Parte seconda del Re Enrico IV/Atto quarto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
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ATTO QUARTO
SCENA I.
Una foresta nella pianura di York.
Entrano l’Arcivescovo di Yorck, Mowbray, Hastings ed altri.
Arc. Com’è chiamata questa foresta?
Hast. La foresta di Gaultree; così piaccia a Vostra Grazia.
Arc. Fermiamoci qui, miei lórdi: e mandiamo alla scoperta delle forze nemiche.
Hast. Abbiamo di già mandato.
Arc. Fu ben fatto. Miei amici e fratelli, nei gravi impacci in cui versiamo conviene vi ammonisca che ho ricevuto di recente lettere da Northumberland, il freddo tenore delle quali e la sostanza è questa: egli desidererebbe esser qui alla testa di un corpo numeroso e degno del suo grado: ma non ha, soggiunge, tal corpo, e perciò si è ritirato in Iscozia, per lasciar maturare la sua fortuna. Conchiude con voti, che assicura sinceri, perchè i vostri sforzi trionfino di ogni contrarietà, e della possanza formidabile dei nostri nemici.
Mow. Onde le speranze che ponevamo in lui sono distrutte!
(entra un messaggere)
Hast. Ebbene, quali novelle?
Mess. All’occidente di questa foresta, alla distanza appena d’un miglio, s’avanza il nemico in buon ordine, e dal terreno che occupa, argomenti il suo numero di circa trentamila uomini.
Mow. È quello appunto che avevamo supposto. Poniamoci in via ed affrontiamoli sul campo. (entra Westmoreland)
Arc. Chi è quel guerriero, tutto armato, che vien verso di noi?
Mow. Credo sia milord di Westmoreland.
West. Ricevete saluti e augurii per parte del nostro generale, principe lord Giovanni, duca di Lancastro.
Arc. Dite liberamente, milord di Westmoreland, qual motivo vi guida.
West. È a Vostra Grazia, milord, più che ad ogni altro che debbo indirizzar le parole del mio messaggio. Se la ribellione si presentasse, come suole, trascinando seco una moltitudine abbietta e vile, guidata da giovani avventurosi, animata da furore e sostenuta da una schiera di adolescenti senza fortuna; se sotto tal forma, che le è propria, si offrisse, non si vedrebbe voi, prelato venerabile, e tutti questi nobili lórdi fregiare della vostra presenza e del vostro onore la sua fronte abominevole. Ma voi, lord Arcivescovo, il di cui seggio ha base nella pace pubblica; voi, di cui la mano argentina del ben essere universale ha tante volte piamente toccato il mento canuto; voi, che fra la quiete vi nudriste alle scienze e alle lettere, e le di cui vesti mostrano colla loro bianchezza l’emblema dell’innocenza e i colori della divina colomba; perchè con mutamento inesplicabile vi siete voi tolto alle vostre pacifiche e benevoli esortazioni, che invocavano la grazia del Cielo, per preferire quelle ree e micidiali della guerra? Perchè abbandonaste i vostri libri santi per la spada, le vostre sacre scritture per versare il sangue, la vostra penna per la lancia? Perchè fate servire l’interprete della parola divina, qual organo funesto delle stragi delle battaglie?
Arc. Voi chiedete perchè mi trovo qui! Eccone la ragione; e in brevi parole eccovi il mio intento. Noi siamo tutti infermi; gli eccessi della nostra intemperanza e delle nostre follie hanno acceso nel nostro seno una febbre ardente, che non si placherà se non versando sangue. Uguale malattia assalse il fu Riccardo e gli riescì mortale. Ma mio nobile lord di Westmoreland, io non mi rendo qui medico di tali mali; nè è come nemico di pace ch’io mi mescolo fra i guerrieri. Se mi mostro ai vostri occhi sotto questo apparecchio minaccioso, per poco lo fo’, e ciò anche solo a fine di sanar spiriti sazii di pace, e come stanchi di felicità; affine di purgare un’eccesso d’umori accumulati dal riposo, che cominciavano ad arrestare nelle nostre vene il movimento della vita. Vi parlerò più aperto. Ho pesato con mano imparziale e in equa bilancia i mali che possono fare le nostre armi e le ingiustizie che patiamo, e veggo che queste son maggiori delle nostre offese. Non sappiamo qual corso segue il torrente delle attuali circostanze, ed è esso che ne trasporta e ne strappa nostro malgrado dalla pacifica sfera in cui soggiornavamo. Abbiamo raccolto in breve scritto tutte le nostre lagnanze, che mostreremo allorchè i tempi lo concedano. Volevamo porle a cognizione del re prima di quest’ultimo passo, ma non potemmo mai ottenere che ci ascoltasse. Allorchè siamo offesi, e vogliamo difender la nostra causa, l’accesso del suo trono ne è vietato da quegli uomini istessi che ne hanno oppressi di più. Sono i pericoli dei giorni trascorsi, la di cui memoria è segnata sulla terra in caratteri di sangue; sono gli esempi che ci si offrono ognora, che ci forzano a rivestire queste divise che così male si addicono alla nostra persona. Il nostro intento non è di distruggere la pace, nè di rompere alcuno dei rami del celeste suo olivo: è piuttosto di stabilirne una tale che ne abbia e il nome e i vantaggi.
West. E quando mai si è ricusato di udir le querele vostre? In qual cosa foste voi offesi dal re? Qual pari fu mai subornato per oltraggiarvi, onde credervi oggi autorizzato ad imprimere il suggello divino della religione sui diritti insensati e sanguinosi della rivolta, e a consacrare la spada funesta della guerra civile?
Arc. La mia querela generale versa sull’interesse dello Stato; la domestica, sull’ingiuria crudele fatta a mio fratello.
West. Non v’è mestieri per ciò d’alcuna riforma; e quand’anche vi fosse, a voi non spetterebbe il chiederla.
Mow. Perchè, in parte almeno, non spetterebbe a lui? Perchè non a noi tutti, che sentiamo le trafitture del passato, e vediamo il presente schiacciarci con mano empia e crudele?
