Pene d'amor perdute/Atto quinto
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ATTO QUINTO
SCENA I.
Un’altra parte della stessa.
Entrano Oloferne, sir Nataniele e Dull.
Ol. Satis quod sufficit.
Nat. Lodo Dio per voi, signore: i vostri discorsi a pranzo sono stati arguti e sentenziosi, piacevoli senza scurrilità, spiritosi senza affettazione, arditi senza impudenza, dotti senza pedanteria, e arcani senza empietà. Conversai quondam con un compagno del re, chiamato Don Adriano de Armado.
Ol. Novi hominem tanquam te: il suo umore è altero, il suo discorso perentorio, la sua lingua impura, il suo occhio ambizioso, il suo portamento risibile, e tutto il suo insieme pieno di stoltezza e di vanagloria. È poi troppo affettato e stringato, come potrei anche dire.
Nat. L’epiteto gli va a pennello.
Ol. Il filo della sua loquela è più bello che la catena dei suoi argomenti. Abborro quei bizzarri spiriti, quelle strane persone che mettono l’ortografia alla tortura, per dar un accento purgato alle parole. Ciò è abbominevole, è cosa ch’io non intendo: ne intelligis domine? pensandoci ne diverrei frenetico.
Nat. Laus Deo, bene intelligo.
Ol. Bone? bone per bene: è un far la critica a Prisciano: ma non importa. (entrano Armado, Moth e Costard)
Nat. Videsne quis venit?
Ol. Vedeo, et quadeo.
Ar. (a Moth.) Mariolo!
Ol. Quare mariolo e non mariuolo?
Arm. Gente di pace, siate i ben trovati.
Ol. Saluto militare è questo, signore.
Moth. (a Cost.) Hanno assistito a un gran banchetto di linguaggi, e ne han rapita la loro porzione.
Cost. Oh, essi son vissuti lungo tempo di avanzi di parole. Stupisco che il tuo padrone non ti abbia mangiato come una parola, perocchè tu non sei così lungo come honorificabilitudinitatibus: saresti stato più facile a trangugiar tu, che tante lettere insieme.
Moth. Taciamo, che essi cominciano.
Arm. Signore, (a Ol.) non siete voi un letterato?
Moth. Sì, sì; egli insegna ai fanciulli l’Abbicì. Che cosa fa a b preso al rovescio con un corno sulla testa?
Ol. Ba, pueritia coll’addizione di un corno.
Moth. Ba, stolta pecora, con un corno: voi apprendete qual è la sua scienza.
Ol. Quis quis, consonante che sei?
Moth. Son la terza delle vocali, se siete voi che le proferite, la quinta se io.
Ol. Vuo’ proferirle io A, E, I...
Moth. La pecora: le altre due concludono; O, U1.
Arm. Pei flutti salati del Mediterraneo! fu un bel lampo di spirito, esso mi rinfrescò l’intelletto: codesto è spirito vero.
Moth. Mostrato da un fanciullo ad un vecchio spiritato.
Cost. Se non avessi che un soldo, te lo darei perchè ti comprassi un po’ di pan pepato: tieni, ecco la rimunerazione stessa che ricevei dal tuo padrone, piccione di sagacità. Oh se il Cielo volesse che tu fossi soltanto un mio bastardo, faresti di me un padre glorioso! Va; tu avrai buono spirito fino nell’agonia.
Arm. Uomo di lettere, parliamo fra di noi. Non educate voi i giovani nella scuola privilegiata, che è sulla cima della montagna?
Ol. O mons!
Arm. Come vi piace, intorno alla denominazione.
Ol. Ebbene; che volevate dire?
Arm. Signore, è graziosissimo piacere del re di festeggiare la principessa nella sua tenda nella parte posteriore del dì, che il grossolano vulgo chiama dopo mezzogiorno.
Ol. La parte posteriore del dì, nobilissimo signore, è epiteto molto conveniente al dopo mezzogiorno. Tal parola è bene scelta, ve ne assicuro.
Arm. Signore, il re è un nobile gentiluomo, mio amico, posso dirvelo, mio buonissimo amico. Quanto a ciò, che vi è fra di noi, passiamovi sopra... ma vi prego di richiamare tutta la vostra scienza di uomo di Corte, e di pensare a quello che dovrete dire. Perocchè avete a sapere che piacerà a Sua Altezza di appoggiarsi qualche volta sulla mia umile spalla, e di accarezzare col suo dito reale la mia barba e i miei mostacchi: e il risultato è che... ma siate segreto... che il re vuol presentarmi alla principessa in mezzo a qualche spettacolo, scena dilettevole, o farsa, o fuoco d’artifizio. Per conseguenza avendo appreso che il curato e voi, mio caro, siete eccellenti per le subite eruzioni d’allegria, se pur così possono appellarsi, vi ho posti a parte di ciò per sollecitare la vostra assistenza.
Ol. Signore, dovete rappresentare dinanzi a loro i nove eroi. — Messer Nataniele, è quistione qui di qualche sollazzo, a cui si attenderà coll’assistenza nostra nella parte posteriore del giorno, per comando del re e di questo valente, illustre e dotto gentiluomo. — Io ho opinato che non v’era meglio da fare dei nove eroi.
Nat. Dove volete trovare gli uomini abbastanza degni per rappresentarli?
Ol. Giosuè voi stesso: io, o questo galante, Giuda Macabeo; il pastorello che abbiamo qui, a cagione delle sue membra, Pompeo il grande; il paggio, Ercole.
Arm. Perdono, signore, vi è un errore: questo paggio non può rappresentare quell’eroe, ei non è grande neppure come un terzo da sua clava.
Ol. Otterrò io udienza? Egli rappresenterà Ercole in minorità: il suo entrare e il suo escire saranno lo strangolamento di un serpente, ed io avrò un’apologia su tal proposito.
Moth. Eccellente trovato! Così se qualcuno degli spettatori fischia, potrebbe gridare: bene sta, Ercole, ora tu schiacci il serpente! È il mezzo di offendere con grazia, cosa che tanti pochi san fare.
Arm. E per gli altri eroi?
Ol. Ne rappresenterò tre io solo.
Moth. Triplice galantuomo.
Arm. Vi dirò ora una cosa.
Ol. Udiamo.
Arm. Se lo spettacolo non riuscisse, avremmo una gran contumelia.
Ol. Non temete di nulla. Perchè non hai detto una parola in tutto questo tempo, Dull?
Dull. Perchè non ne ho capito una di quelle che voi stessi avete proferite.
Ol. Reciterai anche tu una parte.
Dull. In una danza, o in qualche cosa di simile: suonerò, se volete, il tamburo, perchè ballino gli eroi.
Ol. Amabilissimo, onestissimo Dull, vieni dunque nosco. (escono)
SCENA II.
Un’altra parte della stessa, dinanzi al padiglione della Principessa.
Entrano la Principessa, Caterina, Rosalina e Maria.
