Rapisardi e Carducci - Polemica/I
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I.
Prometeo 10, 17 e 24 Aprile 1881.
RICORDI, PROSE E POESIE
PER
LUIGI LODI
BOLOGNA, NICOLA ZANICHELLI, MDCCCLXXXI
E chi non ha talento per comparir creando,
Passar per uom saputo s’industria criticando.
- (Goldoni — Il Molière)
Il signor Luigi Lodi è un che di mezzo tra il chierichino e il critico giovinetto, i due tipi stupendamente comici immortalati da G. Carducci. Partecipa del primo perocchè sa agitare il turibolo con tutta la energia delle sue esili braccia da sagrestano, somiglia al secondo, in quanto egli, dopo aver saltellato affannoso di articolo in articolo verso una terra che nessuno gli ha promesso, cogli occhi fissi alla colonna di fuoco, che generalmente suole essere un libro di critica letteraria, l’ha raggiunto; e credendo aver toccato il settimo cielo col dito mignolo, con una boria da marionetta, che diverte e fa ridere, si pavoneggia, stenterellando, fra i fuochi di paglia dei suoi periodi asmatici, scrofolosi, affetti di tabe: la cui luce, ei crede, dovrà illuminare il mondo.
Già: egli ha disposto in bell’ordine tutti quei perioduzzi, credendo fossero pelottoni di bersaglieri vigorosi ed arditi; ma ohimè! non sono che povere file d’invalidi raccolti all’ospedale, vecchi, barcollanti, mutilati, pallidi come cartapecora, smunti, tremuli, e che per giunta fanno le fiche al loro capitano.
Ma usciamo di metafora.
Intendo parlare di un libro testè pubblicato dal signor Luigi Lodi.
È un volume di 150 pagine, tipi elzeviri, carta chamois, copertina gialla, edito dallo Zanichelli. Ciò vuol dir qualche cosa! Chi non lo sa? Un volume elzeviriano stampato dal Zanichelli, quando non è un capolavoro d’arte o di critica — lochè è raro — è pur sempre un capolavoro.
«Doveva essere un libro, e libro di polemica» quando tre anni fa realisti ed idealisti si accapigliavano come donne da trivio. In esso si dovea «discorrere intorno la natura ed il fine del realismo, intorno al successo ottenuto dalla poesia dello Stecchetti, e a ciò che ella contiene di essenzialmente duraturo.» Lo Zanichelli non si negò a stamparlo, e il signor Lodi si accinse alla grande opra. Ma siccome «i bollori pugnaci» ben presto cessarono, così il libro sarebbe riuscito una cicalata inutile, ed il sig. Lodi abbandonò l’idea di «buttarsi per perduto nel fitto della pugna.» Ma Zanichelli di queste ragioni non volle sentirne e richiese ad ogni costo il promesso manoscritto. Allora cosa fare?
Ecco cosa fece il signor Lodi.
Riunì in 150 pagine un’apologia di Lorenzo Stecchetti, un’apologia senza capo nè coda, e non avente altro scopo, se non quello di dire al pubblico grosso: badate che fra gli spacciatori di critica elzeviriana ci sono anch’io; una apologia che nulla aggiunge al risalto della simpatica figura di Olindo Guerrini, e che, per giunta, è brodettata da certa spavalderia di giudizii e di sentenze che fanno ridere.
Io certamente non istarò ad esaminare il libro punto per punto, che andrei troppo per le lunghe; soltanto mi fermerò su qualcuno di quei tali giudizii, facendovi, s’intende, le debite osservazioni.
Per esempio: il signor Lodi accenna a M. Rapisardi con queste parole: «quell’arcade cattivo soggetto che inaffia col brodo lungo dei suoi versoni frugoniani la tomba di Tito Lucrezio Caro.»
Oggi è di moda dare ad intendere di conoscere la letteratura latina, dal momento che il Carducci scrisse giustamente, essere indispensabile al critico la conoscenza di una almeno delle due letterature classiche; e spesso se ne sa meno d’uno scolaretto di ginnasio, che in fin dei conti traduce Cicerone e Virgilio. Nel caso nostro, ammesso che il signor Lodi sappia un po’ di latino (e se studiò al liceo un poco lo deve sapere) comincio a porre in dubbio s’egli abbia mai letto il de rerum natura. Se sì, nel giudicare a quel modo la traduzione del Rapisardi, mostra che non l’ha compreso; se no, peggio per lui, ha detto una solenne sciocchezza, la quale non cela quella malignità ed invidiuzza che gli rodono il cervellino piccinino piccinino, fatto di stoppa inacquata nel siero.
