preghiere di chi avesse voluto pregare. Fatta la decisione, e condannati a morte noi tre, il procurator generale presentò alla corte il reale rescritto. La corte consultò un’ora (ed ecco perché aspettammo un’ora la lettura della decisione), e non trovava la metá dei tre. Io che era il secondo condannato avrei dovuto esser diviso per metá, come il fanciullo di Salomone. Finalmente la corte, osservando che Agresti ed io avevamo avuti cinque voti di morte tra otto, e Faucitano sei, decise che pel solo Faucitano si eseguisse la condanna. Questo espediente spiacque al ministro di grazia e giustizia, spiacque al governo che voleva i capi nostri. Il procurator generale ebbe rimproveri perché dopo la decisione presentò il rescritto alla corte: se l’avesse fatto prima, la corte avrebbe appaiato il numero de’ condannati a morte, e certamente io non vivrei, né ora scriverei. Fu bontá; fu sciocchezza dei procurator generale, non so. Iddio si serve spesso degli sciocchi e de’ buoni. Il procurator generale combattuto, confuso, incerto, non sa che fare, infine esegue ciò che la corte aveva stabilito, viene a noi e ci fa togliere i ferri. Salvati per errore noi, che eravamo piú odiati, fu fatta grazia a Salvatore per stizza.

Intanto udiamo un grande mormorio nella strada, ed il popolo che grida. «La moglie di Faucitano». Venne questa povera donna accompagnata dai figliuoli, dalla sorella, da altre donne, dal fratello di Salvatore. Ella aveva perduta la [p. 257 modifica] conoscenza, non vedeva e non riconosceva piú il marito, che l’era vicino, e la chiamava a nome. «Dove è Salvatore mio?» ella diceva. «Sono venuti i Bianchi a prenderlo? perché se lo prendono? io gli voglio parlare per l’ultima volta. Che ha detto il cardinale?» Chiamava mia moglie, chiamava la signora Agresti, e dimandava del marito. Povera donna! stette piú ore in questo stato miserando, furono vani i soccorsi che le demmo e si divise dal marito senza poterlo riconoscere.

Molte persone ignote chiedevano di vederci; e noi pregammo don Giulio di non lasciare entrare altri che i parenti. O buon don Giulio! quanto fece per noi, quanto dolore sentí per noi! Ma ecco due ignoti, che son preceduti da un custode, il quale ci dice: «Questi due signori, amici del direttore di polizia, son venuti per vedervi». Filippo rispose: «E che siam bestie curiose noi?» Eran due brutte facce stupide, che tosto andaron via.

Vennero gli avvocati G. de Vivo, Biagio Russo, Francesco Bax, e l’egregio Federico Castriota, che tanto aveva fatto e detto per noi. Ci dissero: «Il procurator generale vi fa sapere che alle 3 pomeridiane partirete: voi anderete all’ergastolo, gli altri ai ferri». «E non ci si leggerá la grazia?» «Nulla: un ordine è venuto come fulmine: tutto è pronto: onde voi preparatevi». Molti de’ nostri partirono per prepararci il necessario. Non vidi Amilcare Lauria, ottimo difensor mio e di Filippo, perché egli non ebbe cuore di vederci.

Quando i miei figliuoli udirono che io andava all’ergastolo, mi corsero innanzi, e abbracciandomi e piangendo, dicevano: «Non vi vedremo piú». La madre li sgridò per quel pianto sconveniente: io li racconsolai, dissi che fidassero in Dio, obbedissero la madre, si ricordassero di essere figliuoli miei. Essi, con la madre, ed i miei fratelli assistettero al nostro pranzo. Non dirò che sentii e che dissi in quei momenti, perché sono segreti del cuore. Mia moglie mi stava vicino, i figli mangiavano con me.