West. Oh, mio degno lord Mowbray, giudicate degli avvenimenti dalle circostanze, e direte allora, con più verità, ch’è il tempo e non il re che vi offende. Nondimeno, rispetto a voi, non posso veder che, sia per parte del re, sia per le nuove congiunture, abbiate il più lieve fondamento per lamentarvi. Non foste voi riposto in tutte le signorie del duca di Norfolk, vostro nobile padre, d’illustre e santa memoria?
Mow. E chi dunque aveva tolto a mio padre il suo onore, perchè fosse mestieri che in me si ristaurasse? Il re, che lo amava, fu costretto dalle circostanze dello Stato ad espellerlo. E in seguito, allorchè Enrico Bolingbroke ed egli, saliti entrambi sui loro corsieri che nitrivano e provocavano lo sperone, colle lande in resta, colle visiere calate, cogli occhi scoccanti il fuoco, mentre la tromba gl’incitava l’uno contro l’altro, allora che nulla guarentir poteva il seno di Bolingbroke dalla lancia di mio padre, allora fu che il re gettò per terra il suo scettro del comando. Ah! con esso ei vi gettò ancora la sua vita che attaccata vi era; ei se stesso perde, siccome tutti coloro che subirono di poi sotto Bolingbroke nefande accuse, cagioni di più nefande oppressioni.
West. Voi deviate dal retto, lord Mowbray, e parlate con poco discernimento. Il conte di Hereford era riputato allora il più valente gentiluomo d’Inghilterra. Chi sa a quale dei due la fortuna avrebbe sorriso? Ma quand’anche vostro padre fosse rimasto vincitore, non mai avrebbe potuto varcare i confini di Coventry, perocchè tatto il paese con voce unanime manifestava il suo odio contro di lui, e tutti i voti, tutto l’amore erano posti in Hereford, che veniva encomiato più assai del sovrano. Ma io esco dal mio tema. — Venni qui inviato dal principe, nostro duce, per conoscere le vostre lagnanze, per annunziarvi per parte sua che è pronto ad intendervi e a far ragione alle vostre inchieste, ove man giuste, obliando ogni memoria della vostra inimistà.
Mow. A queste offerte egli è costretto: la politica e non l’amore lo forzano ad esse.
West. Mowbray, la vostra presunzione vi accieca, e v’ispira tal pensiero. Queste offerte son frutto della sua clemenza e non del suo timore: perocchè ben vedete che il nostro esercito vi sta dinanzi, e, sull’onor mio, tutti i nostri guerrieri han troppa fiducia e coraggio per lasciar entrare nei loro cuori un sentimento di tema. Le nostre file contano più nomi illustri che non le vostre; i nostri soldati son più agguerriti di quelli che voi conducete; le nostre armature son forti del pari, e la nostra causa è più giusta; la ragione perciò vuole che cuore e speranze abbiamo quanto voi: non dite adunque che siano forzate le nostre offerte.
Mow. Se si crede a me non si verrà ad alcun negoziato.
West. Tal risoluzione prova i vostri rimorsi e la coscienza della vostra offesa. Un’anima troppo colpevole non crede alla clemenza.
Hast. Il principe Giovanni è egli rivestito di pieni poteri per trattare definitivamente con noi?
West. Il nome solo di generale porta con sè tale pianezza di poteri. Stupisco di questa dimanda.
Arc. Ebbene, milord di Westmoreland, prendete questo foglio, che contiene i nostri reclami. Se ognuno degli abusi qui descritto vien riformato, e se si perdona a tutti coloro che sono interessati nella nostra causa; se i nostri desiderii. Ben soddisfatti, noi rientriam tosto nell’obbedienza, e incateniam le nostre armi al braccio della pace.
West. Mostrerò lo scritto al principe. Se volete, miei lórdi, possiamo appressarci e terminare in vista dei nostri due eserciti o colla pace (così Iddio voglia!) o colla guerra la nostra contesa.
Arc. Vi acconsentiamo, milord. (West. esce)
Mow. Ho nell’animo un presagio che mi dice che le condizioni della nostra pace non potranno mai esser solide.
Hast. Nol temiate: se la possiamo stringere nei termini da noi proposti, la pace sarà infrangibile come uno scoglio.
Mow. Sì, ma l’opinione che il re serberà di noi sarà tale, che la più lieve cagione, il pretesto meno fondato, il sospetto più vano gli ricorderà sempre la nostra rivolta; e quand’anche colla fede più leale divenissimo vittime del nostro zelo per lui, le nostre opere sarebbero sempre scrutate per guisa, che in esse ti giungerebbe a trovare qualche orma di malvagità.
Arc. No, no, milord, ascoltate. Il re è stanco di dar peso a falli leggieri; egli ha riconosciuto per esperienza, che voler estinguere un sospetto con una vittima, è un farne rinascer due cogli eredi dell’estinto; perciò romperà le sue tavole di proscrizione, e non manterrà presso di sè alcun testimonio indiscreto, che gli richiami le cose passate. Ei sa bene, che non mai potrà purgar a piacer suo questo regno da tutto ciò che lo infastidisce. I suoi nemici si mescolano co’ suoi amici, e allorchè la sua mano vuol con violenza sradicare un avversario, essa strappa in pari tempo e fa ingiuria ad un cliente. La nazione gli sta dinanzi come una sposa sdegnata, e nell’ira sua provoca i suoi colpi; ma nel momento in cui egli vuol batterla, essa gli presenta il suo fanciullo lattante e il castigo riman sospeso nel braccio che voleva infliggerlo.
Hast. Oltre che il re ha sfogate tutte le sue vendette sulle ultime vittime, e adesso non può che minacciare senza nuocere.
Arc. È vero: siate sicuro, mio degno lord maresciallo, che se oggi cementiamo bene la pace, essa sarà come un membro rotto e ricongiunto, cui la rottura stessa ha renduto più forte.
Mow. Ebbene, sia; ecco milord di Westmoreland che ritorna.
(rientra Westmoreland)
West. Il principe è a pochi passi da noi. Volete, miei lórdi, venire a raggiungere Sua Grazia, a una distanza eguale dai nostri due eserciti?
Mow. Venerabile York, in nome di Dio, andate innanzi.
Arc. Precedetemi (a West.), e salutate il principe: noi, milord, vi seguiremo. (escono)
SCENA II.
Un’altra parte della foresta.
Entrano da un lato Mowbray, l’Arcivescovo Hastings ed altri; dall’altro il principe Giovanni di Lancastro, Westmoreland, uffiziali e seguito.
Gio. Mio cugino Mowbray, mi è dolce l’incontrarvi. Salute, degno Arcivescovo. Salute anche a voi, lord Hastings; salute a tutti. Milord di York, ben meglio a voi si addiceva lo stare alla testa del vostro gregge che, adunato al suono della sacra squilla vi attorniava per ascoltare con rispetto le vostre istruzioni sul testo dei libri santi, che il mostrarvi uom di litigii, eccitante al fragor dei tamburi una frotta di ribelli, e usando la spada, anzichè la parola, oblievole di un ministero di pace, per uno di morte. Se l’uomo che occupa uno dei primi posti nel cuore del sovrano, che prospera e splende pei raggi del suo favore, abusa dei beneficii del suo re, a quanti delitti, oimè! ei dà luogo sotto l’ombra ingannevole della sua grandezza. Così fate voi, Arcivescovo. Chi non ha udito dir cento volte quanto voi aveste versato nelle scienze teologiche? Voi eravate il nostro tribuno all’assemblea di Dio: nella vostra voce credevamo udir la voce del Cielo istesso. Voi eravate l’interprete e il mediatore fra le potenze superne e noi. E chi mai potrà credere che abusiate del santo rispetto congiunto alla vostra carica, e che impieghiate il favore e la grazia del Cielo, come un favorito perfido usa il nome del suo principe, per atti odiosi e disonoranti? Voi avete sotto la maschera dello zelo per la causa di Dio, chiamati a rivolta i sudditi di mio padre, suo luogotenente in terra, e incitati gli avete contro di lui, e contro la pace, figlia del Cielo.
Arc. Mio nobile lord di Lancastro, io non son qui armato contro vostro padre, ma, come dissi a milord di Westmoreland, son le sciagure dei tempi, e il sentimento generale di un pericolo comune che ci unisce, sotto quest’apparenza tremenda, per mantenere la nostra sicurezza. Io esposi a Vostra Grazia i motivi del nostro cruccio; la corte gli ha disprezzati, ed ecco ciò che ha prodotta questa idra deforme, figlia della guerra. Voi potete addormentarne gli occhi minacciosi, facendo ragione alle nostre giuste e legittime dimande: se a questo ne venite, l’obbedienza fedele, sanata di questo folle furore, s’inchinerà rispettosa ai piedi del trono.
Mow. Ove rifiutate, siamo risoluti di sperimentar la nostra fortuna, fino a che l’ultimo di noi perisca.
Hast. E quand’anche dovessimo soccombere nel primo combattimento, avremo vendicatori; se essi ancora cadono, i loro amici gli esoreranno, e la vittoria alfine nascerà dal seno delle disfatte. Fino che l’Inghilterra avrà generazioni d’uomini, questa querela sarà trasmessa di padre in figlio.
Gio. Siete troppo corrivo, Hastings, nel voler scrutare nella profondità dei secoli avvenire.
West. Vostra Grazia, vorrebbe ella risponder loro positivamente, dicendo fino a qual segno abbiate approvate le loro lagnanze?
Gio. Io le ho approvate interamente, e verranno soddisfatte. Giuro, per l’onor del mio sangue, che le intenzioni di mio padre furono mal comprese, e confesso anche che alcuni di quelli che lo circondano snaturarono i suoi disegni. Milordi, i vostri torti saranno placati; sulla mia vita, otterrete giustizia. Se agognavate a questo, congedate le vostre schiere, e rimandatele nel loro paese, come noi faremo colle nostre; e qui, fra i due eserciti, abbracciamoci e beviamo insieme, come amici, onde tutti i nostri soldati, spettatori di tal letizia, possano recar nella loro patria le testimonianze della nostra riconciliazione e della nostra amistà.
Arc. Accetto la vostra parola di principe per le riforme promesse.
Gio. Ve la do, e l’osserverò; con tal promessa bevo alla salute di Vostra Grazia.
Hast. Ite, capitano (ad un ufficiale), e annunziate ai nostri uomini le novelle di pace; ricevano il loro soldo e se ne vadano: son ben sicuro che saranno contenti. Ite, capitano.
(l’ufficiale esce)
Arc. Alla salute vostra, mio nobile lord di Westmoreland.
West. Vi secondo; e se sapeste quante pene mi è costata tal pace, bevereste più volentieri per me: ma la mia amicizia ai farà apprezzar meglio in seguito.
Arc. Non dubito del vostro cuore.
West. Ne son lieto. — Alla vostra salute, mio amabile cugino di Mowbray.
Mow. Opportunamente me la propiziate, perocchè mi sento male assai.
Arc. Prima della sventura gli uomini son sempre lieti: ma la tristezza è presagio di felicità.
West. Ebbene, caro cugino, state allegro, perocchè un subito dolore fa spesso presagire pel dimani qualche fausto evento.
Arc. Credetemi, mi sento più alacre e leggiero della luce.
Mow. Peggio se se ne giudica dalla norma, da voi pur mo’ posta.
(grida al di dentro)
Gio. La parola di pace è corsa: uditene il saluto!
Mow. Queste grida sarebbero riuscite ben più care dopo una vittoria.
Arc. La pace equivale ad una conquista: le due parti han nobilmente vinto senza perdita d’alcuna.
Gio. Andate, milord, e sia congedato il nostro esercito. (West. esce). Mio degno signore (a York), se vi acconsentite, le nostre truppe ci sfileranno innanzi, onde possiamo vedere con quali uomini avremmo avuto a fare.
Arc. Lord Hastings, andate, e prima di licenziare le schiere, vengano dinanzi a noi. (Hast. esce)
Gio. Ho fede, miei lórdi, che riposeremo insieme questa notte (rientra West). Ebbene, cugino, perchè rimane immobile il nostro esercito?
West. I duci, avendo ricevuto da voi ordine di non muoversi, non vogliono partire se prima non ne ricevono il comando dalla vostra stessa voce.
Gio. E’ conoscono il loro dovere. (rientra Hastings)
Hast. Milord, i nostri soldati son già dispersi; e come giovani tori, staccati dal giogo, prendono il loro corso all’est, all’ovest, al nord e al sud.
