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452 | parte ii - capitolo xiii |
infatti dalla parte di Albogasio. Franco attese che arrivasse sul sagrato e chiamò a mezza voce:
«Ismaele!»
«Sono io» rispose una voce che non era quella di Ismaele. «Sono il Prefetto. Vengo su.»
Il Prefetto? A quell’ora? Che poteva essere accaduto? Franco andò in cucina ad accendere un lume e discese le scale in fretta.
Passarono cinque minuti e gli amici non lo videro ricomparire. Capitò invece la moglie d’Ismaele a dire che suo marito si sentiva male e non poteva muoversi. Parlò dal sagrato a Pedraglio che stava sulla terrazza. Quegli corse a chiamar Franco. Lo trovò sulle scale che saliva col Prefetto. «La guida è ammalata» diss’egli, conoscendo il prete per un galantuomo. «Andiamo e non perdiamo tempo.» Franco gli rispose che subito non poteva venire e che lo precedessero. Come, non poteva venire? No, non poteva. Fece passare il prefetto in sala, chiamò l’avvocato, insistette con lui e con Pedraglio perchè partissero subito. Era successa una cosa straordinaria, doveva parlarne a sua moglie, non poteva dire che risoluzione prenderebbe. Gli amici protestarono che mai non l’avrebbero abbandonato. L’allegro Pedraglio, uso a spendere oltre i desideri di suo padre, osservò che alla peggio, a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buon mercato e più virtuosamente che a Torino e che ciò avrebbe consolato il suo «regiôr» «No no!» esclamò Franco. «Andate, an-