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470 | parte ii - capitolo xiii |
Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide; udì solo la nota voce dormigliosa:
«Sei qui, Franco?»
«Sì, addio, nonna» diss’egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. «Muoio, sai, Franco» disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose:
«Non fa niente. Son pronta.»
Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent’anni. «Mi rincresce della tua disgrazia» diss’ella «e ti perdono tutto.»
Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo, il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un’ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto