Piccolo mondo antico/Parte seconda/In fuga
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CAPITOLO XIII.
In fuga.
Alle due e mezzo dopo la mezzanotte Franco, l’avvocato V. e il loro amico Pedraglio erano seduti in loggia, al buio, in silenzio. A un tratto Pedraglio si alzò dicendo: «cosa fa questo asino?» uscì sulla terrazza, vi stette in ascolto e rientrò.
«Niente» diss’egli. «Disi mi, e per quell’asino che si sarà addormentato dobbiamo star qui da minchioni ad aspettare che ci prendano? Tu, Maironi, la strada presso a poco la sai e siamo poi anche in tre che abbiamo il fegato buono. Se occorrerà de dà via on quai cazzott el darèm via, neh ti avocàt?»
Il Pedraglio s’era trovato la sera prima, verso le sette, sulla strada fra Loveno e Menaggio nel luogo che chiamano «el crott del Bertin.» Un uomo gli aveva chiesto l’elemosina e posto in mano un biglietto. Poi si era allontanato rapidamente. Il biglietto diceva: «Perchè il Carlino Pedraj non valo mica subito a Oria a trovare il Signor Maironi e il signor avocatto di Varenna per fare una bella spasseggiata con gli amici cari da quel co di quel palo?». Dopo l’arresto del medico di Pellio, amico suo, Pedraglio era in sospetto di qualche tiro della Polizia, e quel biglietto non era il primo avviso salutare e sgrammaticato che pervenisse a un patriota. Il biglietto parlava chiaro; bisognava passar subito il palo del confine. Il Pedraglio non sapeva niente della disgrazia di Franco nè del suo ritorno nè che l’avvocato fosse a Oria ma non andò a cercar altro, corse a Loveno, si provvide di denaro e si pose in cammino. Non si fidò di venire a Porlezza, prese il sentiero che presso Tavordo sale per un vallone deserto al Passo Stretto. Agile come un camoscio, arrivò in quattr’ore a Oria, trovò che Franco e l’avvocato si preparavano a partire per un altro avvertimento misterioso pervenuto loro dal curato di Castello, ch’era stato a Porlezza e ne aveva ricevuto l’incarico in confessione. Ismaele doveva guidarli oltre il confine. I passi del Boglia erano guardatissimi. Ismaele si proponeva di passar fra il monte della Nave e Castello per calar poi nella valle, tagliar dritto all’Alpe di Castello sotto il Sasso Grande e di là scendere a Cadro, un’ora sopra Lugano.
Ma Ismaele doveva venire alle due e alle due e mezzo non s’era veduto ancora.
Anche Luisa era in piedi. Stava nell’alcova rammendando un paio di calze di Maria per metterle poi sul lettino dove aveva disposto le cosucce di Ombretta con la stessa cura di quando la piccina era viva. Non aveva voluto vedere nè l’avvocato nè Pedraglio. Dopo le smanie del funerale il suo dolore aveva ripreso quell’aspetto cupo che più dispiaceva al dottor Aliprandi. Non smaniava più, non parlava; pianto, non aveva mai. Il suo contegno con Franco era un contegno di pietà per l’uomo che l’amava e il cui affetto, la cui presenza le erano, malgrado lei stessa, indifferenti. Franco, sperando nell’impiego di cui gli aveva tenuto parola il suo direttore, aveva parlato di portar seco la famiglia a Torino. Lo zio, poveretto, era disposto anche a questo sacrificio ma Luisa aveva detto chiaro che piuttosto di allontanarsi dalla sua figliuola finirebbe nel lago come lei.
Franco, udita la proposta di partire senza Ismaele, si alzò e disse che andava a congedarsi da sua moglie. Nello stesso momento l’avvocato udì un passo nella strada. «Silenzio!» diss’egli. «È qui.» Franco uscì sulla terrazza. Qualcuno veniva infatti dalla parte di Albogasio. Franco attese che arrivasse sul sagrato e chiamò a mezza voce:
«Ismaele!»
«Sono io» rispose una voce che non era quella di Ismaele. «Sono il Prefetto. Vengo su.»
Il Prefetto? A quell’ora? Che poteva essere accaduto? Franco andò in cucina ad accendere un lume e discese le scale in fretta.
