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Ogni volta che egli ripeteva questi versi, Regina ricordava come si ricorda un sogno affannoso, la sera del suo arrivo a Roma. Ma Caterina rideva e smaniava ebbra di gioia, e ammirava più del solito il papà, col quale poi si dicevano tante cose, tante cose intime, comprensibili a loro soli. Cosa doveva fare Regina? Privare Antonio, che aveva lavorato tutto il giorno, del piacere di conversare con la bimba, strappargliela dal petto e portarla via? Regina non era così cattiva. Quando poi gli occhioni di Caterina diventarono languidi di sonno, e tutta la sua figurina si ammorbidì, s’abbandonò, grave e dolce come un frutto maturo, e Antonio disse: — Ora esco un pochino, — che doveva fare Regina? Dirgli: — No, rimani; devo dirti le cose orrende che io penso di te?

Era impossibile. Egli aveva ben diritto di andare un pochino fuori, almeno la sera, dopo una giornata di fatica. Ed egli uscì, e Regina si mise a leggere la rubrica dell’Avanti: «Ciò che succede nel mondo».


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Madame Makuline partì due giorni dopo, ma Antonio continuò a recarsi tutti i giorni al villino, — ov’era rimasto un vecchio domestico, — per sbrigare qualche affare.

La domenica seguente egli disse a Regina che il domestico gli aveva chiesto il permesso di assentarsi; e le fece veder due chiavi.

— Siamo finalmente padroni di un villino! — disse, scherzando. Allora Regina fu assalita da un’idea morbosa; invano per qualche istante cercò di respingerla.