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deve sapere) comincio a porre in dubbio s’egli abbia mai letto il de rerum natura. Se sì, nel giudicare a quel modo la traduzione del Rapisardi, mostra che non l’ha compreso; se no, peggio per lui, ha detto una solenne sciocchezza, la quale non cela quella malignità ed invidiuzza che gli rodono il cervellino piccinino piccinino, fatto di stoppa inacquata nel siero.

Andiamo avanti. L’autore dell’Alcibiade e dei Pezzenti il signor Lodi lo chiama «il buon Cavallotti.». Non scorgete voi in quel «buon Cavallotti» una certa posa di benigna fraternità che il buon Lodi vuole assumere a dispetto della sua ignoranza barbogia? «Il buon Cavallotti!» L’aveva scritto Carducci accompagnandolo con un mio e con un bravo, stante l’amicizia che lega i due potenti poeti, e stante ancora quella superiorità che il poeta di Bologna può vantare sul Lombardo, e per l’età, e per l’ingegno; ma quando lo scrive il sigor Lodi colla sua arrogante piccineria di letterato da satira, mi vien proprio da ridere, proprio proprio.

E continua, sentitelo:

«Il Dies irae, l’Annunciazione sono due liri-