Passarono cinque minuti e gli amici non lo videro ricomparire. Capitò invece la moglie d’Ismaele a dire che suo marito si sentiva male e non poteva muoversi. Parlò dal sagrato a Pedraglio che stava sulla terrazza. Quegli corse a chiamar Franco. Lo trovò sulle scale che saliva col Prefetto. «La guida è ammalata» diss’egli, conoscendo il prete per un galantuomo. «Andiamo e non perdiamo tempo.» Franco gli rispose che subito non poteva venire e che lo precedessero. Come, non poteva venire? No, non poteva. Fece passare il prefetto in sala, chiamò l’avvocato, insistette con lui e con Pedraglio perchè partissero subito. Era successa una cosa straordinaria, doveva parlarne a sua moglie, non poteva dire che risoluzione prenderebbe. Gli amici protestarono che mai non l’avrebbero abbandonato. L’allegro Pedraglio, uso a spendere oltre i desideri di suo padre, osservò che alla peggio, a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buon mercato e più virtuosamente che a Torino e che ciò avrebbe consolato il suo «regiôr» «No no!» esclamò Franco. «Andate, andate! Prefetto, persuadili tu!» Ed entrò nell’alcova.
«Partite?» gli disse Luisa con quella voce che pareva venire da un mondo lontano. «Addio.» Egli le si avvicinò si chinò a baciar la calzettina che teneva in mano. «Luisa» mormorò, «c’è qui il Prefetto della Caravina.» Ella non mostrò alcuna sorpresa. «La nonna lo ha fatto chiamare stanotte» continuò Franco. «Gli ha detto di aver veduto la nostra Maria, luminosa come un angelo.»
«Oh, che menzogna!» fece Luisa con una voce grossa di disprezzo, senz’ira. «Come se fosse possibile che andasse da lei e non venisse da me!»
«Maria le ha toccato il cuore» riprese Franco. «Ella ci domanda perdono, ha paura di morire, mi supplica di andar da lei, di portarle una parola di pace anche per te.»
Neppure Franco credeva all’Apparizione, scettico profondamente com’era per tutto il soprannaturale non religioso, ma credeva che Maria, nella sua esistenza superiore, avesse già potuto operare un miracolo, toccar il cuore della nonna e ciò gli recava una commozione indicibile. Luisa restò di ghiaccio. Neppur s’irritò, come Franco temeva, all’idea di mandar un messaggio amorevole. «La nonna avrà paura dell’inferno» osservò con quella sua freddezza mortale. «L’inferno non c’è, tutto si riduce a un po’ di spavento, è una pena da niente, la subisca e poi muoia anche lei come si muore tutti e amen.» Franco intese che sarebbe stato inutile insistere. «Allora vado» diss’egli. Ella tacque.
«Non credo che potrò ripassar da casa, nel ritorno» riprese Franco. «Dovrò prendere la montagna.»
Nessuna risposta.
Il giovane disse sottovoce. «Luisa!» Rimprovero, dolore, passione: tutto questo era nel suo richiamo. Le mani di Luisa, che mai non avevano smesso il lavoro, si fermarono. Ella mormorò:
«Non sento più niente. Sono un sasso.»
Franco si sentì mancare, baciò sua moglie sui capelli, le disse addio, entrò nell’alcova, s’inginocchiò, abbracciò il lettuccio voto, pensò alla vocina del suo tesoro: «ancora un bacio, papà», ebbe un scoppio di pianto, si contenne, corse via precipitosamente.
Gli amici lo attendevano in sala impazienti. Come partire se non conoscevan le strade? L’avvocato conosceva la strada di Boglia, sì, ma era da prendere, volendo sfuggire alle guardie? Quando udirono che Franco intendeva andare a Cressogno rimasero sbalorditi. Pedraglio uscì dai gangheri, disse ch’era un’indegnità di piantar così gli amici nell’imbarazzo. Il Prefetto, udito come le cose stavano, s’unì a Pedraglio, offerse di giustificare Franco, gli propose di scrivere due parole ch’egli avrebbe portate a Cressogno. Ma Franco aveva l’idea che la sua Maria volesse da lui questa cosa e non cedette. Gli venne in mente che il Prefetto era pratico di tutti i sentieri come una lepre. «Va tu!» gli diss’egli. «Accompagnali tu!» Il Prefetto stava per rispondere che forse la marchesa potrebbe aver bisogno di lui, quando l’avvocato fece: «zitto! guardate».