West. Lieta novella, Hastings; e in conseguenza di essa io ti sospendo come colpevole di alto tradimento. Voi pure, Arcivescovo, e voi Mowbray arresto qui per delitto capitale.
Mow. È un tal procedere onorevole? è giusto?
West. Lo era la vostra ribellione?
Arc. Violerete così la fede data?
Gio. Alcuna non ne diedi. Promisi la riforma di abusi di cui vi lagnavate, e questo atterrò da buon cristiano. Ma quanto a voi ribelli, apparecchiatevi ad ottenere la mercede che meritano la rivolta, e una condotta qual fu la vostra. Fu un grande errore in voi l’aver sollevato un esercito, una gran follia l’averlo condotto qui, una più grande ancora averlo così licenziato. — Si suoni l’allarme per inseguire i fuggiaschi: il Cielo, e non noi, ci procurò sì bel trionfo senza battaglie. — Abbiano costoro una guardia intorno a sè, fino che sian giunti al patibolo, trono fatale, dove il tradimento esala sempre il suo ultimo sospiro.
(escono)
SCENA III.
Altra parte della Foresta.
Allarme ed escursioni. Entrano Falstaff e Colevile da diverse parti.
Fal. Qual è il vostro nome, messere? Di qual condizione siete voi, e qual posto occupate, di grazia?
Col. Son cavaliere, signore, e il mio nome è Colevile della Valle.
Fal. Bene, se Colevile è il vostro nome, se siete cavaliere, se abitate una valle: Colevile sarà sempre il vostro nome, infame sarà sempre il vostro grado, in un carcere avrete stanza; e fia luogo abbastanza vasto, perchè vi rimanga ogni vostro tìtolo.
Col. Non siete voi sir Giovanni Falstaff?
Fal. Buono quanto lui, signore, qualunque io mi sia. Cedete voi messere? dovrò sudare per vincervi? Se è mestieri ch’io sudi, il sudor mio spargerà le lagrime delle vostre amanti e saranno lagrime di morte: pensate perciò ad aver paura e a tremare, o rendete omaggio alla mia misericordia.
Col. Credo che siate sir Giovanni Falstaff: in tale supposizione vi dico che mi arrendo.
Fal. Ho una falange intera di animelle in questo ventre, e non ve n’ha una sola che dir sappia altro, che il mio nome. Se non avessi che un ventre ordinario, sarei l’uomo più operoso d’Europa, ma il mio ventre, il mio ventre, il mio ventre mi guasta. — Ecco il nostro generale.
(entrano il principe Giovanni di Lancastro, Westmoreland ed altri)
Gio. La foga è passata, non inseguiamo di più: radunate l’esercito, mio buon cugino di Westmoreland (West. esce). Ebbene, Falstaff, dove siete stato tanto tempo? Allorché tutto è finito, vi mostrate? Tali viltà, sulla mia parola, vi faranno un dì o l’altro inciampare in un patibolo.
Fal. Sarei ben dolente, milord, che ciò dovesse accadere; ma non seppi mai che rimproveri o castigo fosser la mercede del valore. Mi prendete voi per una rondine, per una freccia o per una palla da cannone? ho io nel mio povero e vecchio corpo la celerità del pensiero? Son qui venuto con tutta la sollecitudine che mi era possibile, ho passato di volo cento ottanta poste; e qui, trafelato di tanto viaggio, ho col mio puro e immacolato valore fatto cattivo sir Giovanni Colevile della Valle, avventatissimo cavaliero e portentoso nemico. Ma che perciò? Appena ei mi scorse, si arrese; onde posso giustamente dire col papagallesco naso di Roma, venni, vidi, vinsi1.
Gio. Fu più per sua cortesia, che per tuo valore.
Fal. Non so; ma egli è qui ed è a voi ch’io lo consegno. Supplico Vostra Grazia perchè quest’azione venga registrata colle altre di questo gran dì: o pel cielo! farò di essa testo ad una ballata particolare, col mio ritratto in cima e Colevile in atto di baciarmi il piede: al qual partito forzandomi, se non sembrerete così vaporoso come due monete da tre soldi; se non vi offuscherò coll’abbagliante chiarore della mia riputazione, come la luna piena offusca le scintille del firmamento che sembrano teste di spilla vicino a lei, non credete più alla parola di un nobile. Lasciatemi godere de’ miei diritti, e permettete che il merito vada in su.
Gio. Il tuo è troppo grave per alzarsi.
Fal. Lasciate dunque ch’ei risplenda.
Gio. È troppo opaco per ciò.
Fal. Lasciate che faccia qualche cosa, mio buon lord, purchè mi giovi, e chiamatela con quel nome che volete.
Gio. Tu sei Colevile?
Col. Sì, milord.
Gio. Tu sei un famoso ribelle.
Fal. E un suddito, famoso per fedeltà, lo ha fatto prigioniero.
Col. Non sono, milord, che simile a mille altri che valgono più di me, e che qui mi trascinarono. Se essi avessero voluto attendere a’ miei consigli, gli avreste comprati a più caro prezzo che non abbiate fatto.
Fal. Io non so com’eglino si vendessero; ma tu ti arrendesti da gentiluomo, e ti ringrazio del dono di te che mi hai fatto.
(rientra Westmoreland)
Gio. Ora avete desistito dallo inseguirli?
West. Si è suonato a raccolta ed è sospesa l’esecuzione dei ribelli.
Gio. Mandate Colevile coi suoi compagni a York perchè vi subiscano tosto la loro condanna. A voi, Blunt, sia commessa tal cura (escono alcune guardie con Colevile). Ora apprestiamoci a partir per la corte, miei lórdi; perocchè seppi che mio padre è gravemente infermo. I nostri prosperi successi ne preverranno dinanzi a Sua Maestà. Sarà a voi affidato, cugino, di recarne la novella onde rianimarlo, intanto che noi vi seguiremo il più sollecitamente che per noi si potrà coll’esercito.
Fal. Milord, ve ne supplico, permettetemi di andare nella provincia di Glocester; e quando arriverete in corte, fate ve ne scongiuro, un buon rapporto su di me.
