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tre giorni in cappella 231


di costumi candidi, di fede rara nell’amicizia. Io non seguitai secondo il solito, perché pensai che questo diletto amico ignorava un’altra sua sventura, la morte d’un suo fratello sostegno e speranza della famiglia. Andammo a letto, e dormimmo placidamente.

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La mattina del 1° febbraio ci levammo per tempo. Rompeva l’alba, ed io fattomi alla finestra del corridoio vidi nella strada un gendarme che rivolto ad un finestrone che mi stava sul capo, dimandò: «A che stanno?» ed udii una voce che rispose: «C’è tempo ancora». Allora io pensai, e dissi tra me: «Giacché c’è tempo, usiamone bene: forse non potrò piú rivedere mia moglie; le scriverò l’ultima lettera». E scrissi la seguente lettera, e la diedi a Vincenzo affinché in ogni caso l’avesse fatta pervenire a mia moglie.


1° febbraio 1851, ore 8 del mattino.

Io voglio, o diletta e sventurata compagna della vita mia, io voglio scriverti in questo momento che i giudici stanno da sedici ore decidendo della mia sorte.

Se io sarò dannato a morte non potrò piú rivederti, né rivedere le viscere mie, i carissimi miei figliuoli. Ora che sono serenamente disposto a tutto, ora posso un poco intrattenermi con te. O mia Gigia, io sono sereno, preparato a tutto, e, quello che piú fa maraviglia a me stesso, mi sento la forza di dominare questo cuore ardente che di tanto in tanto vorrebbe scoppiarmi nel petto. O guai a me se questo cuore mi vincesse. Se io sarò dannato a morte, io posso prometterti sul nostro amore e sull’amore de’ nostri figliuoli, che il tuo Luigi non ismentirá se stesso; morirò con la certezza che il mio sangue sará fruttuoso di bene al mio paese, morirò col sereno coraggio de’ martiri, morirò, e le ultime mie parole saranno. alla mia patria, alla mia Gigia, al mio Raffaele,