Proprio davanti alla casa, dove l’ombra del monte Bisgnago si profilava sull’acqua ondulando, c’era una barca ferma. Franco riconobbe la lancia delle guardie di finanza.
«Scommetto che quei porci là ci fanno la guardia» mormorò Pedraglio. «Temono che si scappi in barca. Almeno spiano!»
«Zitto!» fece ancora l’avvocato affacciandosi alla finestra verso il sagrato.
Tutti tacquero, trattenendo il respiro.
«Fioeui!» disse V. scostandosi bruscamente dalla finestra: «Ghe semm!» Franco andò alla finestra, vide un uomo solo che veniva correndo, credette a un falso allarme; ma l’uomo, quel tale che portava il nomignolo di «lègora fügada» che vedeva e sapeva tutto, gli gittò, passando sotto la finestra, due parole: «La forza!» Si udirono in pari tempo i passi di molte persone. Franco esclamò «con me! anche tu, Prefetto!» Si slanciò, seguito da tutti, nel cortiletto ch’è tra la casa e il monte, raggiunse, passando per una legnaia, la scorciatoia che mette ad Albogasio Superiore. Faceva così scuro che nessuno si accorse di una guardia di finanza appostata con la carabina in pugno a due passi dall’uscio della legnaia. Per fortuna la guardia, certo Filippini di Busto, era un galantuomo che mangiava a malincuore il pane austriaco per non averne potuto trovare altro. «Presto!» diss’egli sottovoce. «Prendano i campi e poi la strada di Boglia! Il sentiero sotto il faggio della Madonnina, a sinistra!» Franco ringraziò quell’uomo, si avventò con i compagni sul ripido sentiero che mette alla stradicciuola comunale di Albogasio Superiore. Giunti a mezza via, saltarono tutti a destra in un campo di granturco e stettero in ascolto. Udirono passi sulla scaletta che sale dal sagrato e poi sul sentiero dov’era appostata la guardia. Evidentemente si voleva accertarsi che tutte le uscite fossero ben guardate. I quattro strisciarono subito via attraverso il granturco e giunti sotto lo scoglio che chiamano «Sass del Lori», tennero consiglio. Avrebbero potuto prendere il sentiero che monta sulla strada di Albogasio proprio alla porta del giardino Pasotti, e poi arrampicarsi di campo in campo fino alla strada di Boglia. Ma il sentiero era difficile a trovare a quell’ora; temendo perdere troppo tempo, prescelsero di raggiungere una scaletta che da Albogasio Inferiore sale presso alla casa Puttini. Quindi, girando a destra la casa Puttini, avrebbero raggiunto in due salti la strada di Boglia. Faceva già un po’ meno scuro; ciò era male per un verso ma era bene per cavarsela da quel labirinto di campicelli e di muricciuoli. Nessuno parlava. Il solo Pedraglio, qualchevolta, inciampando in un sasso o pungendosi in una siepe, tirava una maledizione meneghina. Allora gli altri zittivano. Arrivarono sulla scaletta preceduti dal Prefetto che saltava muri e siepi come uno scoiattolo. Quando furono tutti raccolti sulla scaletta Franco si staccò dal gruppo. Per la strada di Boglia non avevano bisogno di lui, egli andava a Cressogno. Invano Pedraglio lo afferrò per le braccia, invano il Prefetto lo supplicò di non esporsi a un arresto sicuro, magari all’ergastolo. Egli credeva obbedire alla voce di Maria, a un dovere di coscienza. Si strappò da Pedraglio e disparve su per la scaletta, non volendo andar a Cressogno per S. Mamette che sarebbe stato troppo pericoloso. «Avanti!» disse il Prefetto. «Quello là è matto, pensiamo a noi.»
