Rapisardi e Carducci - Polemica/Al lettore

Al lettore

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Rapisardi e Carducci - Polemica I

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AL LETTORE


O confessiamo: non è senza un sentimento di sconforto e, staremmo per dire, di repugnanza, che noi oggi ci accingiamo a raccogliere gli scritti sparsi in molti giornali della Penisola, nei quali si fa menzione della polemica suscitata inconsideratamente da pochi criticonzoli fra quei potenti ingegni di Mario Rapisardi e di Giosuè Carducci.

Questa lotta acerba, che da principio aveva almeno l’aspetto di una lotta letteraria, ma che ora è venuta mano mano facendosi sempre più [p. II modifica]personale e per ciò stesso sterile e — diciamolo — poco edificante, è cagione di doloroso stupore in quanti amano sinceramente le patrie glorie e lo splendore delle nostre muse.

Non è vero italiano chi non invochi la cessazione di questa guerra infruttuosa, che anzi nuoce all’arte e nulla aggiunge alla fama di coloro fra i quali è impegnata.

Ma, purtroppo, v’ha chi gode di questo triste spettacolo; purtroppo v’ha chi, impotente a nulla creare di sano, di vigoroso, di vitale, si diverte a scribacchiare libercoli che sono dei veri insulti alla critica ed al buon senso e che fanno due acerrimi nemici di due Poeti che altrimenti avrebbero côrso la loro via — nutrendo forse un po’ di segreto rancore l’un per l’altro — ma non certamente eccedendo in quella guisa che tutti deplorano.

E qui ci cade in acconcio di giustificarci verso [p. III modifica]il lettore, che, dopo quello che abbiamo detto, potrebbe accusarci di contraddizione.

— Se voi deplorate questa polemica, se ne invocate la fine, perchè raccogliete queste pagine che di essa sono la più esplicita manifestazione? O non raggiungereste meglio il vostro scopo, ponendo in oblìo questi scritti, dettati sotto lo impulso dell’indignazione e per ciò stesso non molto acconci a dar fine al doloroso conflitto?

Sì, comprendiamo un tale ragionamento e ne seguiremmo le conclusioni se non credessimo nostro precipuo dovere di far ricadere tutta la colpa su chi la merita, scagionando nel medesimo tempo il Poeta catanese delle accuse a cui è stato fatto segno.

Frammezzo ai disparati giudizi che ognuno si crede in diritto di pronunziare su questa vertenza — o per preconcette simpatie o per amore di metter pace — ci pare che questo possa as[p. IV modifica]serirsi senza tema di andar errati, cioè: dipendere da scrittorelli di dubbio merito e di più dubbie intenzioni, l’inasprimento della polemica, e non esser certo il Rapisardi quello fra i due che più abbia provocato l’altro ad eccedere.

Giudichiamo un poco spassionatamente e, se è possibile, con calma.

Il Rapisardi pubblica il Lucifero. Quella manifestazione originale di un ingegno originale, robusto, eminentemente artistico, suscita una grande sensazione in tutta Italia.

Com’è naturale, gl’inetti, gl’invidiosi, tutta l’indigesta folla dei critici da dozzina si levano contro al Poeta ed a

Questo del suo pensier figlio diletto.

Ma di costoro non mette conto occuparsi.

Il canto undicesimo del Poema contiene una satira stupenda, terribilmente vera, palpitante [p. V modifica]per attualità, di alcuni uomini di lettere che credono a sè infeudata l’arte italiana.

Sotto a quelle pitture scrupolosamente fedeli, dai colori vivi e smaglianti, il lettore va discoprendo, con un risolino di compiacenza, poeti, giornalisti, filosofi che, a torto o a ragione, fanno molto parlar di sè. — Il Carducci crede di esservi compreso. — Di qui un astio che è poco scusabile e che, se non altro, non depone molto a favore dello spirito del Poeta bolognese. — Ma, checchè sia di ciò, la cosa non ha seguito e, secondo tutte le apparenze, non ne avrebbe avuto; quando escono alla luce degli scritti pieni di fiele pel Rapisardi, nei quali si maltrattano le sue opere senza l’ombra di un argomento — dommaticamente, con un fare pretensioso che non può se non disgustare. — Da che parte provengono simili scritti? Forse da quella chiesuola che non crede possa esservi [p. VI modifica]arte fuori di essa? Forse da quegli adoratori che, genuflessi davanti a’ loro idoli, ne ascoltano a bocca aperta i responsi e si scagliano con accanimento contro ai nemici di quelli? — Noi non vogliamo approfondire questo punto, ed il lettore ce ne saprà grado. — Il certo si è che queste che vogliono passar per critiche, suscitano disgusto in quanti sono amanti delle tradizioni della sana critica, e indignazione negli ammiratori del Rapisardi. I quali alla lor volta rispondono, nel mentre che i discepoli del nostro Poeta gli fanno una manifestazione di stima.

Qui gli altri montano su tutte le furie, gridano che il Rapisardi provoca gli studenti ad applaudirlo e simili altre cose prive di senso. — Il nostro poeta risponde con una lettera in cui dice di disprezzare chi lo svillaneggia e che

                                   i vituperi
     Di nemico a nemico onta non fanno.

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Quelli rincarano la dose: scendono a basse personalità, lanciano stupide accuse. — Il Rapisardi, messo, come si dice, colle spalle al muro, pubblica dei versi che, mentre pel decoro delle lettere italiane vorremmo non fossero mai stati scritti, sono un grido di legittimo disgusto, a lungo frenato.

Ecco i fatti nella più nuda verità.

Essi provano quel che asserimmo: dipendere, da criticuzzi velenosi la polemica deplorata, dover incolpare gli avversari del Rapisardi se essa è uscita fuor dei limiti di una guerra fra gente per bene.

Questo abbiamo voluto dire per giustificarci.

Ed ora ci sia lecito invocare la pace; ci sia lecito sopratutto rivolgerci agli avversarî del Rapisardi per dir loro pacatamente, senza fiele o risentimento: Nessuno al mondo v’impedisce di pensarla come meglio vi pare sulle opere [p. VIII modifica]del nostro Poeta: trovateci tutti i difetti che volete, stampate delle critiche serie, con delle ragioni, non con delle insolenze — se pur ne siete capaci — ma per amor dell’arte, ed anche un po’ di voi stessi, lasciate tranquillo il sereno artista che vive nell’arte e per l’arte, canta la Natura e passa intatto e non curante in mezzo ai pettegolezzi del volgo ed alle ire de’ suoi avversari.

Chè i nostri nepoti, di questa triste pagina della letteratura contemporanea, non potranno altri incolpare se non l’insania vostra.

Catania, 7 Giugno 1881.

Federico de Roberto.