Gio. Addio, Falstaff: pel gran successo ottenuto, parlerò di voi meglio che non meritiate. (esce)
Fal. Vorrei possedeste spirito soltanto, e ciò varrebbe meglio del vostro ducato. In verità, quel freddissimo giovine non mi ama; è impossibile di farlo ridere; ma nulla v’è di meraviglioso in ciò, non bevendo egli mai vino. Nessuno di tali austeri intelletti finirà bene; perchè la loro bevanda, scipita insieme col molto pesce che mangiano, raffredda talmente il loro sangue, che cadono in una specie di atrofia morale, e fatti sposi van spesso dalle donne di bel mondo. Costoro per la più parte sono vili e stolti: e noi pure lo saremmo, se non tenessimo acceso il nostro corpo. Una buona bottiglia! produce due ottimi effetti: primo, ascende al cervello, ove disperde tutti i vapori che l’oscurano, e rende la concezione viva, gaia, limpida, suscettiva di mille forme più leggere, più dilettevoli l’una dell’altra, le quali poi, rese alla voce col mezzo della lingua, producono cento graziose beffe. Secondo, infiamma il sangue, che, torpido prima e inanimato, lasciava il fegato bianco e insano, sintomo evidente di codardia, e fa scorrerlo per le vene dal centro interiore a tutte le estremità. Poi accende il volto, che, come faro, avverte il resto di questo piccolo regno, che si chiama uomo, di prendere le armi: e allora tutta la schiera degli spiriti vitali, e de’ spiriti subalterni accorrono in folla dal loro capitano, il cuore, che, superbo e gonfio per tanta affluenza, compie quanto gli si chiede in fatto d’opere di coraggio: per cui può dirsi che tutto il valore deriva dai suchi dell’uva, e che senza di essa nulla diviene la maggior perizia nelle armi. È il vino che mette in moto ogni scienza: avvegnachè il più gran sapere altro non sia che una miniera d’oro custodita dal diavolo, che il succo dell’uva soltanto può esorcizzare. Ecco dunque perchè il principe Enrico è prode; egli aveva naturalmente redato da suo padre un sangue gelido, ma ha saputo sì bene coltivarlo e impinguarlo a guisa di terra sterile, col bere di quel migliore, che trasformato se lo ha in avventatissimo e generoso. Se avessi mille figli, il primo principio che loro istillerei, sarebbe quello di rinunciare ad ogni insulsa bevanda e di consacrarsi interamente all’ottimo claretto (entra Bardolfo). Ebbene, Bardolfo?
Bard. L’esercito è tutto licenziato e partito.
Fal. Lascia che Belzebù lo guidi. Io me ne andrò in Glocester, ed ivi visiterò messer Roberto Shallow, scudiere. Lo tengo già in macerazione fra il pollice e l’indice, siccome cera, e fra poco me ne varrò da suggello. Vieni. (escono)
SCENA IV.
Westminster. — Una stanza nella reggia.
Entrano il re Enrico, il Duca di Clarenza, il principe Humfrey, Warwick ed altri.
Enr. Ora, miei lórdi, se il Cielo dà un felice esito alla sanguinosa contesa che infierisce alle nostre porte, noi condurremo la gioventù di questo regno in pianure più illustri, e non sguaineremo più la spada, che per causa benedetta e santa. La nostra flotta è apparecchiata, le nostre schiere raccolte, i luogotenenti, che debbono reggere in nostra assenza, sono scelti e nominati, e tutto risponde ai nostri desiderii: abbiamo bisogno soltanto di trovare noi stessi maggior forza e salute, e aspetteremo che i ribelli, ora armati, siano rientrati sotto il giogo dell’obbedienza.
War. Non dubitate di non ottener in breve questo doppio vantaggio.
Enr. Humfrey, mio figlio di Glocester, dov’è il prìncipe vostro fratello?
Humf. Credo sia ito a caccia, milord, a Windsor.
Enr. Con chi?
Humf. Nol so, milord.
Enr. Non v’è suo fratello, Tommaso di Clarenza, con lui?
Humf. No, mio buon lord, egli è qui presente.
Clar. Che desidera il mio signore e padre?
Enr. Nulla, fuorchè il tuo bene, Clarenza. Or come non sei tu col principe tuo fratello? Egli ti ama, Clarenza, e tu lo negligi. Tu occupi nel suo cuore il primo posto, a preferenza de’ tuoi fratelli: coltiva la sua affezione, mio figlio; e quando sarò morto, potrai rendere generosi servigli ai germani tuoi, servendo da mediatore fra lui ed essi. Nol lasciare: non fare che si raffreddi il suo amore; nè sperdere la sua bontà, mostrandoti ad essa indifferente. Egli è buono e riconoscente, allorchè lo si stima; ha una lagrima per le ambascie, e una mano benefica come il giorno agli attestati della tenerezza. Ma allorchè viene irritato, il suo cuore è di marmo: i suoi spiriti vanno soggetti a tempeste come l’inverno, e le sue passioni si scatenano simili ai venti del nord. Mestieri è perciò lo studiare il suo carattere. Quando lo vedrai prodi ve alla giovialità, fallo accorto de’ suoi difetti con molte cautele; ma se turbato e malcontento lo vedi, allenta la fune a lascialo in libertà, fino a che le sue passioni, come balena venuta sulla sabbia, logorate abbiano la loro foga in vani conati. Abbi ognora a memoria questi precetti, Clarenza, e diverrai l’appoggio e il protettore de’ tuoi amici, e sarai il vincolo dorato che unirà tutti i tuoi fratelli con nodo sì forte, che non mai il veleno della malevolenza e del sospetto (che forse suo malgrado il tempo e l’esperienza verseranno nella sua anima) potranno sciogliere o rompere, fosse esso così corrosivo come l’aconito, così violento come la polvere.
Clar. Io starò a’ suoi fianchi con tutta la tenerezza, e l’amore.
Enr. Perchè non sei a Windsor con lui, Tommaso?
Clar. Ei non va oggi colà, desina in Londra.
Enr. Con chi? Lo sai?
Clar. Con Poins ed altri de’ suoi.