Prin. Mie care amiche, noi sarem ricche prima della nostra partenza da questi luoghi, se i doni piovono sopra di noi cotanta profusione. Una signora tutta coperta di diamanti! Mirate che cosa ho ricevuto dall’amoroso re di Navarra.
Ros. Non vi era anche qualch’altra cosa, che accompagnava quei doni?
Prin. Sì, tanto amore in versi, quanto se ne può far capire in un foglio scritto da tutti i lati, e suggellato con un suggello che porta l’impronto di Cupido.
Ros. È il vero mezzo di far crescere2 la sua divinità quello di metterlo in cera. Perocchè son cinquemila anni che è fanciullo.
Cat. Ed un fanciullo scellerato anche.
Ros. Voi non sarete mai amici insieme, perchè ha uccisa vostra sorella.
Cat. Ei l’ha resa malinconica, trista, cogitabonda: se ella fosse stata leggiera, come siete voi, e di umore così gaio e incostante, avrebbe potuto diventar nonna prima di morire, come voi diverrete, perchè un cuor leggiero vive lungo tempo.
Ros. Che cosa v’intendete con questo leggero?
Cat. Un cuor leggero3 in una bellezza sicura.
Ros. Abbisogniamo di maggior luce per comprendere il vostro pensiero.
Cat. Estinguerete ogni luce, approssimandovi, e finirò di parlare fra le tenebre.
Ros. Pensate a far bene sempre quel che fate fra le tenebre.
Cat. Voi non ci pensate perchè siete una fanciulla leggera.
Ros. Infatti non peso quanto voi, ed ecco perchè sono leggera4.
Prin. Combatteste a meraviglia, ed è tempo di far pace. Rosalina, voi pure riceveste un dono. Chi ve lo mandò? e quale è?
Ros. Vorrei che lo conosceste. Se il mio volto fosse bello come il vostro, il mio dono sarebbe stato leggiadro del pari. Furono versi di Biron, che se parlassero il vero, farebbero di me una diva. Egli ha inteso di delinearmi il ritratto colla sua lettera.
Prin. V’è qualche somiglianza?
Ros. Molta nelle lettere, ma nessuna nell’elogio.
Prin. Bella come l’inchiostro? Che strana comparazione!
Cat. Bella come un gran B in un libro di cassa.
Ros. Badate ai pennelli! Ch’io non muoia vostra debitrice, mia aurea lettera. Piacesse a Dio che il vostro volto non fosse così pieno di O!
Cat. Il vaiuolo vi compensi di questo scherzo: maledico le femmine malvagie.
Prin. Ma qual’è il dono che vi mandò il bel Dumain?
Cat. Questo guanto, signora.
Prin. Non ve ne mandò almeno due?
Cat. Sì, signora, e di più alcune migliaia di versi d’un fedele amatore: mostruosa ipocrisia, bestialità perfetta!
Mar. Questa lettera e queste perle furono inviate a me da Longueville; la lettera è più lunga di quello che dovrebb’essere, almeno un mezzo miglio.
Prin. Io pur lo credo: ma non desiderereste voi che il vezzo delle perle fosse più lungo, e la lettera più corta?
Mar. Sì, e che queste mani congiunte non potessero mai separarsi.
Prin. Noi siamo fanciulle ben savie a farci beffe così dei nostri amanti.
Ros. Essi son ben più pazzi, assoggettandosi ai nostri scherzi. Vuo’ mettere quel Biron alla tortura prima di lasciare questa Corte. Quanto pagherei ad averlo soggetto solo una settimana! Vorrei farlo strisciare, supplicare, sollecitare, aspettar l’occasione favorevole, e spendere il suo prodigo stile in sterili rime, conformandosi agli ordini miei assoluti, superba di divenire anche l’oggetto de’ miei sarcasmi.
Prin. Non vi sono nomini più goffi dei così detti belli spiriti, ogni qual volta si siano innamorati: la follìa nata dal seno della saviezza, s’arma di tutta la sua autorità, e del soccorso della scienza: e i doni dello spirito non servono che a farla vieppiù risaltare.
Ros. Il sangue della gioventù non s’infiamma mai tanto come quello de’ vecchi, che disertano la ragione, per abbandonarsi ad amori insensati.
Mar. La pazzia non ha nei pazzi così grande energia, quanta n’ha nei savii, che presi si sentono da una subita passione. Tutte le loro facoltà degenerano per troppo spirito in bestialità e demenza. (entra Boyet)
Prin. Viene Boyet, e il suo volto è pieno d’allegria.
Boy. Oh! io non posso frenare le risa. Dov’è Sua Altezza?
Prin. Che v’è di nuovo, Boyet?
Boy. Apparecchiatevi, signora, e voi tutte... alle armi, alle armi! Vengono innalzate batterie contro la vostra pace. L’amore s’avanza di soppiatto per sorprendervi, onde passate in rivista tutte le forze de’ vostri spiriti, accingetevi a fare una bella difesa, se il cuore vi manca a ciò, nascondetevi vilmente, e fuggite presto.
Prin. Opporremo san Dionigi a san Cupido. Chi sono i nemici che vengono per aggredirci? Parlate, parlate.
Boy. Volevo dormire un poco all’ombra d’un bel platano, allorchè vidi avanzarsi alla mia volta il re e i suoi compagni, che senza avermi veduto parlavano di venir qui travestiti, mandando innanzi pel parco un vago furfante, che ha ben appresa a memoria la sua ambasceria. Essi han fatta la lezione a colui non che sulle parole, sui gesti e sull’accento con cui le deve proferire: «ecco quello che le dirai» dicevano essi; «ed ecco qual dev’essere il tuo contegno»; e nondimeno temevan molto, che la presenza della principessa non valesse a turbarlo, perchè, soggiungeva il re: «è un angelo che vedrai; nondimeno non tremare: ma parla con sicurezza». Il paggio ha risposto: «un angelo non è cattivo; avrei paura se fosse un diavolo». A tal risposta tutti si son posti a ridere, ispirando coi loro elogi anche maggior arditezza a quel piccolo audace. Uno si fregava il gomito e ghignava; l’altro gridava: «coraggio, arriveremo al nostro termine». Un terzo saltellava dicendo: tutto va bene; un quarto si raggirava intorno a se medesimo e cadeva; e quindi andavano tutti per terra fra risa così immoderate, che le lagrime vennero agli occhi di molti volendole reprimere.
Prin. Ma che? Vengono essi forse a visitarci?
Boy. Sì, signora, e vengono vestiti da Moscoviti o da Russi, coll’intenzione di farvi bei complementi, di corteggiarvi, e di danzar con voi, e ognuno d’essi dichiarerà il suo amore all’amata sua, che riconoscerà dai doni già mandati.
Prin. È tale il loro disegno? Renderem loro pan per focaccia. Bisogna, signore, che ci mascheriamo tutte, e che non concediamo a nessuno d’essi, in onta delle preghiere che potessero indirizzarci, il favore di vedere un solo dei nostri visi. — Prendete, Rosalina; voi porterete questo dono; e allora il re deluso vi amoreggierà credendo di favellare alla sua dama. Prendetelo, e datemi il vostro, onde Biron mi creda voi. Mutate tutti i vostri nastri, e i vostri gioielli, e così la commedia sarà completa.
Cat. Ma quale in ciò è il vostro scopo?
Prin. Il mio disegno è d’attraversare il loro. Quello ch’essi fanno non è che uno scherzo, ed io voglio ingannare gl’ingannatori. Essi riveleranno i loro segreti a quelle che crederanno loro amanti, e poscia, alla prima occasione che avremo di rivederli a viso scoperto, ci faremo beffe delle loro parole.
Ros. Ma danzeremo noi se c’invitano?
Prin. No, non ci muoveremo, non risponderemo una sola parola di ringraziamento ai loro discorsi, e volgeremo altrove il volto, mentr’essi parleranno.
Boy. Tal disprezzo gli avvilirà.
Prin. È quello che voglio; e non desidero che di confonderli; non v’ha nulla di più piacevole che un parlatore, che si ferma a metà, perchè non sa cosa aggiungere: il disegno ch’essi avevano di sollazzarsi con noi, sarà volto a ritroso. Noi rideremo anche per loro, ed essi, vedendosi scherniti, se ne ritorneranno nella massima confusione. (s’odono squilli di trombe)
Boy. Suonano le trombe; mascheratevi, perchè giungono i Moscoviti. (le signore si mascherano: entrano il Re, Biron, Longueville e Dumain, vestiti da Russi e mascherati; Moth, musici e seguito)
Moth, Salute, bellezze le più fiorenti della terra: eletta brigata delle più leggiadre dame che mai volgessero il loro (le signore gli volgono le spalle)... dorso ad occhi mortali.
Bir. (riprendendolo) Il loro volto, miserabile, il loro volto.
Moth. Che mai volgessero il loro volto ad occhi mortali. Mercè... il vostro favore accordateci, celesti spiriti, di non guardarci...
Bir. Di guardarci una volla almeno, insensato.
Moth. Di guardarci una volta almeno coi vostri occhi soliferi... coi vostri soliferi occhi...
Boy. Essi non risponderanno a tale epiteto: faresti meglio a dire coi loro occhi da fanciulle.
Moth. Ah non m’ascoltano, e ciò mi confonde.
Bir. È questo quello che sapevi fare? Vattene, furfante.
Ros. Che vogliono questi stranieri? Chiedetelo loro, Boyet. Se parlano la nostra lingua, avremo piacere d’udire le loro intenzioni. Domandate quello che vogliono.
Boy. Che volete dalla principessa?
Bir. Nulla, tranne pace, e l’onore di visitarla.
Ros. Ebbene, cosa vogliono?
Boy. Nulla, fuorchè la pace e l’onore di visitarvi.
Ros. Tutto ciò è stato loro concesso; dite dunque che se ne vadano.
Boy. Ella dice che avete ottenuto ciò che chiedevate, e che potete andarvene.
Re. Avvertitela che abbiam percorse molte miglia per danzar un istante con lei sopra questo praticello!
Boy. Avete udito quello ch’han detto?
Ros. Chiedete loro quanti passi occorrono a fare un miglio, se n’han percorsi tanti.
Bir. I passi noiosi non si contano, e male sapremmo dirvelo, come male sapremmo significarvi le pene che abbiamo sofferte per voi. L’estensione del nostro zelo rispettoso è così grande, così inesauribile, che misurarlo non si potrebbe. Accordateci il favore di vedere il brillante sole del vostro viso, onde come gl’Indiani possiamo prostrarci e adorarlo.
Ros. Il mio viso non è che una luna annuvolata.
Re. Benedette quelle nubi che la cuoprono! Degnatevi, fulgida luna, e voi amabili stelle che la seguitate, dissipare quelle nubi, e volgere i vostri raggi sui bagnati occhi nostri.
Ros. Oh frivola inchiesta! Domandate qualche cosa di meglio. Quello che chiedete, non è che un raggio di luna in un pozzo.
Re. Ebbene, vogliate danzar nosco, se di tanto vi piace graziarci.
Ros. Cominci la musica; bisogna contentarli. (s’ode la musica) Ma no, io non danzo: io sono mutabile come la luna.
Re. Non volete danzare? Perchè vi siete cambiata?
Ros. Era plenilunio, ora cambia fase.
Re. Ma è sempre però la luna, ed io sono il suo adoratore. Udite che bella musica: vogliate accompagnarla.
Ros. Le nostre orecchie l’accompagnano.
Re. Ma i vostri piedi dovrebbero farlo.
Ros. Poichè siete stranieri, e veniste qui per caso, non sarem tanto sofistiche, prendete le nostre mani... ma non per danzare.
Re. Per che dunque?
Ros. Per separarci amichevolmente. Buon giorno, signori: io m’accomiato da voi.
Re. Di grazia, rimanete anche un poco, non siate così crudele.
Ros. Non sapremmo che altro dirvi.
Re. Istruitene a qual prezzo si può comprare l’onore della vostra compagnia. Se rifiutate di danzare, accordateci almeno la grazia di un più lungo colloquio.
Ros. In segreto, se lo volete.
Re. Non ne sarò che più contento. (conversano in disparte)
Bir. Signora dalle bianche mani, una dolce parola da te.
Prin. Miele, latte, e zucchero; eccone tre: dicendovi addio, direi la quarta.
Bir. Una parola in segreto.
Prin. Purchè non sa dolce.
Bir. Tu accendi la mia bile.
Prin. Bile? È cosa amara.
Bir. Dunque si addice al proposito. (conversano in disparte)
Dum. Volete farmi grazia di cambiar meco un detto?
Mar. Parlate.
Dum. Bella donzella!
Mar. È questo? Bel signore... eccovi per la vostra bella donzella.
Dum. Udite un’altra parola; udite un addio. (convers. in disp.)
Cat. La vostra maschera vi rende dunque senza lingua?
Long. So perchè mi fate tale inchiesta.
Cat. Oh udiamo! Presto, signore: desidero di apprenderlo.
Long. Voi avete una doppia lingua nella vostra maschera, e dovreste cederne una metà a me, che ne son senza.
Cat. Non vuo’ far a metà di nulla con voi: trovatevi chi sia più compiacente.
Long. Perchè sarete così inflessibile, bella e virtuosa signora? Abbiatemi pietà, se non volete ch’io muoia.
Cat. Se vi sentite voglia di morire, vi pregherò di andare un po’ lontano di qui. (favellando in disparte)
Boy. La lingua delle fanciulle maligne è tagliente come i rasoi: essa varrebbe a squarciare un impercettibile capello. L’arguzia dei loro detti è al disopra d’ogni concezione, i dardi loro van più rapidi delle palle, del vento, del pensiero, e di tutto ciò ancora che vi è di più celere nel mondo.
Ros. Non una parola di più, mie care; rompiamo, rompiamo i colloqui.
Bir. Pel Cielo! ci tocca di partire colla gola secca, e con insulti agli orecchi.
Re. Addio, pazze fanciulle: i vostri spiriti sono ben semplici. (esce coi signori, Moth, i musici, e il seguito)
Prin. Venti volte addio, miei gelidi Moscoviti. — Son quelli gli uomini di spirito così decantati?
Boy. Sono deboli torcie che il vostro dolce alito ha spente.
Ros. Spiriti grossolani, e pieni di torpedine.
Prin. Misero intelletto, per essere intelletto di un re! Miseri scherzi! Credete che non si appiccheranno questa notte per disperazione? O che osino ritornarci innanzi smascherati? Quel Biron che si dice così ingegnoso non sapeva più che rispondere.
Ros. Oh, erano tutti nella più deplorabile condizione! Una parola di più, e il re si poneva a piangere.
Prin. Biron giurava senza sapere cosa dicesse.
Mar. Dumain e la sua spada erano al mio servigio: ma io rifiutai ed egli ammutolì.
Cat. Longueville mi disse ch’io avevo domato il suo cuore, e sapete come mi chiamò?
Prin. Sua dolce tiranna forse.
Cat. Sì, in verità.
Prin. Vattene dunque, tiranna.
Ros. Andiamo; si sarebbe trovato più spinto in persone del volgo. Il re però si dichiarò mio amante.
Prin. E Biron impegnò a me la sua fede.
Cat, Longueville affermò che era nato per servirmi.
Mar. Dumain mi è fido come la scorza all’albero.
Boy. Signora, e voi, vaghe donzelle, ascoltatemi; essi stanno per ritornare qui senza le maschere, perchè non è possibile che vogliano tollerare così fatto affronto.
Prin. Ritorneranno qui?
Boy. Certamente, e li vedrete saltar di gioia, sebbene gli abbiate resi zoppi coi vostri colpi. Mutate dunque le maschere, e quando giungono spiegate tutti i vostri profumi, come rose al soffio dell’estate.
Prin. Che cosa intendete dire con ciò? Spiegatevi.
Boy. Belle signore mascherate son come rose nel loro primo bottone. Smascherate, e mostranti i loro dolci volti, sono angeli esciti dalle nubi, o rose fiorenti.
Prin. Lasciate queste imagini, e diteci quel che faremo, se ritornano a vagheggiarne?
Ros. Mia cara principessa, se volete lasciarvi guidare dai miei consigli, beffiamoli smascherate, come beffati gli abbiamo mentre eravamo coperte in viso. Lamentiamoci con loro perchè son venuti qui certi pazzi travestiti da Moscoviti, e fingiamo meraviglia per quegli avventurieri, per lo scopo della loro stolta visita, del loro ridicolo prologo, e di tutto il loro procedere.
Boy. Ritiratevi signore, chè i galanti sopraggiungono.
Prin. Corriamo alle nostre tende, come capriuole fuggenti per la pianura. (esce con Ros., Cat. e Mar.; entrano il Re, Biron, Longueville e Dumain vestiti dei loro abiti consueti)
Re. Iddio vi salvi, bel sere! Dov’è la Principessa?
Boy. È andata nella sua tenda. Vostra Maestà ha qualche ordine da darmi per lei?
Re. Ditele che la prego di concedermi un minuto di udienza.
Boy. Lo farò signore, e son sicuro che essa vi renderà pago. (esce)
Bir. Quell’uomo fa pompa d’ingegno, ch’egli pone in mostra di tratto in tratto, e, rubatore dei bei motti altrui, rivende la sua derrata alla vigilia delle feste nelle assemblee, nei mercati, e nelle fiere, mentre noi, che all’ingrosso la spacciamo, non traiamo neppure un quinto del profitto che egli ne ricava. Colui fa fortuna colle donne, e dalla nostra avola Eva in poi tutte le avrebbe sedotte con quelle belle maniere che il fragile sesso in lui trova. Egli canta con grazia, e nell’arte delle cerimonie non ha chi lo vinca. Le signore lo chiamano mio cuore, e la terra gli sorride sotto i piedi. Chi non vuol essere disgraziato del sesso gentile è costretto a fargli omaggio, e a chiamarlo il Boyet della lingua di miele.
Re. Che recisa gli sia quella lingua, e gliel’auguro di cuore, perchè fu esso che confuse il paggio di Armado. (entrano la Principessa preceduta da Boyet, Rosalina, Maria, Caterina e seguito)
Bir. Mirate, esse vengono! Oh arte del vivere, qual eri tu prima che quel uomo nascesse? e quale sei ora?
Re. Salute, dolce signora, e lieti giorni: siam venuti a visitarvi, e ci proponiamo di condurvi alla nostra Corte, se accordar ci volete tal favore.
Prin. Non escirò da questo parco, e voi pensate ad osservare il vostro voto. Nè Dio, nè me amiamo gli uomini spergiuri.
Re. Non mi fate delitto di una cosa, di cui voi siete cagione. È la virtù dei vostri occhi che mi fa violare il mio giuramento.
Prin. Voi chiamate virtù, quello che dovreste appellar vizio, perchè non mai la virtù fece conculcare voti sacri. Pel mio verginale onore, così puro ancora, come i gigli che niuna mano ha profanato, protesto che quand’anche mi si facessero soffrire le più orribili torture, non acconsentirei mai ad accettare un asilo nel vostro palagio, tanto abborro di esser cagione che si manchi a giuramenti fatti al Cielo, con tutta la sincerità del cuore!
Re. Ma voi conduceste qui una vita solitaria e trista, senza veder nessuno, senz’essere da nessuno visitata, e ciò torna in disdoro per noi.
Prin. No, signore, non lo crediate. Avemmo qui sollazzi piacevolissimi. Non è molto ancora che una compagnia di Russi venne a salutarci.
Re. Di Russi, signora?
Prin. In verità, e uomini pieni di galanteria, e di pulitezza.
Ros. Principessa, dite il vero. Tale ritratto non somiglia a coloro; per cortesia voi fate ad essi un elogio che non meritano: è ben vero che intrattenute fummo per un’ora da quattro galanti vestiti alla russa, ma in tutta quell’ora non potemmo udir da essi una sola parola sennata, o graziosa. Non oserei chiamarli pazzi, solo per non proferirena verità troppo spiacevole.
Bir. Tal frizzo mi entra nel cuore. — Mia cara, lo spirito vostro volge la saviezza in follìa: allorchè i nostri sguardi intendono affissarsi nell’occhio del cielo, noi perdiam la vista: il vostro talento è splendido al pari di quel lume, e contro alla vostra saviezza la saviezza altrui non sembra che demenza, come quanto v’ha di più ricco non sembra che povero.
Ros. Quello che dite annunzia che siete ricco e saggio: ma ai miei occhi...
Bir. Sono un pazzo: non è vero?
Ros. Se non fosse che prendete quello che vi appartiene, disdicevole sarebbe che mi strappaste le parole di bocca.
Bir, Ma io son tutto vostro, con tutto quello che possiedo.
Ros. Un pazzo tutto intero sarà per me?
Bir. Di meno non so darvi.
Ros. Qual maschera portavate voi?
Bir. Dove? Quando? Qual maschera? Perchè mi chiedete ciò?
Ros. Eh! Dianzi, dianzi: con quella maschera che mostrava un bel volto e ne nascondeva un brutto.
Re. Siamo scoperti, ed esse si befferanno di noi.
Dum. Confessiam tutto, e volgiam la cosa in riso.
Prin. Siete confusi signori? Perchè Vostra Altezza si compone a tanta gravità?
Ros. Aiuto, portate un po’ d’aceto; perchè impallidite? Il mal di mare forse, venendo voi dalla Moscovia?
Bir. Le stelle piovono su di noi le calamità per punirci del nostro spergiuro; più non posso resistere. Eccomi in preda ai vostri sarcasmi, bella signora: spiegate su di me tutto il vostro spirito; schiacciatemi coi vostri oltraggi, coi vostri schemi, fatemi in brani coi vostri epigrammi. Ah! non verrò più a pregarvi di danzare, non verrò più a vagheggiarvi vestito da Russo. No, non mi fiderò più nei discorsi studiati, nè nella scienza di un paggio: non esprimerò più il mio amore con figure pedantesche e ricercate, con iperboli strane. Fumi di vanagloria, che ora ripudio, mi avevano offuscato l’intelletto, ma ora dichiaro per quel bianco guanto, che nasconde una mano, chi sa quanto più bianca, che per l’avvenire, amoreggiando, l’espressione dei miei sentimenti sarà esposta coi sì, o coi no, i più semplici, e per cominciare la mia riforma, così Iddio mi assista, dico: che il mio amore, cioè per voi, è fermo e costante, e della tempera più pura e più salda.
Ros. Senza salda, vi prego.
Bir. Incorro ancora un po’ nell’esagerato, ma vogliate compatirmi, chè da tal malattia a poco a poco risanerò. Aspettate. Questi signori intanto son tutti, come me, infetti di mal di cuore, specie di dolce peste, che hanno in loro propagato i vostri occhi. Essi sono visitati dalla collera del Cielo, da cui voi pure non siete esenti, signore, se giudicarlo mi lice dai vostri volti.
Prin. Quelli che rimasero inceppati da noi, saranno da noi sciolti.
Bir. Siamo uomini perduti: non vogliate del tutto precipitarci.
Re. Insegnateci, bella principessa, qualche bella apologia, per la nostra grave offesa.
Prin. La più bella apologia è il confessarla. Non eravate voi qui dianzi travestiti?
Re. Io vi era, signora.
Prin. E riceveste una buona lezione?
Re. Sì, bella signora.
Prin. E quando eravate qui, che cosa mormoraste all’orecchio della vostra donna?
Re. Ch’io la rispettava sopra ogni altra cosa.
Prin. Ma quando ella vi dirà di confermarlo, voi lo negherete.
Re. No, sul mio onore.
Prin. Tacete, tacete: dopo un giuramento violato non vi farete alcun scrupolo di violarne un altro.
Re. Disprezzatemi se io manco a questo giuramento.
Prin. Vi disprezzerò, siatene sicuro. — Rosalina, che cosa susurrava il Russo nelle vostre orecchie?
Ros. Mi giurava, signora, ch’io gli ero cara e preziosa come la pupilla dei suoi occhi: mi dichiarava superiore ad ogni altra cosa di questo mondo, aggiungendo che mi avrebbe sposata, o che sarebbe morto mio amante.
Prin. Iddio ti conforti! Il nobile principe mantiene assai bene la sua parola.
Re. Che volete voi dire? Per la mia vita, per la mia fede, non feci mai tal giuramento a quella fanciulla!
Ros. Pel Cielo! lo faceste, e per confermarlo mi offriste questo dono; ma riprendetevelo, signore.
Re. Questo dono lo feci alla principessa, ch’io ben conobbi dai gioielli che portava intorno al collo.
Prin. Perdonatemi, signore, era essa che aveva quel gioielli, e monsieur Biron, ne lo ringrazio, è il mio amante. — Ebbene, Biron, mi volete, o vi debbo restituire la vostra perla?
Bir. Nè l’uno, nè l’altro: entrambe cose vi lascio. Ora indovino tutto. Qui vi fu una trama, e prevenute del nostro assalto, prendeste gli opportuni concerti per renderne tutti goffi. Qualche tristo, qualche cianciatore, qualche spia, qualche insulso buffone, qualche parassita, a cui il troppo ridere ha aggrinzite le gote, vi svelò il nostro disegno, e per tale avviso vi cambiaste le maschere perchè noi vagheggiassimo soltanto sembianze ingannevoli. Ora per aggravare il nostro spergiuro, spergiuri diventiamo di nuovo: la prima volta con colpa nostra, e questa eventualmente. Ma basta su di ciò. — Però, se foste voi signora, (a Boy.) che palesaste il nostro segreto, non pensaste che tal mestiere era disdicevole. Voi riempiste una parte indegna e codarda, che vi pone al disotto d’ogni nostro rimprovero. Il vostro guardarmi bieco a nulla vi giova, ma anche una volta, ho finito, ed ecco chi viene a proposito per impedire una disputa. (entra Costard)
Cost. Oh mio Dio! signore: essi vorrebbero sapere se i tre eroi verranno o no.
Bir. Son forse solo in tre?
Cost. No, signore, ma ciò è molto bello, perchè ognuno ne rappresenta tre.
Bir. E tre volte tre fanno nove. Sei anche tu uno degli eroi?
Cost. È piaciuto loro di credermi degno di rappresentare Pompione il Grande, e quantunque io non conosca il merito di quel valentuomo, debbo pure raffigurarlo.
Bir. Va a dir loro di apparecchiarsi.
Cost. Vedrete che la cosa riescirà a dovere e che ne sarete contenti. (esce)
Re. Biron, costoro ne disonoreranno... fa che non vengano.
Bir. Siamo a prova di vergogna, mio principe, e vi è politica nell’avere uno spettacolo più cattivo di quello, che sa dare un re co’ suoi cortigiani.
Re. Fa che non vengano.
Prin. No, mio buon signore, lasciatevi ora consigliare da me. Spesso una rappresentazione piace tanto più, quanto meno gli attori conoscono i mezzi di piacere. Allorchè lo zelo si sforza per contentare gli spettatori, e il dramma finisce a metà, allora la ridicola confusione che ne nasce ispira allegria, e si prova più duetto che di una produzione ben eseguita.
Bir. Ecco una giusta descrizione della nostra mascherata. (entra Armado)
Arm. Unto del Signore, io imploro dal vostro real alito tanto tempo, quanto ne occorre per proferir un paio di parole. (conversa col re, e gli consegna un foglio)
Prin. Quell’uomo serv’egli Iddio?
Bir. Perchè lo chiedete?
Prin Perchè non parla come gli uomini che Dio ha creati.
Arm. È lo stesso, mio bello, mio dolce e grazioso monarca: perchè io protesto che il maestro di scuola è troppo fantastico, troppo vano: ma noi ci avventureremo, come suol dirsi, alla fortuna della guerra. Vi auguro la pace del cuore, mia real coppia.