Andiamo avanti. L’autore dell’Alcibiade e dei Pezzenti il signor Lodi lo chiama «il buon Cavallotti.». Non scorgete voi in quel «buon Cavallotti» una certa posa di benigna fraternità che il buon Lodi vuole assumere a dispetto della sua ignoranza barbogia? «Il buon Cavallotti!» L’aveva scritto Carducci accompagnandolo con un mio e con un bravo, stante l’amicizia che lega i due potenti poeti, e stante ancora quella superiorità che il poeta di Bologna può vantare sul Lombardo, e per l’età, e per l’ingegno; ma quando lo scrive il signor Lodi colla sua arrogante piccineria di letterato da satira, mi vien proprio da ridere, proprio proprio.
E continua, sentitelo:
«Il Dies irae, l’Annunciazione sono due liriche stupendamente civili, due liriche molto più civili di certe enumerazioni, esercitazioni, versificazioni ed eruzioni a proposito del caporale Barsanti che non fu punto un eroe, e per certi altri soggetti che non furono nè anco galantuomini.»
Adagio Biagio! non corra così precipitoso per la via delle castronerie, stia un po’ a sentire: Che l’Annunciazione — il Dies irae non sarà mai una lirica per quanto Ella si sforzi di farla diventar tale — che l’Annunciazione, dico, sia una lirica stupenda chi lo nega?? neppure Felice Cavallotti, che scrisse le Anticaglie, ma per carità non dica che è stupendamente civile, perchè quando ella mi afferma ciò, io le dichiaro, senza tanti complimenti, che non sa dove stia di casa la lirica civile. Lirica civile, mio buono e bravo Lodi è quella di Berchet, Rossetti, Mameli, Poerio, Uberti; lirica civile nella sua più fiera e possente manifestazione è quella di G. Carducci, lirica civile virilmente inspirata è quella di F. Cavallotti, quella istessa, che, Ella con intuizione artistica degna d’un africano del sud, classifica per enumerazioni, esercitazioni etc. Sissignori, quella è lirica civile, che canta i martiri, la gloria, la patria; animosa, ribelle, calda d’entusiasmo battagliero; quella precisamente, che, colle sue strofe alate fa l’apoteosi del caporale Barsanti, e di quei tali soggetti, che Lei assevera, con certezza assoluta, non essere stati nemmanco galantuomini. E, di grazia, a che ci siamo, mi saprebbe dire chi siano questi altri soggetti? Monti e Tognetti forse? badi che li canta anche il Carducci. Ad ogni modo dica, chè lo apprender cose nuove ci può sempre giovare.
Ma credete voi che il buon Lodi l’abbia terminato con la lirica civile e con Cavallotti? oibò! adesso è l’ora di montare in cattedra, aggiustarsi la cravatta, ravviarsi i capelli all’indietro, volgere intorno lo sguardo scintillante di solennità, gonfiare le parotidi come un ranocchio e percuotere l’aria con una di quelle sentenze tanto magniloquenti quanto vuote di significato. E questo fa il signor Lodi, e sentite come: «C’è da fare qualche cosa di meglio fra noi che scaldare la testa ai ragazzi con dei martiri e dei martirii d’immaginazione e di lega non pura. C’è da cambiare l’ambiente morale, da buttar via una educazione preparata per dei secoli da preti da..... (mirate quei puntini in fila come favoriscono tutto il movimento lirico-drammatico!) tante cose ci son meglio da fare, o prima, se non altro, di occuparci della politica, di questa povera e bugiarda politica d’ogni giorno che si fa su pei giornali, entro Monte Citorio, da taluno dovunque.» Che ve ne sembra di quei «martiri e martìrii di lega non pura?» che il buon Cavallotti ha la debolezza di inventare per scaldare la testa ai ragazzi?
O buon Cavallotti chiudi bottega, se no i ragazzi, scaldata la testa dalla tua povera e bugiarda politica d’ogni giorno, potrebbero diventare amici dei preti e corrompere l’ambiente morale della patria nostra.