Girando la casa del Puttini udirono gente che veniva loro incontro e ridiscesero. La porta di casa Puttini era aperta. Vi entrarono. La gente passò discorrendo. Erano contadini e uno diceva: «dovè diavol el va a st’ora chì?» Ahimè, hanno incontrato e riconosciuto Franco. Se i gendarmi e le guardie si mettono alla caccia dei fuggitivi e s’imbattono in quella gente, ecco che trovano una traccia. Sull’alba si trova sempre gente. Stavolta s’è potuta evitare; un’altra volta, forse, non si potrà; un altro incontro può riescir fatale all’avvocato e a Pedraglio come il primo riescirà probabilmente fatale a Franco. «Bisognerebbe che vi travestiste da contadini» dice il Prefetto. All’avvocato, che ha dell’artista e del poeta e conosce bene il Puttini, viene un’idea: pigliar gli abiti del sior Zacomo per il Pedraglio ch’è piccolo anche lui, pigliar per sè un vestito della serva ch’è grande e grossa, cacciar le spoglie proprie in una gerla, caricarsene le spalle e via per Boglia. Il primo deputato politico di Albogasio ha cento ragioni di andare nel bosco del comune. Detto fatto, salgon le scale e il Prefetto, ch’è pratico, va diritto a chiamare la Marianna. Costei non risponde; la sua camera è vuota. Il Prefetto indovina subito che la perfida servente è andata a S. Mamette per qualche negozio segreto, come quello dell’olio. Ecco perchè l’uscio di strada era aperto! Vanno in cucina, accendono due lumi, l’avvocato ne piglia uno e si fa insegnare la camera del sior Zacomo. Intanto Pedraglio esplora la cucina con l’altro lume, in cerca «de on quai diavol de bev» per pigliar fiato.
Il sior Zacomo dormiva in una stanza d’angolo oltre una sala che l’avvocato attraversò in punta di piedi camminando tra mucchi di castagne, di noci, di nocciuole e di pere. Egli si accosta all’uscio: è chiuso. Origlia: silenzio. Gira pian piano la maniglia e spinge. L’infame uscio scricchiola, si ode un formidabile soffio e il sior Zacomo dice rabbiosamente: «Andè! No sechè! andè via!». L’avvocato entrò senz’altro. «Via, maledeta, digo!», gridò il sior Zacomo, rizzando sul guanciale la punta bianca del suo berretto da notte. Veduto l'avvocato, si mise a gemere. «Oh Dio, oh Dio! povareto mi, La me perdoni per carità, credeva che fosse la servente! Avvocato distintissimo, in nome de Dio, cossa xe nato?» «Gnente gnente, sior Zacomo», fece l’avvocato contraffacendolo molto lombardamente col suo imperturbabile umorismo. «ghe xe qua, digo, ciò, el commissario de Porlezza....»
«Oh Dio!» Il sior Zacomo fece atto di gettar le gambe fuori del letto.
«Gnente, gnente, quieto quieto, soto soto. Andemo in Boglia, digo, ciò, per quel maledeto toro!»
«Oh Dio, cossa disela, che a sta stagion in Bolgia no ghe xe tori! Mi sudo tuto!» No fa gnente, andemo, digo, a veder el posto, ciò, dove ch’el gera. - Ma il signor Commissario «continuò il beffardo avvocato lasciando un linguaggio che troppo lo imbarazzava.» Le proibisce assolutamente di venire con noi, per le sue buone ragioni; Le proibisce di uscire prima del nostro ritorno e anzi mi ha ordinato di portarle via gli abiti.»