Re. Vi è a scommettere che avremo una bella rappresentazione d’eroi. Egli fa da Ettore; il bifolco da Pompeo il Grande: il curato da Alessandro; il paggio da Ercole, e il pedante da Giuda Macabeo: se questi quattro eroi poi riescono in principio nella loro parte, muteranno di abiti, e rappresenteranno i cinque altri.
Bir. Ve ne son cinque nella prima mostra.
Re. No, v’ingannate.
Bir. Il pedante, il millantatore, il curato, il pazzo e il paggio... il mondo intero non potrebbe somministrare altri cinque originali simili a questi.
Re. Il vascello è alla vela, ed esso vuole approdare. (vengono recate sedie pel re, la principessa ecc. Spettacolo dei nove eroi. Entra Costard armato e rappresentante Pompeo)
Cost. «Io sono Pompeo...»
Boy. Mentite, non lo siete.
Cost. «Io sono Pompeo...»
Boy. Con una testa di leopardo sulle ginocchia.
Bir. Ben detto, vecchio buffone: bisogna che mi riconcilii con te.
Cost. «Io sono Pompeo, Pompeo soprannominato il Grosso...»
Dum. Il Grande.
Cost. Il Grande, è vero, signore. — «Pompeo soprannominato il Grande; e spesso nei campi di battaglia, col mio scudo e la mia spada, ho fatto sudare i miei nemici. Viaggiando lungo questa riva, son venuto qui a caso, e depongo le mie armi dinanzi alle gambe di questa bella donzella di Francia». — Se Vossignoria (alla principessa) volesse dire: grazie, Pompeo; io avrei finito.
Prin. Grazie, gran Pompeo.
Cost. Non meritavo tanto, ma credo di essermi ben portato: non feci che un piccolo errore sulla parola Grande.
Bir. Il mio cappello contro un mezzo soldo, che Pompeo è il migliore degli eroi. (entra Nataniele armato da Alessandro)
Nat. «Quand’io vissi nel mondo, al mondo imperai: stesi le mie conquiste a oriente e a occidente, al nord e al mezzodì: gli stemmi miei dichiarano abbastanza ch’io sono Alisandro».
Boy. Il vostro naso dice di no che nol siete, perchè sta troppo dritto.
Bir. Il vostro naso dice di no, mio cavaliere dall’alito delicato.
Prin. Il conquistatore è atterrato: continuate, buon Alessandro.
Nat Quando vissi nel mondo, al mondo imperai...
Boy. Nulla è più vero, Alessandro.
Bir. Pompeo il Grande...
Cost, Vostro servo e Costard.
Bir. Porta via il conquistatore, porta via Alisandro.
Cost Ah signore (a Nat.), voi avete fatto fare una figura risibile ad Alisandro il Conquistatore, e sarete perciò spogliato del vostro abito e del vostro leone che sarà dato a un migliore attore. Fu mai visto un monarca che tremasse a parlare! Correte via per pietà, Alisandro. (Nat. esce) Per dir il vero è un buon uomo; imbelle, ma onesto, e che si lascia tosto persuadere, come vedete. Un eccellente vicino e un ottimo giuocatore di palle. Ma per Alisandro, oimè! egli vi era poco adatto. — Ecco però altri eroi che spiegheranno meglio i loro pensieri.
Prin. Fatti in disparte, ottimo Pompeo. (entra Oloferne vestito da Giuda, e Moth da Ercole)
Ol. Il grand’Ercole è rappresentato da quel bamboccio, egli la di cui clava uccise Cerbero, quel canus dalle tre teste; e che quand’era ancora pigmeo, fanciulletto, strangolava i serpenti colle sue manus: quoniam, egli apparisce qui nella sua minorità; ergo io feci per lui questa scusa. — Conserva un po’ di dignità nel tuo exit, e svanisci. (Moth esce)
Ol. «Giuda io sono...»
Dum. Un Giuda!
Ol. Non l’Iscarioto, signore. — Giuda io sono il Macabeo.
Dum. Ogni Giuda è un Giuda.
Bir. È un uomo che dà baci da traditore. Come sei tu Giuda?
Ol. «Giuda io sono...»
Dum. Onta a te, Giuda.
Ol. Che volete voi dire, signore?
Boy. Che dovresti appenderti, sendo Giuda.
Ol. Datemene l’esempio.
Bir. Tocca a te, Boyet.
Ol. Non mi lascierò abbattere.
Bir. Perchè non sei uomo.
Ol. Che volete voi dire?
Boy. Che hai una testa di piombo.
Bir. La testa di un morto scolpita in un anello.
Long. Il volto di una vecchia medaglia romana, a metà logorata.
Boy. Il pomo d’una sciabola cesarea.
Dum. Il capo fatto in osso, sul budriere d’un soldato.
Bir. Una mezza guancia di san Giorgio in un gioiello.
Dum. In un gioiello di ottone.
Bir. Ora continua, perchè sei stato applaudito.
Ol. Voi m’avete fatto perdere ogni aspetto...
Bir. Menti, t’abbiamo anzi date molte fisonomie.
Ol. Ma tutte per beffa.
Bir. Era quello che meritavi.
Boy. Ora vattene; addio, caro Giuda. Perchè rimani?
Dum. Per proferire la fine del suo discorso.
Bir. Manca solo ch’ei dica, che Giuda è un ciuco.
Ol. Tal procedere non è nè umano, nè gentile, nè generoso.
Boy. Date un lume a messer Giuda: annotta, ed ei potrebbe cadere.
Prin. Oimè! povero Macabeo, come sei stato conciato. (entra Armado rappresentante Ettore)
Bir. Cela il tuo capo. Achille; s’avvanza Ettore in armi.
Dum. Quand’anche le mie beffe dovessero ricadermi sulla testa, vuo’ ora starmi lieto.
Re. Ettore non era che un Troiano in paragone di costui.
Boy. Ma è veramente Ettore?
Dum. Credo che Ettore non fosse fatto così bene.
Long. La sua gamba è troppo pingue per poter essere quella di Ettore.
Dum. Certo egli era più mingherlino.
Boy. Ma lo rappresenta in grande.
Bir. Non è verosimile che questo sia Ettore.
Dum. È un Dio o un pittore, perchè e tutto dipinto.
Arm. «L’armipotente Marte, l’onnipossente Lancifero ha fatto a Ettore un dono...»
Dum. Gli ha reso ottuso il cervello.
Bir. Gli ha dato un limone.
Long. Con stecchi di garofano.
Dum. Ed altre delicature.
Arm. Tacete. — «L’armipotente Marte, l’onnipotente Lancifero ha fatto un dono a Ettore, l’erede di Ilio: uomo di sì inesauribile lena, che combatterebbe dal mattino alla sera senza mai stancarsi. Io son quel fiore...»
Dum. Quella menta.
Long. Quella viola.
Arm. Mio buon signor Longueville, frenate la vostra lingua.