Procediamo oltre, chè il meglio non è ancor venuto. Abbiate la bontà, lettori miei, di leggere queste due pagine del mio eroe:
«Di poco avanti vi ho invitati a considerare come il linguaggio della poesia sia nel Guerrini pressochè identico a quello della prosa.
«Questa è l’importanza formale della sua opera poetica.
«La convenzione nella lirica nostra dura anche oggi, e come dura!
«Non ricorderò nè l’Aleardi, nè il Prati, che pur vale tanto più del primo, ma rileggetevi qualche strofa del Cavallotti, e vedrete come rimanga ancora l’uso di certe forme, di certi parlari etc...
«E provatevi a leggere quelle bruttissime e sciocchissime cose, che sono le Ricordanze del signor Rapisardi, provatevi e vedrete quale oscena orgia di luoghi comuni, di frasi a stampo, d’imparaticci antiquati?
«Nel Guerrini l’uso, l’abuso anzi di questi modi determinati, fissi non v’è mai, o quasi mai, la sua lingua è facile, per tutti, non si vieta nulla.
«Nella prefazione alle Anticaglie sono riportati e lodati alcuni versi dell’Aspasia del Leopardi. Ebbene, a costo di parere eresiarca, stamperò che la forma di quei versi mi pare terribilmente convenzionale. Non lo credete?
«Eccovene quà (sic) alcuni. . . . . . . . Narra che prima,
E spero ultima certo, il ciglio mio
Supplichevol vedesti, a te davanti
Me timido, tremante, (ardo in ridirlo,
Di sdegno e di rossor) me di me privo
Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
Spiar sommessamente, di tuoi superbi
Fastidi impallidir, brillare in volto
Ad un segno cortese, ad ogni sguardo
Mutar forma e color. Cadde l’incanto
E spezzato con esso a terra sparso
Il giogo onde m’allegro...
«Non c’è nessuno che parli alla innamorata (anche sdegnosa o sdegnata, come in questi versi. Ed ò scelto dei più liberi, dei più disimpacciati fra quanti ne abbia scritto quel potentissimo ingegno. Se rivedessimo il Monti l’Alfieri, il Niccolini e ne ricopiassi dei passi (come sibilano queste due parole collocate insieme) misericordia che libro metteremmo insieme!»
! ? ! ? ! ? ! ? ! ? ! ? !
Qui bisogna andar piano e cauti per non rischiare di rompersi l’osso del collo. Non si tratta mica di prendere a scappellotti una sciocchezza qualunque nè di confutare una sentenza da marchese Colombi, nè di dire: voi scrivete coi piedi e pensate col sedere; no, no, qui l’imbroglio è serio. Qui l’inettitudine critica, la burbanza tracotante della mediocrità o nullità, la frega di «sdottorare, giudicare e condannare proprio colla gioia maligna del servo che insolentiva il padrone nei saturnali — come scrive il Guerrazzi — la miseria insolente dello scarafaggio che scaglia la sua pallottola di concime contro l’aquila con l’intendimento di ferirla, l’invidia del pigmeo verso i giganti, il raglio dell’asino contro il nitrito del cavallo, la superbia del pavone, che ha la testa quanto una noce, la completa ignoranza dell’arte; tutte queste cose si fondono insieme e ne risulta un miscuglio così ributtante che il simile non ho mai trovato nelle velenose censure dei pedanti bofonchini e maligni contro i grandi intelletti. Perchè, non vi sembri strano, anche la scuola verista elzeviriana, come tutte le altre, ci ha i suoi bravi pedanti; e dai pedanti in elzeviri S. Antonio ci salvi.
Ho detto andiamo piano.
Ed anzitutto, mi saprebbe dire, signor Lodi, cosa intende Ella per poesia, e per lirica in ispecial modo?
È imbarazzato, poverino! non sa rispondere.
Meno male che non dee dare esame di licenza ginnasiale, altrimenti sarebbe bocciato addirittura.
Dunque non lo sa? Mi dispiace, non sarò io certo quello che glielo insegnerò, giacché non posseggo, come Lei, la rara modestia di pormi a fare il precettore a gente che ne sa più di me; come Lei, però, posso con sicurezza affermare che prosa e poesia siano due cose ben diverse, e che quindi il linguaggio dell’una non possa essere quello dell’altra. E badi, questa non è opinione mia, ma di tutti coloro che hanno un po’ di sale in zucca non solo, ma è opinione avvalorata dal fatto, che tutti i grandi poeti, quando hanno scritto in versi, e in versi lirici, non hanno conservato neppure la più lieve andatura della loro prosa.
