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Come la mia anima fu perduta alla grazia. 21


Come potete comprendere di leggieri, questo metodo di vita non era il più confacente ed igienico per un giovinetto diciottenne. Non posso dirvi precisamente come fossi, perchè non m’ero mai guardato nello specchio, ma novanta per cento l’indovinereste supponendomi magro e giallo come un cetriolo avvizzito, cavi gli occhi, foschi e biechi, i capelli irsuti, raso il mento, lunghe mani, collo piegato a terra, come avviene in tutte le persone che aspirano al cielo, curva la spina dorsale, il petto concavo e le spalle aguzze come i pioli d’una sedia. Il mio vestito consisteva in una tonacella metà laica, metà pretesca, che io avevo l’abitudine di tener sempre salda colle mani e ciò mi dava un contegno pudico che la marchesa Vavaroux non finiva mai di lodare.

Durante quei diciotto anni uscii dal castello una sola volta; avevamo in casa la cappella per assistere ai divini uffici, il parco per passeggiare, una biblioteca e i soliti amici; che volevasi di più?

Uno de’ miei lettori, un garbatissimo giovinotto al quale non bastano le dieci dita per numerare le sue conquiste, mi chiede sommessamente:

— E in mezzo a tutte queste mistiche occupazioni che cosa faceva il vostro corpo?

— Non ve l’ho detto? Si trasformava in cetriolo, alcunché che somiglia al citrullo.

Giungevo appunto all’apogeo della mia vita vegetale quando spuntò l’alba di un giorno memorabile; conviene che ve lo descriva in ogni parte, abbiate pazienza.

Era il ventinove di giugno; non so se splendesse il