E si diede a raccogliere rapidamente gli abiti del sior Zacomo, gl’intimò il silenzio in nome del Commissario, pigliò il cappellone a cilindro, arruffò la mazza di canna d’India, ordinò al disgraziato di dare il chiavistello appena uscito lui e di non aprire a nessuno, di non parlare a nessuno prima del ritorno del Commissario e tutto in nome del signor Commissario. Poi, lasciatolo più morto che vivo, raggiunse i compagni che, fruga qua e fruga là, avevano scovato un lurido vestito della Marianna, un fazzolettone rosso, una gerla e una bottiglia di anesone triduo. «Accidenti!» fece l’avvocato, quando vide la roba immonda che doveva mettere. Il suo travestimento andava veramente male, la sottana era corta, il fazzolettone non gli nascondeva abbastanza la faccia, ma non c’era tempo di far meglio. Invece il Pedraglio, cappellone in testa e canna d’India in mano, riescì un sior Zacomo perfetto. L’avvocato gli fece prendere sotto l’ascella uno scartafaccio che trovò in cucina, gl’insegnò come doveva camminare e soffiare. Prese per ultimo le chiavi della cantina, due chiavi enormi, ne diede una al Pedraglio e una ne mise in tasca per due possibili pugni, uno in chiave di violino, disse, e l’altro in chiave di basso. E così uscirono, il Prefetto davanti, poi il finto sior Zacomo che soffiava come una macchina a vapore, poi la finta Marianna con la gerla. Appena furono in strada ecco spuntar la Marianna vera di ritorno da S. Mamette con un fiasco vuoto. Vista, tra il fosco e il chiaro, la tuba del padrone, diede volta e via a gambe.
«Brutta ladra!» fece il Prefetto. «Benone. Il travestimento va benone.» In cinque minuti furono sulla strada di Boglia. Il Prefetto ridiscese, udì persone che salivano da Albogasio Superiore discorrendo di gendarmi e di guardie, andò loro incontro, domandò che ci fosse di nuovo. Una bagatella. Polizia, gendarmi, soldati a casa Ribera per arrestare don Franco Maironi e pare anche l’avvocato V., perchè sapevano che ci doveva essere e hanno molto domandato di lui. Non hanno trovato nè l’uno nè l’altro benchè le guardie di finanza sieno state di piantone intorno alla casa fin dalla mezzanotte. Adesso la Polizia perquisisce tutte le case di Oria ritenendo che i due sieno scappati per il tetto. Mentre si danno queste informazioni al Prefetto ecco un ragazzo venir di corsa dalla parte di Albogasio Superiore. Lo fermano. «I gendarmi!» dice. «I gendarmi!» È pallido come un cencio lavato e scappa senza saper perchè, non gli si può cavare dove questi gendarmi sieno. Arriva una donna che si spiega meglio. Quattro guardie di finanza e quattro gendarmi sono passati in questo punto dalla piazza di Albogasio Superiore. Pare che don Franco sia stato veduto sulla strada di Castello. Due gendarmi e due guardie hanno preso la strada di Boglia. Il Prefetto rabbrividisce. «Già» dice qualcuno «La strada di Boglia per tagliargli il passo.» Questa è la speranza del Prefetto, che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco. Egli è tanto smilzo, tanto alto: nè il finto Puttini, nè la finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il loro destino è ormai fuori delle sue mani mentre per Franco egli può far molto ancora. Si incammina verso Cressogno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano e salvo se i gendarmi non ne trovano nuove tracce, perchè lo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menano al confine e non mai sulla via di Cressogno.
Pedraglio e l’avvocato fecero il primo tratto di strada, da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripidissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L’avvocato camminava in silenzio, l’altro malediceva continuamente, sotto voce, il suo vestiario, «el loder d’on cappell» che gl’invischiava la fronte d’unto, «el boia d’on marsinon» che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püs non incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì tra le stalle un momento dopo ch’eran passati, disse stupefatta: «sü per de chì, scior Giacom? A st’ora?» L’avvocato mormorò: «boffa!» e l’altro si mise a soffiar «apff! apff!» come un mantice. «Se perd el fiaa per sti strad chì, cara lü» disse la vecchia. Non incontrarono più nessuno fino alla Sostra.
La Sostra è una stalla a mezza montagna, circa, con un fienile, un portico e una cisterna, alquanto in disparte dalla strada. Quella strada è la più dannata che sia in Valsolda, farebbe cacciar la lingua a uno stambecco. Pedraglio e l’avvocato, trafelati, grondanti di sudore, entrarono un momento alla Sostra. Anche lì silenzio e deserto. A quell'altezza si respirava già un’aria diversa. E come tutte le cime all’intorno si erano abbassate! Come il lago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume! L’avvocato guardava su amorosamente alla prima cresta del Boglia dove cominciava il gran bosco di faggi; un’altra mezz’ora di arrampicata. «Andiamo» diss’egli. Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoria dell’altra gran corsa da Loveno ad Oria per il Passo Stretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tranquillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, un poema fratesco, inedito, d’un anonimo Cremonese del secolo decimosettimo. «Andiamo!» ripetè il suo compagno dopo un paio di minuti, e si alzava già quando udì venir gente. Ebbe appena il tempo di dire «attento!» e di voltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedraglio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntar sulla strada prima due guardie di finanza e poi due gendarmi. Avvertì l’amico sotto voce, non battè palpebra. Le due guardie si fermarono. Una di loro salutò: «riverito, signor Puttini» e disse ai gendarmi «è il primo deputato politico di Albogasio.» I gendarmi salutarono pure, Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scartafaccio. Le guardie volevano fare un po’ di fermata ma un gendarme intimò loro di proseguire e quando vide incamminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso. Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. «Tu, cane, non mi conosci, spero» pensò Pedraglio con una torbida coscienza della sua doppia personalità. «Lascia fare a me.»
«Signor deputato politico» disse colui «avrebbe veduto stamattina il signor Maironi di Oria?»
«Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest’ora.»
«E Lei dove va?
«Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì. Vado su per l’affar del toro comunale.»
«Bestia!» pensò l’avvocato. «Comunale me lo fa diventare!» Ma passò felicemente anche il toro comunale. Il gendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo interlocutore in viso. «Lei è deputato politico» diss’egli insolentemente «e porta quella roba sul viso?» Pedraglio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzo nero, barba reproba da liberale. «Taglieremo, taglieremo» diss’egli con serietà comica. «Sì signore. Va sul Boglia anche Lei?» Il gendarme se n’andò duro duro senza rispondergli, senza udire su quale ignominioso patibolo il deputato politico lo mandava.
I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bella ma riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio. Adesso bisognava contare con le guardie che conoscevano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quel mastino di gendarme parlasse della barba? «Su su» fece l’avvocato «teniamo loro dietro e se li vediamo o li udiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra verso il confine.» Partito disperato, quest’ultimo, perchè non conoscevano il terreno, certo famigliare alle guardie.
Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro a' suoi compagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedraglio e l’avvocato, salendo adagio, videro il nemico guadagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina, fermarvisi alquanto e sparire.
Il gran faggio antico che portava nel tronco una immagine della Madonna e che cedette, morendo, quest’onore a una cappelletta, era come la sentinella del gran bosco di Boglia, il soldato posto in una insellatura della cresta a spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda. Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto raccolto in un’alta conca silenziosa fra l’erta della Colmaregia, i facili dorsi della Nave, le radici rocciose dei Denti di Vecchia o Canne d’Organo e l’altra sella del Pian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande, fronteggiante la profondità della Val Colla da Lugano a Cadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggio della Madonnina e il bosco, sull’orlo della cresta. I due fuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prendere? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlato la guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nel bosco non conveniva, con quella selvaggina che vi era entrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo di foglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi correre addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vicino il travestimento non poteva servire. Prender il sentiero? Ce n’era più d’uno, sotto il faggio; qual era il buono? Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con loro. Invece l’avvocato studiava la Colmaregia che si poteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato due volte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erboso del Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sapeva ch’era possibile scendere di lassù al villaggio svizzero di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta che ascende dal faggio della Madonnina verso la Colmaregia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nelle nuvole.
Pochi passi sotto il faggio i due furono colti da un’ondata di nebbia che venuta su per un versante si riversava rapidamente per l’altro, una nebbia fredda e densa, un «Dio fece» disse V. Non si vedeva niente a cinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedraglio andò quasi a urtare una guardia di finanza.
Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliare la lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Visto l’ometto dal cappellone, fece: «In Boglia, signor....?». L’avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. Infatti la guardia non compiè la frase, restò un momento a bocca aperta, poi esclamò: «Come?». L’avvocato non aspettò altro. «Così» diss’egli, placidamente; e raccoltisi sul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello stomaco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gambe all’aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappò la carabina. «Se gridi, cane, ti brucio» diss’egli. Ma che gridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c’era, per un quarto d’ora, neanche da tirare il fiato. Infatti l’uomo pareva morto e ci volle del buono perchè arrivasse a gemer sottovoce «ahi, ahi!» «L’è niet, l’è nient» gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. «Sono scosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess al se drizza in pee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedrà come va bene. Non ho adoperato questo a posta.» E gli mostrò la chiave. «Oh che pugno!» gemeva la guardia. «Oh che razza di pugno!»