Non le reco degli esempii, poichè dovrei tirare in ballo tutti i nostri più insigni poeti da Dante a Carducci, e poi a che pro? per addirizzare le gambe a lei, signor Lodi, che l’ha più storte d’un gambero? a lei che per pescar granchi è fatto apposta? A lei, microscopica creatura che si compiace della bava che gli esce di bocca come fanno i bambini? E via, ci perderei il ranno ed il sapone, ed io ho tutt’altro da fare.
Piuttosto, invece di dimostrarle tutta l’assurdità della sua opinione, col ragionamento e cogli esempii, mi piace farle notare tutte le colossali minchionerie a cui l’ha trascinato il suo ragionare coi piedi.
Ecco qua:
Lei è uno dei più fanatici chierichini della cattedrale magna di Bologna, brucia incenso sotto il naso del suo idolo, a costo di farlo soffocare, regge il candeliere, bacia la stola del pontefice massimo e via via fa tutte queste belle cose, che in tempi, come i nostri, di cricche letterarie e d’odii di campanile, nei quali, come dice Terenzio, obsequium amicos veritas odium parit, le fanno tanto bene. Le procurano, se non altro, le simpatie di coloro, che, come Lei, hanno le orecchie lunghe e la coda corta; del signor Bragaglia, per esempio, il bavoso studentello del Liceo di Napoli, reso famigerato fra i guaiolosi lazzaroni della critica piazzaiuola di bascin puortu per un articolo contro M. Rapisardi.
Già: il mingherlino Bragaglia a quest’ora le avrà mandato una lettera, dicendole presso a poco. «Lei è un grand’uomo, un genio, d’un coraggio titanico, ha flaggellato, come ho fatto io, quel gufo di Catania che strimpella sul chitarrino canzoni sciocchissime e bruttissime. Come calzano bene questi due superlativi! il miserello ne creperà di rabbia! Viva Lei! io non posso più dimostrarle la mia stima e venerazione, mi accolga, illustre campione, sotto le sue grandi ali, e m’abbia sempre pronto a risciacquarle il vaso da notte e pulirle il....
Suo umilissimo etc....»
E così Ella ha trovato qualcuno che la proclama un genio, come io La proclamo un guastamestieri di prima qualità.
Sissignori, di prima qualità, perchè quando Ella mi scrive tutto quel ben di Dio di sciocchezze e d’insolenze contro l’autore del Lucifero e delle Ricordanze, contro il signor Rapisardi, sa che voglia mi viene? di togliermi la pianella e inseguirla a pianellate per un chilometro di strada.
E quando Lei collo stesso coraggio di chi uccise Ferruccio proclama l’Aspasia di Leopardi «terribilmente convenzionale» e i di lui versi non liberi e impacciati, allora sa cosa penso? che se qualche saltimbanco di passaggio per Bologna La volesse condur seco per esporla nel suo serraglio di bestie addomesticate, farebbe dei denari. Diavolo! chi non pagherebbe 4 soldi per vedere il signor Lodi col suo volume sotto un braccio, la verga sotto l’altro, fare mille smorfie? Lo si potrebbe mostrare in teatro a beneficio dei danneggiati di Casamicciola, e ci sarebbe tanto di guadagnato.
Ma perchè credete voi che il sig. Lodi abbia pronunziato tale verdetto intorno al Leopardi?
La cosa è logica. Le Ricordanze del signor Rapisardi sono bruttissime e sciocchissime, ma la forma delle Ricordanze è leopardiana, ergo la poesia del Leopardi deve essere un quid simile: e poi, tanto per mitigare l’aspra severità della sua sentenza, concede al Leopardi un «potentissimo ingegno.» Che ne dite, eh? poteva silloggizzare meglio uno scolastico del Medio Evo? Potrebbe riuscire più ridicolo il Marchese Colombi quando presiede agli accademici?
Avea ragione da vendere G. Mazzini quando scriveva:
«Troppo sovente tra noi le miserie accademiche, le passioncelle private ed i rancori di municipio trasmodarono il campo dell’utile controversia in un’arena da gladiatori, troppo spesso le contumelie usurparono il luogo alla onesta critica....»
