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— Spicciatevi dunque, mia cara, riprese Nana, che capiva perfettamente, è ditegli che egli mi secca.

Ma, bruscamente ebbe una riflessione; l’indomani poteva sentirsi il grillo d’averlo; gridò ridendo ed ammiccando, con un gesto da monello:

— Al postutto, se voglio averlo, la più corta è ancor quella di cacciarlo via.

Zoè parve colpita, diede alla signora un’occhiata di ammirazione, e, senza esitare, andò a mettere alla porta lo Steiner.

Nana pazientò ancora un momento per dar agio di spazzare la casa, come diceva.

Che assalto era stato! Una cosa incredibile!

Allungò la testa in salotto: vuoto! la sala da pranzo vuota del pari.

Ma, mentre continuava la sua visita, chetata, certa che non ci fosse più alcuno, nello spinger l’uscio d’un gabinetto si trovò di contro un giovinottino, seduto sur un baule, cheto, cheto, d’un contegno savio, con un immenso mazzo di fiori sulle ginocchia.

— Ah! mio Dio! gridò. Ce n’è ancor uno qua dentro!

Il giovinottino, scorgendola, era balzato in terra, rosso, come un papavero. E non sapeva che fare del suo mazzo, che sì passava da una mano nell’altra, strangolato dall’emozione.

La sua giovinezza, la sua confusione, il burlesco aspetto che offriva coì suoi fiori, intenerirono Nana che uscì in una limpida risata.

Anche i bimbi, dunque? Or ora glie ne verrebbe uno in fascie!

Ed abbandonandosi con atto famigliare, materno, battendosi le coscie, domandò pazzamente:

— Vuoi dunque farti soffiar il naso, piccino? — — Sì, rispose il bimbo con voce sommessa e supplice. Quella risposta accrebbe l’allegria di Nana. Aveva diciassette anni; si chiamava Giorgio Hugon. La sera prima era alla Varietà, ed ora veniva a trovarla.

— Son per me quei fiori?

— Si