Intanto ci fu annunziato di dover partire. Uscimmo fuori il carcere, dove trovammo legati i nostri amici che ci [p. 258 modifica] abbracciarono come se fossimo risuscitati dal sepolcro. Fummo appaiati con le manette, e con una fune che univa le coppie: e detto addio agli altri prigionieri che ci salutavano, a don Ciccio ed a don Giulio che stavan muti, tra due fila di gendarmi movemmo. Noi conoscevamo tutti questi gendarmi, perché essi durante la discussione della causa ci avevano custoditi. Il capo disse loro di andare adagio, e di non maltrattare il popolo. Noi dicemmo che si tenessero presso a noi, usassero buone maniere col popolo e non dubitassero. All’uscir dalla Vicaria gran folla di gente si accalcava nelle strade e dalle finestre: ci accompagnavano, ci seguivano, ci precedevano. Noi eravamo ventitré condannati. Filippo ed io eravamo additati da molti; e molti dimandavano chi era Carlo Poerio, che tre anni prima era stato ministro. «Eccolo è legato con quell’altro signore che era giudice criminale, ed ora va in galera con lui, e si chiama Michele Pironti». Ci condussero per le strade della Nunziata, del Lavinaio, del Carmine, del Mercato, della Marina, forse per farci insultare dalla plebaglia che abita in quei luoghi. Ma la stolta speranza andò fallita: un solo mascalzone gridò: «Viva Ferdinando II»; ma nessuno gli rispose, anzi vidi che molti lo guardarono biecamente, perché insultava la sventura. Giunti alla porta della darsena vedemmo le persone delle nostre famiglie che dalle carrozze ci guardavano, ci salutavano, e ci davano l’ultimo addio. Salutai mia moglie, i miei figliuoli, i miei fratelli, ed Alessandro che non mi si era partito dal fianco. Entrati nella darsena eravamo osservati con altri occhi, ed ancora con altri affetti: vedemmo che da alcune finestre del reale palazzo eravamo sbirciati con lenti e cannocchiali da alcune persone che non potemmo distinguere. I gendarmi ci consegnarono ai soldati di marina, e ci disciolsero. Io ringraziai il loro capo di quello che tutti avevano fatto per noi: essi ci chiesero perdono del tristo uffizio che avevan dovuto adempiere, e ci augurarono ogni bene.

Fummo incatenati ed accoppiati alla presenza di moltissimi uffiziali di marina e di alcuni generali che ci guardavan [p. 259 modifica]Tutti, fuorché noi ergastolani, dovettero spogliarsi dei loro abiti e vestire una giubba rossa, un paio di calzoni ed una berretta di colore oscuro; e portarsi in mano una lunga tela di lana grossa nera, ch’è materasso e copertoio de’ forzati. Fummo gettati in una barcaccia da carboni, dalla quale dovemmo dire i nostri nomi e le nostre qualitá personali: poi fummo fatti salire sul vapore il Nettuno, e discesi in una stanza a prua, dove stemmo stivati come negri. I nuovi abiti, e la fioca luce non ci facevano piú riconoscere tra noi: le catene ci facevano dolore, ad ogni movimento davano un rumore sinistro. Gettati sul pavimento, passammo una notte d’inferno: dolorosissima per me che da tre giorni non aveva chiusi gli occhi. Giungemmo innanzi Nisida. La mattina del 5 per tempissimo diciotto dei nostri compagni discesero. Il Barilla, perché prete, quantunque condannato all’ergastolo, avrebbe dovuto andare in Nisida: ma la fretta di mandarci via non aveva fatto badare a nulla: ed il Barilla ed il Mazza rimasero con noi. Io non dirò quanto fu penosa quella separazione. Abbracciai tutti, abbracciai Carlo Poerio, e Michele, il quale mi richiamò, ma io lo fuggii. Furono chiusi nel bagno di Nisida, dove fu sciolto l’orribile accoppiamento, e ciascuno ebbe una catena a quattro maglie1. Noi destinati all’ergastolo di Santo Stefano non potemmo partire perché il mare era turbato, e restammo sull’ancora. Io era accoppiato con Filippo, Salvatore con Emilio Mazza: Felice Barilla non aveva alcun legame, perché prete. Rimasti noi cinque avemmo alcune gentilezze dal comandante del vapore signor Alfieri, e dal colonnello signor Salazar mandato dal re per condurci: ci fu data una stanzina su la coperta, ci diedero acqua per lavarci le mani e la faccia, ci diedero pranzo, ci permisero passeggiare su la coperta: ci dissero che erano dolenti di non [p. 260 modifica] poterci fare altro. I soldati stessi cominciarono a riguardarci benignamente, e poi a parlarci di varie cose. Passeggiando io riguardava la felicissima collina di Posilipo, e distinsi il casino che io abitava con la mia famigliuola, dove gustai tante pure gioie: ed additai a Filippo le strade e le campagne dove egli ed io con le nostre mogli ed altri diletti amici facemmo belle e liete passeggiate.

Stati un giorno innanzi Nisida, la notte partimmo, ed all’alba del giorno 6 febbraio giungemmo a Santo Stefano.


Note

  1. Dopo dodici giorni Carlo Poerio, Michele Pironti, Cesare Braico, Vincenzo Dono, Gaetano Errichiello, e Nicola Nisco, ammalato nell’ospedale, furono gettati nel bagno d’Ischia, accoppiati dalle catene, senza letti, senz’aria, senza luce, privi di ogni cosa. Gli altri dodici sono stati trascinati a piedi, e sepolti nel bagno di Pescara.