«La salita è un po’ maledetta» riprese l’avvocato pigliando la carabina dalle mani di Pedraglio. «Ma noi Le terremo su, con licenza, il di dietro con questo affare qui. A questa maniera si va su che l’è un piacere. Poi Lei viene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi. Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli polito? Andemm, marsch!»
Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non si poteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse a chiamar aiuto. «Mincion!» fece Pedraglio. «Ghet daa tropp fort!» V. rispose che gli aveva dato un pugno da donna, restituì la carabina all’amico e ghermita la guardia per il colletto dell’uniforme, la tirò in piedi, le fece imbracciare la gerla. «Andem, lizòn» diss’egli. «Poltronaccio, andiamo!»
Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L’erta è ripidissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra i ciuffi dell’erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi e di mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il nebbione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna, poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla, poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste e la urta con la carabina. La carabina fa miracoli. In mezz’ora i tre raggiungono la cresta che scende verso Brè, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedono sull’erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette a piovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, il rosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio, con un viva l’Italia! mentre scivola a braccetto della guardia. A Brè Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz’oncie alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il «marsinon» per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così:
A questo punto il Padre Lanternone
Disse: ho mutato ancor io opinione.
Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l’uniforme e indossare il «marsinon» fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l’avvocato. «E quel povero Maironi?» diss’egli.
Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all’ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz’aver incontrato nessuno.
Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c’era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poichè gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L’Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell’agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera.
Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide; udì solo la nota voce dormigliosa:
«Sei qui, Franco?»
«Sì, addio, nonna» diss’egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. «Muoio, sai, Franco» disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose:
«Non fa niente. Son pronta.»
Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent’anni. «Mi rincresce della tua disgrazia» diss’ella «e ti perdono tutto.»
Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo, il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un’ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere.
«Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto», diss’egli, «prima dell’ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera, lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda.»
Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benchè non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell’Apparizione e di certe parole del Prefetto che l’aveva confessata. «Farò testamento» diss’ella «e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te.»
Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il Prefetto perchè il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel’aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l’alto animo di Franco. A Franco l’idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. «No no» esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso «no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all’Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!»
La nonna non ebbe tempo di rispondere perchè fu picchiato all’uscio. Entro il Prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l’ammalata. «Bisogna sbrigarsi!» diss’egli, fuori. «Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all’altro. Ho combinato tutto coll’Aliprandi. L’Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c’è da parlare parla Carlino.»
L’idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell’Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell’aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma.
La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Nè Franco, nè il domestico, nè l’Aliprandi parlarono mai. Passarono S. Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. «No, cara» egli pensa «no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!» Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind’innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l’uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva nè sulla terrazza nè in giardinetto nè alle finestre della loggia, tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del «felze» lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev’essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all’approdo della Ricevitoria.
Il Biancòn, che sta pescando alle tinche con l’ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch’egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l’ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d’intenerimento. Marito e moglie eccitano l’Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: «Andiamo!» Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de’ suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia nè d’arresti nè di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall’approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia.
Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. «Quando verrà l’ora delle cannonate» disse l’Aliprandi «ci sarò anch’io.» Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perchè Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scese a terra, andò all’albergo della Corona.
Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi!
Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l’avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull’occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all’occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un’anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l’Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L’Hôtel du Parc era per lui l’ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: «ca l’è poeu quand ca ga disi:
Le trombe squillano
Nel gran salone
Ai suoni accordisi
Questa canzone.
Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. «Come?» diss’egli dopo l’incontro. «È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell’aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall’Intelvi, un’ode ca l’era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l’arrivo a Lugano, ca l’è poeu quand ca ga disi:
O baldi figli di Lombardia,
V’apre le braccia Lugano mia.
È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all’albergo.»
«Madonna!» fece Pedraglio.