Long. Debbo piuttosto lasciarle le briglie, poichè ella corre sulle traccie di Ettore.
Dum. Ed Ettore ha le gambe di un cervo.
Arm. Quel caro guerriero è morto e corroso: amici miei, non flagellate le ossa dei sepolti: allorchè egli visse fu un uomo. Ma vuo’ continuare la mia parte: dolce realtà. (alla principessa) Concedetemi il vostro senso dell’udito.
Prin. Parla, prode Ettore; noi siamo deliziati di te.
Arm. Io adoro la pianella della vostra amabile Altezza.
Boy. Egli l’ama pei piedi.
Dum. Non potrebbe amarla per altro lato.
Arm. Quest’Ettore ha soverchiato di molto Annibale.
Cost. La vostra parte avversaria, amico Ettore, è perduta: ell’è a due mesi del suo cammino.
Arm. Che vuoi tu dire?
Cost. In verità, se non compite la parte dell’onesto Troiano, quella povera fanciulla ne morirà: ella sente muovere il frutto delle sue viscere, che lo è anche delle vostre.
Arm. Vuoi tu infamonizzarmi fra i potentati? Tu morirai.
Cost. Ettore sarà dunque frustato a motivo di Giacometta, di cui ha raddoppiata la vita; ed appeso per cagione di Pompeo, a cui vuol dar morte.
Dum. Oh egregio Pompeo!
Boy. Oh famoso Pompeo!
Bir. Più grande dei grandi, grande, grande Pompeo, più alto di un gigante.
Dum. Ettore trema.
Bir. Pompeo è commosso. La discordia è divampata; eccitatela quanto più potete.
Dum. Ettore lo sfiderà.
Bir. Sì, se vi è nel suo ventre tanto sangue quanto ne occorre per dar da pranzo a una mosca.
Arm. Per il polo nordico, io ti sfido.
Cost. Non voglio combattere con voi. Lasciatemi andare.
Dum. Luogo agli eroi sdegnati! Quest’è un Pompeo dei più fieri.
Moth. (a Arm.) Signore, non vedete che Pompeo si appresta subito a combattere? Che volete voi fare? Perderete la vostra riputazione.
Arm. Nobili gentiluomini, nobili guerrieri, perdonatemi, io non combatterò più.
Dum. Voi non potete rifiutarvi, avendo fatto primo la sfida.
Arm. Lo posso, e lo voglio.
Bir. Per qual ragione?
Arm. Perchè non ho incontro un degno antagonista. (entra Mercade)
Mer. Dio vi salvi, signora.
Prin. Siate il benvenuto, Mercade, quantunque interrompiate il nostro diporto.
Mer. Me ne duole, signora, e tanto più che la novella che reco, pesa crudelmente sulla mia lingua. Il re vostro padre...
Prin. Sulla mia vita, è morto.
Mer. Sì, signora: e il mio messaggio è finito.
Bir. Eroi, ritiratevi; la scena comincia ad annuvolarsi.
Arm. Per me respiro un’aria libera. (gli eroi escono)
Re. Come sta Vostra Maestà?
Prin. Boyet, preparate tutto, voglio partire questa sera.
Re. Non con tanta celerità, signora; ve ne supplico, aspettate.
Prin. Preparatevi, vi dico; vi ringrazio, miei graziosi signori, di tutti i validi sforzi che faceste per ricrearne, e vi prego pel dolore recente da cui la mia anima è stata assalita di scusare e di dimenticare l’eccessiva libertà che qui ci prendemmo. Se ci comportammo con soverchia arditezza nei nostri mutui colloquii, e nella nostra conversazione, fu colpa della vostra galanteria. Addio, nobile principe. Il dolore fa abbreviare le cerimonie. Perdonatemi se solo con una parola vi ringrazio per l’importante concessione che mi faceste.
Re. Non vi è nulla che la rapida fuga del tempo non modifichi, e spesso nel momento in cui egli costringe gli uomini a separarsi, determina fra di loro quello che determinarsi non avrebbe potuto che con lunghe discussioni. Sebbene il dolore dipinto sulla fronte d’una fanciulla vieti il sorriso dell’amore e la preghiera della tenerezza, nondimeno poichè l’amore è stato la prima cagione dei nostri passi, la tristezza non lo distolga dal termine, a cui egli anelava di giungere. Pianger gli amici perduti non è tanto salutare o vantaggioso, come il rallegrarsi di aver trovati altri amici.
Prin. Non v’intendo, e ciò raddoppia il mio dolore.
Bir. Parole schiette ed aperte saran dunque meglio comprese da voi, e i miei discorsi vi riveleranno più minutamente i pensieri del re. È per la vostra bellezza che abbiamo speso il nostro tempo e che abbiamo violati i nostri giuramenti. La vostra bellezza ha grandemente alterati i nostri caratteri, modellandoli in guisa interamente diversa dalle nostre intenzioni; e in ciò vedrete la cagione di quello che vi è sembrato così risibile in noi. L’amore commette mille falli, è bizzarro come un fanciullo, frivolo del pari; e avvegnachè è creato dall’occhio, così è come l’occhio pieno di fantasimi erranti, di forme strane che varia continuamente. Se queste inconseguenze del volubile amore, che ci han tolta la nostra dignità, sono sembrate male in armonia coi nostri giuramenti, e colla gravità nostra, furono i celesti occhi che avete che ci resero colpevoli. Perciò, belle dame, poichè il nostro amore vi appartiene, l’errore prodotto dall’amore vi spetta egualmente. Se noi diveniamo spergiuri a noi stessi, lo facciamo per essere fedeli per sempre a quelle, che a romper ci costrinsero la nostra fede. Tale mancanza, che per se stessa è un delitto, viene così detersa dalla cagione che lo fe’ compiere, e si muta in virtù.
Prin. Abbiamo ricevute le vostre lettere piene d’affetto; abbiamo ricevuti i vostri doni, e parlandone fra di noi avevamo riputato ciò un semplice atto di pulitezza, nè vi collegavamo alcuna importanza. Con tale opinione abbiamo intese anche le vostre proposte, quasi cosa di sollazzo.
Dum. Le nostre lettere signora esprimevano i nostri veri sentimenti.
Long. E i nostri sguardi gli annunziavano.
Ros. Noi nol credemmo.
Re. Ora, al momento di separarci, concedeteci il vostro amore.
Prin. Un momento è, credo, troppo breve per determinare un patto eterno: no, no, signore, voi commetteste uno spergiuro, e l’amore diverrebbe un delitto. Per conseguenza udite la mia ultima proposizione. Se per amore di me (amore ben spontaneo dal lato vostro) volete fare qualche sacrifizio, ecco quello che potrò dirvi. Non voglio fidarmi di alcun giuramento: andate invece a racchiudervi in un eremo solitario e deserto, lontano da tutti i piaceri del mondo, ed ivi restate fino a che i dodici segni celesti abbiano fatto il loro annuo corso. Se vita così austera non muta la vostra risoluzioue, adottata nel bollore del sangue; sei ghiacci, i digiuni e grossolane vesti, non fanno appassire quel fragile fiore dell’amore; se esso resiste a tali prove; e se voi perseverate nei vostri sentimenti, allora allo spirare dell’anno venite a reclamarmi in nome del merito di tal noviziato, e lo giuro, per questa mano verginale che ora vi porgo, che diverrò vostra. Fino a quel termine io pur starò in una casa di lutto per versarvi pianti di desolazione sulla morte di mio padre. Se ricusate la convenzione, le nostre mani si disuniscano senza che rimanga più fra di noi vincolo alcuno.