Enr. Il suolo più fertile e più pingue è pur quello che ha maggiori spine: egli, nobile immagine di mia giovinezza, ha in sè gran dose di vizii. Perciò i miei dolori si stendono al di là della mia morte: il mio cuore geme, allorchè immagino, sotto le forme che crea la mia fantasia, i giorni di lutto che vedrete passare, quando io dormirò co’ miei avi. Allorchè le sue passioni, abbandonate al loro impeto, non avran più freno; allorchè la foga e l’ardore del sangue saranno le sole sue guide; allorchè il potere si unirà a’ suoi vizii prodighi, con qual volo le sue depravate inclinazioni non andranno incontro ai pericoli più inevitabili, non affronteranno certissimi mali!
War. Mio grazioso sovrano, voi lo conoscete troppo: il principe non ha altro intento che di studiare i compagni con cui convive, come si studia una lingua forestiera. Per imparar questa è necessario apprenderne anche i termini più osceni, che, una volta conosciuti, Vostra Altezza ben sa che a nulla servono; si taciono e si detestano. Così il principe, allorchè sarà giunto ad una età matura, respingerà da sè i suoi vili compagni, come si rigettano parole immonde: e la loro ricordanza vivrà soltanto nella sua memoria, come una specie di norma, sulla quale misurerà la condotta e la vita degli altri. La sua esperienza volgerà i mali passati in pro del presente.
Enr. Raro è che l’ape, allorchè ha posto il suo miele nel teschio di cadavere, lo lasci: ma chi viene? Westmoreland? (entra Westmoreland)
West. Salute al mio sovrano! E nuove felicità si aggiungano a quelle ch’io vengo ad annunziargli! Il principe Giovanni, vostro figlio, bacia la mano di Vostra Grazia. Mowbray, il vescovo Scroop, Hastings e tutti gli altri sono ridotti alla soggezione delle vostre leggi. Non v’è ora una sola spada di ribelle sguainata e la pace fa germogliare dovunque il suo ramo d’olivo. Il modo con cui riescimmo a ciò, sarà da Vostra Altezza con più agio esaminato: eccovi il foglio dichiaratore dell’evento.
Enr. O Westmoreland! tu rassomigli a quell’uccello estivo, che anche fra i rigori del verno celebra e canta il sorgere del dì. Mirate! Giungono altre novelle. (entra Harcurt)
Harc. Il Cielo difenda Vostra Maestà dai nemici; e quando essi insorgono contro di voi, cadano come quelli di cui vi vengo ad annunziar la sorte! Il conte Northumberland e lord Bardotto, che comandavano un esercito numeroso d’Inglesi e di Scozzesi, sono stati intieramente disfatti dallo sceriffo di York. Il modo e l’ordine sono espressi in questo scritto.
Enr. Perchè debbo io starmi infermo ricevendo sì liete notizie? La fortuna non verrà essa mai con piene le mani entrambe? Non mai farà ella un dono che non costringa ad espiarlo con una disavventura? Scriverà essa sempre le sue più belle parole con caratteri foschi? Ora dà la fame e non il cibo... tale è il povero in salute; ora il cibo e non la fame... tale l’opulento che di sua ricchezza non fruisce. Io dovrei allietarmi a queste felici novelle: e la vista mi si intorbida... il cervello mi si fa vertiginoso... Oimè! Appressatevi, mi sento assai male. (sviene)
Humf. Conforti il Cielo Vostra Maestà!
Clar. Oh, mio real padre!
West. Mio sovrano signore, rinfrancatevi, aprite gli occhi!
War. Calmatevi, principe; voi sapete che questi accessi sono in lui frequenti. Allontanatevi, onde respiri liberamente l’aere; fra poco starà bene.
Clar. No, no; ei non può sopportare più a lungo tali angoscie; le cure incessanti e le dubbiezze della sua mente hanno talmente logorata la sua vita, che poco può durare.
Humf. Il volgo mi atterrisce co’ suoi racconti. Fu osservata la nascita di animali a cui mal si potrebbe assegnare un padre, ed altri sconvolgimenti di natura. Le stagioni hanno mutato il loro carattere, e si direbbe che l’anno nel suo corso ha trovato alcuni mesi addormiti e gli ha varcati di un salto.
Clar. Il Tamigi ha subito un triplice flusso, senza alcun riflusso intermedio; e i vecchi, garrule cronache dei tempi trascorsi, dicono che lo stesso fenomeno accadde poco tempo prima che il nostro avolo, il grande Edoardo, infermasse e morisse.
War. Parlate sommesso, principi, che il re inviene.
Humf. Questo colpo terminerà sicuramente i suoi dì.
Enr. Vi prego, sollevatemi e portatemi in qualche altra stanza: dolcemente, ve ne prego. (il re vien portato nella parte interna della camera e posto sopra un letto) Fate che non s’oda alcun rumore, miei gentili amici; a meno che qualche pietosa mano soccorritrice non voglia ricreare i miei stanchi spiriti con un po’ di musica.
War. Olà! si formi un concerto nell’altra stanza.
Enr. Ponete la mia corona, qui sul mio guanciale.
Clar. Il suo sguardo è profondo, e cangia ad ogn’istante.
Humf. Tacete, tacete. (entra il principe Enrico)
P. Enr. Chi vide il duca di Clarenza?
Clar. Son qui, fratello, colmo di tristezza.
P. Enr. Perchè? questo palagio è pieno di guai senza che nulla se ne sappia al di fuori! Come sta il re?
Humf. Eccessivamente male.
P. Enr. Sa egli la buona novella? Ditegliene tosto.
Humf. Egli appunto decadde tanto udendola.
P. Enr. Se il suo male procede da un impeto di gioia, risanerà senza medico.
War. Non tanto romore, miei lórdi! Dolce principe, parlate sommesso, il re vostro padre è disposto al sonno.
Clar. Ritiriamoci nell’altra stanza.
War. Vuole Vostra Grazia venir con noi?
