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tre giorni in cappella 235


mente mi disse: «Se io moro, scrivi». Io m’intesi straziar l’anima e non risposi; Michele, che udí le parole, sospirò dolorosamente. Dimandavamo ai custodi chi erano i condannati a morte, ed essi si stringevano nelle spalle, e non rispondevano: ci facevamo allo sportellino della porta ed alla finestra per leggere in volto alle persone alcuna cosa, ma tutti ci guardavano un poco, e subito volgevano gli occhi. I gendarmi stavano schierati nel cortile; molti sbirri armati stavano fuori la porta dei carcere. Infine vedemmo discendere alcuni dei nostri giudici de’ quali tre, con F. Schenardi, spia reale e notissima, entrarono in una carrozza e partirono. Dopo di aver condannati tre uomini a morte, moltissimi ai ferri, sparsa la desolazione in molte famiglie, confermata la servitú della patria, e detto al governo: «Indicate e noi percuoteremo», andarono a godere nelle loro case i piaceri della mensa e del riposo, le carezze delle mogli e de’ figliuoli, e la speranza di onori e di maggiori soldi.

Dopo una lunga ora di strazi ci fecero entrare nella stanza di udienza, e ci chiusero fra i due cancelli di ferro che ivi sono; fatti venire per udire la decisione ancora Giuseppe Caprio ed Emilio Mazza che stavano nella carcere comune del popolo. Dopo alquanti minuti entra un vecchio usciere seguito da vari ispettori, da custodi, da sbirri, e con le lagrime agli occhi e con voce tremante legge: «La Gran Corte condanna alla pena di morte Salvatore Faucitano, Luigi Settembrini, e Filippo Agresti», e si fermò. «Proseguite,» gli diss’io, «vogliamo sentir tutto». Ed egli proseguí:

«La Gran Corte speciale di Napoli, a voti uniformi,

Ha condannato e condanna:

Salvatore Faucitano alla pena di morte, col secondo grado di pubblico esempio, da espiarlo in luogo pubblico, ed alla multa di ducati cinquecento;

Filippo Agresti alla pena di morte col laccio sulle forche, e col terzo grado di pubblico esempio, da espiarla in un pubblico luogo di questa capitale, non che alla multa di ducati mille;