Re. Se tal prova rifiutassi, od ogni altra più penosa ancora; se ricusassi di passare in pace e in solitudine tutto quest’anno letargico, vorrei che la mano della morte chiudesse tosto i miei occhi. Fin da questo istante il mio cuore riposa nel vostro seno.
Bir. E a me, cara amante, qual penitenza imporrete?
Ros. Voi pure avete bisogno di essere purificato; le vostre colpe sono addentro; voi pure avete commesso spergiuri, ed è perciò che, se volete ottenere il mio favore, dovete passare dodici mesi visitando sempre i letti dei malati.
Dum. E a me, amor mio, a me che infliggerete?
Cat. Una moglie, una buona salute, un po’ d’onestà: ecco i tre desiderii che forma per voi il mio amore.
Dum. Poss’io rispondere: «vi ringrazio, amabile sposa?»
Cat. No, signore. Per un anno e un giorno non ascolterò da voi una sola parola d’amore: ma allorchè il re verrà a ritrovare la nostra principessa, allora se avrò molta passione per voi, ve ne farò provare gli effetti.
Dum. Vi servirò fine a quel termine con lealtà e schiettezza.
Cat. Ma non lo giurate, per tema di una seconda violazione.
Long. E che cosa dice Maria?
Mar. Alla fine di dodici mesi muterò la mia veste di lutto in un amico fedele.
Long. Aspetterò con pazienza, sebbene sia lungo assai tal tempo.
Bir. La mia bella Rosalina medita forse? Signora della mia anima, guardatemi, considerate i pertugi del mio cuore, che sono i miei occhi; mirate l’umile rispetto che sta nei miei sguardi, che aspettano la vostra risposta. Imponetemi qualche cosa, che valga a provarvi l’amor mio.
Ros. Ho spesso inteso parlar di voi, signore, prima che avessi il bene di conoscervi, e tutte le bocche della fama mi vi dipingevano come uomo fecondo in arguzie, in sarcasmi pungenti, che voi lanciavate sopra tutti quelli che vi stavano dinanzi. Per sradicare tal erba dal vostro cervello e meritare la mia grazia, se di essa vi cale, bisognerà che per questi dodici mesi andiate tutti i giorni all’ospizio dei sordi-muti, e che conversiate solo con quegl’infelici, adoperandovi a tutta possa per fargli sorridere in mezzo ai loro mali.
Bir. Far sorridere sciagurati infermi? Ciò è impossibile. La gioia non può entrare in un’anima che prova il dolore.
Ros. Ed è questo il vero mezzo per reprimere uno spirito schernitore che fa pompa di sè per gli applausi indiscreti che uditori imprudenti e amici di ogni beffa danno alle sue follie. Il successo delle arguzie dipende dalle orecchie che le ascoltano, e non dalla lingua che le dice. Perciò se le orecchie dei sordi, gementi sotto gravi mali, vogliono prestarsi a udire le vostre celie, continuate allora su tal tuono, e quale siete vi accetterò: ma se nol vogliono, desistete da sì falso spirito, onde vi trovi corretto dal difetto, e sia lieta della vostra ammenda.
Bir. Dodici interi mesi? Ebbene, segua quel che vorrà: acconsento ad andare a celiare per questi dodici mesi entro un ospitale.
Prin. (al re) Sì, mio buon signore, io mi accommiato da voi.
Re. No, verremo almeno ad accompagnarvi per un po’ di strada.
Bir. I nostri amori non finiscono come le nostre antiche commedie: se queste dame avessero voluto, esse avrebbero potuto dare ai nostri sollazzi uno scioglimento più giocondo.
Re. Venite, signori, dopo dodici mesi, lo scioglimento seguirà da sè.
Bir. È tempo troppo lungo per un dramma. (entra Armado)
Arm. Dolce maestà, vogliate permettere...
Prin. Non è questo il nostro Ettore?
Dum. Sì, il degno cavaliere di Troia.
Arm. Ch’io baci le vostre regie dita, e prenda congedo da voi; legato sono con un voto: ho promesso a Giacometta di condurre l’aratro per amor suo tre anni. Ma, famosissima Grandezza, volete udire il dialogo che i nostri due dotti uomini han compilato in lode della civetta e del cuculo? Esso avrebbe dovuto seguire immediatamente la fine del nostro spettacolo.
Re. Fateli venir tosto, li ascolteremo.
Arm. Olà! Avvicinatevi. (entrano Oloferne, Nataniele, Moth, Costard, ed altri) Da questa parte è Hyems, l’inverno; da quest’altra Ver, la primavera: l’uno è amico della civetta, l’altro del cuculo. Comincia, Primavera.
Canzone.
Primavera: «Quando la margherita dalle vaghe foglie, e l’azzurra viola, e il verbasco grazioso, e mille altri fiori, decorano i prati con ridenti colori, allora il cuculo di fronda in fronda si fa beffe dei consorti, ripetendo continuamente il suo nome tremendo ad ogni orecchio di sposo!»
II.
«Quando i pastori dan fiato alle loro cornamuse, quando la lieta lodola intuona la diana degli agricoltori, quando le tortore innamorate si accarezzano, e si significano il loro affetto, quando le fanciulle imbiancano le loro vesti d’estate, allora il cuculo di fronda in fronda, ecc. ecc.»
III.
L’Inverno: «Allorchè i ghiacci pendono dai tetti, allorchè i pastori si riscaldano col soffio le dita, allorchè il sangue dorme nelle vene, e il latte si agghiaccia dentro ai secchi, allora la civetta dagli occhi incantati stride per tutta la notte, e udendola l’alacre montanara balza di letto, e va ad attendere alle sue cose».
IV.
«Allorchè tutti i venti irrompono furibondi, e gli uccelli stan sepolti nella neve, allorchè il freddo imporpora il naso, e le famiglie si radunano intorno al fuoco, allora la civetta dagli occhi incantati, ecc. ecc.»
Arm. Le parole di Mercurio sono aspre dopo i canti di Apollo. Voi escite da quella parte, noi ce ne andremo da questa. (escono)
fine del dramma.
Note
- ↑ Inglese pecora fa ewe e si pronunzia iu cioè u inglese, o ii secondo il vario accento della città e della campagna; di qui lo scherzo fra il Paggio ed il Maestro.
- ↑ Equivoco sulla parola Wax che significa cera e ingrandire.
- ↑ Altro equivoco sulla parola light che vuol dir lieve e luminoso.
- ↑ O luminosa.