P. Enr. No; io mi assiderò qui, e veglierò accanto al re. (escono tutti tranne il P. Enr.) Perchè posa sul suo origliere quella corona, poichè gli riesce sì infesta compagna di letto? Oh splendido oggetto, quante cure e quante noie mi asconde il tuo fulgido oro! Quante volte tu tieni le porte del sonno aperte tutta la notte all’inquietudine e alle ambascie! Tu dormi con essa ora! Ah non mai il tuo riposo sarà sì dolce e sì sereno, come quello dell’uomo che, colla fronte cinta dai cenci dell’indigenza, empie la notte col rumore del profondo suo sonno! Oh maestà, quando tu pesi sopra colui che ti porta, rassomigli a ricca e grave armatura, che, riscaldata dagli ardori dell’estate, brucia l’uomo che difende. — Poniamo dinanzi alla sua bocca una piuma... Io mossa non la veggo in alcuna guisa del suo alito! S’ei respirasse, essa se ne risentirebbe.... Mio grazioso sovrano! Mio padre!... Profondo è bene questo sonno! Oh è un sonno che fa cader per sempre dalla fronte di molti re d’Inghilterra questo cerchietto dorato. — Mio padre, io ti debbo un mar di lagrime, e i dolorosi e sinceri gemiti che la natura e la tenerezza filiale impongono verso il proprio sangue, li sconterò senza misura. Così tu a me devi questa corona che ha da scendere dal tuo capo sul mio. (adattandosela alla testa) Eccola; già qui sta; il Cielo ve la manterrà, e quand’anche il mondo volgesse le sue forze nel braccio di un gigante, non mi potrebbe strappare questa corona ereditaria, che, da te ricevuta, o mio padre, trasmetterò a’ miei figli, come tu a me la trasmettesti. (esce)
Enr. (rinvenendo) Warwick! Leicester! Clarenza!
(rientrano tutti i principi)
Clar. Ne chiama forse il re?
War. Che vuole Vostra Maestà? Come sta Vostra Grazia?
Enr. Perchè mi lasciaste qui solo, miei lórdi?
Clar. Lasciammo il principe mio fratello con voi, mio sovrano; egli volle vegliarvi accanto.
Enr. Il principe di Galles? Dov’è? Fate che io lo vegga. Ei non è qui.
War. Questa porta è aperta; sarà uscito.
Humf. Ei non passò per la stanza ove noi eravamo.
Enr. Dov’è la corona? Chi la tolse dal mio guanciale?
War. Quando ci ritirammo, mio sovrano, essa vi era.
Enr. Il principe l’ha dunque presa... ite, fatene ricerca: ha egli così gran sete di regno da mutare il mio sonno nella mia morte? Cercatelo, milord di Warwick, forzatelo a venir qui. (War. esce) Questo suo procedere si collega al mio male e affretta il mio termine. Vedete, figli, quello che siete: con quale prontezza divenite ribelli e snaturati, tosto che l’oro scintilla dinanzi ai vostri sguardi! È dunque per tal ricompensa che padri folli si dibattono nei loro sonni, s’aggravano di cure, faticano in mille guise? È per tal ricompensa che intendono ad accumular ricchezze con tanto sudore? Tale è la gratitudine che poi trovano? Oimè! i padri hanno il destino dell’ape: come noi, essa liba il succo d’ogni fiore e ne fa doviziosa la sua arnia; e come essa siamo uccisi per mercede. Questo amaro sentimento compie lo strazio di un padre moribondo. (rientra Warwick) Ebbene, dov’è il figlio che non vuole aspettare che l’infermità che lo seconda m’abbia condotto al mio termine?
War. Signore, ho trovato il principe nella stanza vicina, col volto inondato dalla sua tenerezza, mostrante tutti i segni del dolore più profondo e in uno stato sì compassionevole, che la tirannia, che non si pasce che di sangue, non avrebbe potuto astenersi vedendolo d’annaffiare il suo pugnale con pianti di affanno. Eccolo.
Enr. Ma perchè tolse la corona? (rientra il P. Enr.) Avvicinati, Enrico... Voi altri escite; lasciateci soli.
(rimangono soli Enr. col P. Enr.)
P. Enr. Non avrei mai sperato di udirvi ancora una volta.
Enr. Fu il tuo segreto desiderio, Enrico, che ti suggerì tale idea. Sì, troppo a lungo io rimango sotto i tuoi occhi; a te è omai grave il vedermi — Sei tu dunque sì impaziente del mio trono, da non poterti ristare dal toccare alle cose mie prima che la tua ora tel consenta? Oh insensata giovinezza! Tu aspiri al regno e il suo peso ti opprimerà. Aspetta anche un istante, mio figlio: la nube di mia grandezza non è più alimentata che da soffio sì debole, che molto non tarderà a sciogliersi e a svanire; il giorno sta per estinguersi per me. Tu mi hai rapita vergognosamente una corona, che con alcune ore di pazienza diveniva tua senza delitti e senza onta: al momento della mia morte, tu poni il suggello a’ miei fatali sospetti. La tua vita mi ha abbastanza provato che non mi amavi, e volesti che ne morissi convinto. Tu nascondi nel tuo cuore di pietra mille segreti sentimenti che, come altrettanti pugnali, mi trafiggono in questa ultima ora! Oh! non puoi tu contenerti e lasciarmi vivere anche alcuni istanti? Ebbene, va e scava tu stesso il mio sepolcro; comanda alle squille suoni di allegrezza che annunzino al tuo orecchio che sei re, e ch’io sono estinto. Le lagrime che dovrebbero bagnare il mio feretro, servano di balsamo onde ungere e consacrare il tuo capo. Affrettati a sepellirmi in una polvere oscura e in breve obliata. Affrettati ad abbandonare ai vermi il corpo che ti ha data la vita. Togli agli ufficii loro i miei protetti; annulla i miei decreti: perocchè il tempo è venuto in cui si può insultare alle leggi e farsi beffa di ogni prammatica. Enrico V è coronato. — Svegliati, follia; scompari, regia grandezza! Fuggite tutti, voi savii consiglieri, e accorrete da ogni parte in Inghilterra, o uomini intemperanti, ministri d’indolenza e di libidini! Nazioni vicine, eruttate la vostra feccia. Se avete libertini che giurino, bevano, danzino e contaminino le notti; scellerati che derubino, uccidano e rinnuovino sotto diverse forme tutti gli antichi misfatti, rallegratevi, che essi non turberan più la vostra pace. L’Inghilterra li chiama e prodiga il suo oro ai loro delitti; l’Inghilterra darà loro i suoi impieghi, i suoi onori, la sua autorità; perocchè Enrico V romperà il freno che contiene la licenza, e il mostro feroce potrà impunemente immergere il suo artiglio nel debole innocente. Oh mio povero regno, tutto livido ancora di margini domestiche; se le mille mie cure non poterono tutelarti dagli eccessi del vizio, che diverrai tu allorchè il vizio stesso sarà fatto tuo rettore? Oh tu ridiverrai un vasto deserto popolato di belve, tue antiche abitatrici!