Ma chi legge le opere letterarie di G. Mazzini?
Il signor Lodi no di certo.
Ma avrà letto sicuramente un certo articolo di Olindo Guerrini dal titolo Elzevir pubblicato nel n. 105, anno 1° della Lega democratica, che è un capolavoro di brio e vivacità; nel quale sono dette queste sante parole:
«Perchè la critica è una bella e santa cosa, ma fatta come la facciamo ora in Italia fa pietà davvero. Critichiamo così a orecchio, o, come si dice, a impressione. Se abbiamo fatto colazione bene, se lo sigaro è buono, se nel caffè non c’è troppa cicoria, l’impressione sarà buona ed i giudizii benigni. Se piove, se ci fa male un dente, se dobbiamo saldare il conto col calzolaio, l’impressione sarà pessima e taglieremo a pezzi il povero autore.»
Ammesso che sia vero, quanto scrive il Guerrini devo supporre che il sig. Lodi sia affetto da qualche malattia da quarta pagina, e che dovea soffrire un prurito insolito, quando scrisse quelle stupende sciocchezze su Mario Rapisardi.
Ma il geniale poeta di Catania non è toccato da tanta miseria; egli risponde col motto sdegnoso d’Orazio: odi profanum vulgus. Egli, dalle floride pendici dell’Etna, sotto l’eterno bacio del sole siciliano, solo coi suoi fantasmi e le sue visioni, in grembo alla vergine natura, innamorato del sorriso della musa che gli largisce baci e carezze, ci fa sentire quelle canzoni armoniose, d’onde sale un profumo dolcissimo e soave, un profumo di fior d’arancio e d’albicocco, un profumo voluttuoso, inebriante, che egli va raccogliendo da quella bella ricca famiglia di fiori olezzanti nelle pianure incantate dell’Etna. Gentile e malinconico come una fanciulla, fiero come un isolano della montagna,> ribelle come il suo Lucifero, solitario come uno scoglio in mezzo all’Oceano, egli passa disdegnoso, ed ama, e lavora, e canta.
E se qualche scrofoloso itterico intelletto sotto le spoglie bugiarde della critica tenta sfrondare l’alloro che cinge la sua fronte di poeta, allora egli o tace alteramente, o flagella collo staffile aristofaneo quell’Aristarco da balia, che,
Picciol Nembrottin di calza fatto,
Ogni lingua.... sa fuor che la propria,
E, perchè gonfie entrambe ha le parotidi
Tien che de l’arte a un tempo e de la critica
Gli diè Natura il gemino bernoccolo.
Ma lasciamo il solitario vate di Catania nella invidiata pace delle sue montagne e dei suoi studii, e torniamo al signor Lodi.
Notaste, lettori, la leggera noncuranza, colla quale il signor Lodi accenna all’Aleardi e al Prati? notaste come lui nemmeno si vuol dare la pena di mentovarli? Eppure il Carducci ebbe a scrivere poco tempo addietro, che nell’Armando «scorrevano rivi di poesia tali che l’Italia non ne avea da più anni veduto scendere di più limpidi e freschi dal suo Parnaso.»
E più oltre:
«Il canto d’Igea nella seconda parte dell’Armando è ciò che di più sanamente classico ha prodotto la poesia del tempo nostro in Italia.»
Che ne pensa il sig. Lodi? gli pare che il Carducci abbia il cervello malato, scrivendo queste cose su Giovanni Prati?
Ma il Carducci è sano abbastanza e continua:
«Giovanni Prati, il solo veramente e riccamente poeta della seconda generazione e dei romantici in Italia....»
Non basta: il Carducci ha la debolezza perfino di assegnare a Giovanni Prati un posto eminente nella nostra storia letteraria, giudicando l’Armando «nobile richiamo alla dignità della arte e al rispetto degli artisti, proprio nel punto che l’Italia cominciava a dare troppi segni d’una irrefrenabile inclinazione al materialismo dei subiti guadagni e dei godimenti inferiori.»
Che ne dice il sig. Lodi? Son sicuro, che se G. Carducci non fosse il sommo sacerdote della parrocchia centrale di Bologna, lo giudicherebbe più sciocco di M. Rapisardi.
