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Faceva troppo caldo in quello spogliatoio; vi era un’afa pesante, rinchiusa, come un tepore di serra. Le rose avvizzivano, e dal pagiuli in fondo alla coppa, saliva un effluvio d’ebbrezza al cervello.

— Si vorrebb’esser ricchissima, aggiungeva Nana, in queste occasioni. Insomma ognuno fa quel che può... Potete ben credere signori che se avessi saputo... Nel suo intenerimento stava per dire una corbelleria, se n’avvide e non compì la frase.

Per un momento restò impacciata, scordando dove aveva messo le cinquanta lire nel togliersi il vestito; ma si sovvenne che dovevano essere nell’angolo della toeletta, sotto un vaso di pomata arrovesciato.

Mentre si alzava, il campanello risuonò nuovamente e a lungo. Benone pensò. Un altro ancora. La non finirebbe dunque più!

Anche il conte ed il marchese s’erano alzati, e le orecchie di quest’ultimo si erano scosse, appuntandosi verso la porta; senza dubbio si riconosceva quelle scampanellate. Muffat lo guardò, poi i due uomini rivolsero altrove gli occhi. Si disturbavano a vicenda — tornarono freddi, l’uno robusto e saldo col volto ombreggiato da folti capelli, l’altro raddrizzando le sue magre spalle, sulle quali cadeva una rada corona di capelli bianchi,

— Affè! disse Nana, recando le dieci grosse monete d’argento e ridendo per trarsi d’impaccio... vi carico d’un peso! ma gli è per i poveri! E la graziosa pozzetta del mento le si affondava. Aveva la sua aria da fanciullona, senz’affettazioni, reggendo il mucchio degli scudi sulla palma, offrendoli ai due, come per dire: vediamo, chi li piglia?

Il conte fu il più pronto; prese le cinquanta lire, ma uno scudo rimase, e per pigliarlo gli toccò raccattarlo dalla mano stessa della giovine donna, e toccare la pelle tepida e morbida che gli mise un brivido nelle ossa.

Ella fattasi allegra, rideva ancora.

— Ecco, signori, riprese ella. Un’altra volta spero potervi dare di più.