P. Enr. Oh abbiatemi mercè, mio sovrano! (inginocchiandosi) Senza le lagrime che mi han tolta la facoltà di parlare, avrei prevenuto questo amaro rimprovero della vostra tenerezza, prima che il dolore avesse incrudite le vostre parole, e che vi foste dato a profferir discorso sì straziante. Ecco la vostra corona, e l’Essere che ne porta una eterna, la serbi ancora per lungo tempo sul vostro capo! Se io l’amo per se stessa, e non perchè essa compone la vostra gloria, ch’io non mi rialzi mai più da quest’umile giacitura, in cui il dovere, il rispetto e l’amore m’han posto. Il Cielo m’è testimonio, che allorchè entrai nella vostra stanza, e che trovato vi ho senza lena, un gelo di morte mi strinse il cuore. Se mento, possa io morire nell’onta de’ miei falli e non mai mostrare al mondo incredulo il nobile cambiamento che è risoluto nella mia anima! Riputandovi estinto e quasi estinto io stesso, o mio sovrano, per tale disavventura ho addirizzata la parola a questa corona, come se ella avesse potuto intendermi, e fatti le ho questi rimproveri: «le inquietudini che sono a te congiunte hanno divorata la vita di mio padre: tu sei l’oro più fulgido e più pericoloso! Ve n’ha uno, dicono, che serve di farmaco e mantiene la vita; ma tu uccidi quegli che ti porta». Fu proferendo queste parole ch’io me la recai in testa per cimentarmi con lei, come con un nemico che aveva sotto i miei occhi stessi fatto morire il mio genitore: soggetto di vendetta fidato ad un erede fedele e leale! Ma se il suo possesso ha contaminata la mia anima con un solo sentimento di gioia, o inturgidita la mia mente con alcun moto d’orgoglio; se un qualunque principio di ribellione o di superbia m’ispirò di ben accogliere questa corona; se l’idea de’ suoi privilegi solleticò anche menomamente il mio cuore, il Cielo l’allontani per sempre dalla mia testa e m’immerga nell’umiliazione del più oscuro vassallo, che colpito di terrore e di rispetto piega il ginocchio dinanzi a lei!
Enr. Oh mio figlio, mio figlio! fu il Cielo che t’infuse l’idea di togliere questo serto, onde aver mezzo di riguadagnare l’affetto di tuo padre, giustificandoti con tanta saviezza della tua imprudenza. Avvicinati, Enrico, assiditi accanto al mio letto, e ascolta il consiglio, senza dubbio ultimo, che ti dà la mia voce moribonda. Il Cielo sa, mio figlio, per quali vie strane, per quai tortuosi passi io son giunto a questa corona, ed io so di quali cure essa mi ha riempita la testa, finchè la cinsi: ma sulla tua discenderà più bella ed onorata, poichè i rimproveri che mi costò il suo conquisto, andran sepolti con me nella terra. Ella non è sembrata in me che un onore strappato con violenza da mani imprudenti; e circondato ero sempre da testimoni rivi, che mi rimproveravano di non averla ottenuta che mercè loro; onde nascevano ogni di soggetti di contestazioni funeste. Mestieri era allora sempre lo sparger sangue e turbare una instabile pace; ed io spregiai e sostenni, lo vedi, con mio gran rischio, lotta sì ardita e terribile. Tutto il mio regno non fu a così dire che una scena in cui si dibattè sempre la maggiore delle liti; ma oggi la mia morte cambia le cose. Questa corona ch’io divelsi per forza, scende su di te con dritto più sacro e più legittimo; tu ricevi e porti il diadema in virtù di un titolo ereditario. Nondimeno, quantunque tu sia più sicuro sul trono ch’io non potei esserlo, non potrai regnare con sicurezza perfetta. Le piaghe gettano ancora sangue; i miei nemici, che devono divenire i tuoi, han perduto solo da breve il loro potere di nuocere; io poteva temere che quelli, le di cui illecite trasse m’aveano un tempo portato al trono, non me ne precipitassero; e per evitare tal destino, distrussi gli uni, e formato avea il disegno di guidar gli altri a Gerusalemme, onde il riposo e l’ozio della pace non desser loro volontà di esaminar troppo da presso la mia grandezza e le mie forze. Rammenta dunque, mio Enrico, questo consiglio; pensa ad intrattenete con guerre straniere gli spiriti inquieti e bollenti, onde spargere lungi da questo regno il fuoco di cui son pieni, e far perder loro la memoria dei tempi trascorsi. — Vorrei parlarti ancora; ma le mie forze languono... nè mi rimane più lena, e la voce si rifiuta all’ufficio delle parole... Gran Dio, perdonami le opere che mi condussero al soglio, e fa che mio figlio possa goderne in pace!
P. Enr. Mio amato sovrano, voi saliste su di esso e lo difendeste, e a me ora lo lasciata. Il mio possesso deve dunque esserne legittimo e placido, ed io lo saprò mantener contro gli sforzi di tutti. (entrano il principe Giovanni di Lancastro, Warwick, lordi ed altri)
Enr. Mirate, mirate viene il mio figlio Giovanni.
Gio. Salute, pace e felicità al mio real padre!
Enr. Tu mi arrechi felicità e pace, figlio mio, ma la salute, oimè! con ala giovanile è fuggita da questo nudo e sterile tronco: tu il vedi, le mie cure di questo mondo toccano al loro termina — Dov’è milord di Warwick?
P. Enr. Milord di Warwick?
Enr. Ha alcun nome particolare la stanza dove io svenni non ha molto?
War. Chiamata viene Gerusalemme, mio nobile lord.
Enr. Siano lodi all’Eterno! È là che la mia vita dovea compiersi. E’ m’era stato predetto già da molti anni, che morir non dovevo fuorchè in Gerusalemme; ed io follemente imaginavo la Terra Santa... Recatemi a quella camera; ivi poserò: in quella Gerusalemme deve mandare Enrico il suo ultimo sospiro.
(escono)