Ma di tanto in tanto il nostro critico va spruzzando il suo libro di qualche gocciola di modestia, tanto per buttare un po’ di polvere negli occhi a quelli che potrebbero essere indispettiti dalla sua tracotante inettezza. Un zinzino di modestia a tempo e a luogo è pur necessaria, è come l’olio in una pietanza di rape e cavoli fiori, che li rende più digeribili.
Notate difatti quanto è ingenuo a pagina XV della prefazione: «Ma tu, lettore ingrato come tutti gli uomini felici, dirai tuttavia probabilmente che l’ho fatto spendere in un volume inutile e che sono un asino.»
Il lettore per cortesia risponderà quanta modestia! Lei è un uomo dotto.
Io al contrario sono di parere opposto al lettore cortese.
Notate ancora quanto è civettuolo a pagina 87, più civettuolo ancora d’una cameriera, a cui il padrone faccia la corte.
«Intanto io vo scrivendo della cattiva prosa, e vi annoio, e forse anche parrà ch’io stia preparando una sciocchezza sfacciata.»
Anche qui il lettore cortese risponderà per convenienza: Ma le pare? il suo libro è un capolavoro; dell’istesso modo ad una signorina romantica, la quale mi dicesse con rimpianto: forse le sembro brutta! io risponderei: cosa dice? Lei è un capolavoro della natura; i suoi occhi, il suo naso. . . e non andrei al di là del naso. Ma al sig. Lodi rispondo così: Tolga quel forse amletiano, tolga quel parrà; è tanto certo che il suo libro è noioso, stucchevole, sciocco, sfacciato, che non si pensa a dubitarne.
Altro che cattiva prosa! Prosa sciatta, sconclusionata, imparaticcia, della quale oramai abbiamo colme le tasche, prosa al cui confronto quella dell’Ostrogota Psiche, come Ella si compiace appellarla, è oro fino; prosa che si vomita tuttodì nei giornali, nei circoli accademici e in certi volumi elzeviriani in barba al buon senso e al buon gusto.
Il Carducci satireggia troppo crudamente la prosa borghese di Paulo Fambri e d’Edmondo De Amicis, e forse ha ragione, ma il fatto sta, che, tolti lui, Guerrini, Rapisardi, Cavallotti, Trezza ed alcuni altri, tra specie i novellieri, non c’è alcuno oggi in Italia, che sappia mettere insieme una sola pagina degna di Paulo il forte e del capitan cortese.
Ma per il signor Lodi al bel paese manca la prosa, e domanda ai lettori cosa pensino «del De Amicis, costretto a stringarsi fra i toscanesimi, i neologismi lombardi e qualche insidioso e attaccaticcio primo arcaico, tanto da finire per camminare colla disinvoltura e la facilità che avea l’amante di Fiammetta quando le entrò.... sapete dove.»
Oramai non v’è più dubbio, la prosa manca pur troppo, ed il sig. Lodi ci dà saggio del come scriveremo i nostri giornali, i nostri romanzi, i nostri bozzetti, scriveremo insomma le cose nostre.» Li scriveremo precisamente come il periodo or ora citato, dove ciò che si potea dire in due parole, si è allungato con tanta brodaia, con l’unico intento di dire ai lettori: vedete, anch’io ho letto il canto XXVIII del Furioso.
Che miseria di mezzi per mostrare di aver molto letto, ammesso che la lettura dell’Ariosto costituisse tutto questo gran che.
«Siamo giusti ed abbiamo coraggio» esclama il signor Lodi a pag. 84, «su tutta la faccia del globo ci stanno dei cretini, ma in nessun angolo di tal faccia come in quello che chiamano Italia, ce ne stan tanti che facciano i giornalisti.»
Egregiamente: però mi usi la cortesia di aggiungervi anche i critici come Lei. E si ricordi che il Carducci, per la canaglia che perpetra strofe implorava un po’ di Melikoff, non so cosa implorerebbe per quella che perpetra critica.
E qui, lettori miei, vi sospendo l’incomodo, e chiedovi perdono se, avendovi presentato il signor Lodi, stimato in questo mare magno, che si appella repubblica letteraria, come un pesce grosso, vi ho tenuto per buona pezza in conversazione con lui.
E se qualcuno di voi si diletta di schizzare o a matita, o a penna, o a carbone anche, per carità mi faccia lo schizzo di questo signor Lodi, altronde oggi è tempo di schizzomania, e più d’un imbecille ha avuto l’onore di stare in testa a qualche articolo di fondo.
Vittorio Palmeri