Morbosità/Capo VIII
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CAPO VIII.
Il conte di Spa bussò piano alla camera di sua moglie.
Diana leggeva dinanzi alla finestra, ed alzò appena il capo:
— Avanti, avanti.
— Sono io, sai, per caso hai il volume di Michelet: Cristalisation de l’amour?
— L’avevo, non l’ho più, mi rincresce.
— Non importa.
Gastone sedette continuando a guardarla.
— Ne vuoi un altro? disse lei imbarazzata dallo sguardo di suo marito.
— No, ti disturbo?
— Niente.
Tacquero di nuovo non sapendo che cosa dirsi, o come incominciare a parlare.
Finalmente Diana chiuse il libro, s’alzò per non doverlo guardare in faccia, e cominciò a rovistare in un mobiletto intarsiato:
— Quando si apre la Camera, Gastone?
— T’interessa? disse lui ridendo:
— E a te no?
— Non più.
— Peccato, la politica è grande!
— E meschina.
— Secondo; dov’è andata la tua ambizione, Gastone?
— L’ho perduta, e tu ne hai?
— Io molto.
— Da quando?
— L’ho sempre avuta, non te n’eri accorto?
— No, mai.
— Strano. Di’ fatti portare candidato.
— Oh! è troppo tardi, non mi conoscono più.
— Bah! il tuo partito era convinto, disse Diana arrossendo della menzogna.
— Credi? rispose Gastone, riafferrato improvvisamente dalla vanità.
— Ne sono sicura, eppoi... via, Gastone, siamo molto ricchi.
— Hai ragione, hai ragione, tu m’aiuteresti?
— T’aiuterei.
— Grazie.
Gastone era ricaduto d’un colpo nel suo antico sogno; era bastata la lieve spinta di sua moglie, a risvegliare tutte le sue ambizioni assopite. Quell’uomo fatuo si vedeva già nell’aula protetto dallo splendore degli uomini d’ingegno, rimarcato per la sua correttezza elegante da diplomatico, che copriva così bene la vuotezza del suo cervello, rimarcato per la bellezza di sua moglie che lo irradiava un poco di sua luce.
Stette un momento in silenzio, poi:
— Sai, Diana, quando avrò tante medaglie da farsi una collana mi ritiro dalla vita politica, disse ad un tratto, sorridendo beatamente, come un fanciullo stupido.
Lei non rispose, aveva le lagrime negli occhi, il rimorso di quella finzione, l’ebbrezza nel cuore di poter seguire Attilio.
Elena rideva tenendosi ai tronchi degli alberi, ai pali delle viti; l’erba asciutta, lucidissima le scivolava di sotto i piedi, non poteva più fare la salita di quella collinetta.
— Via, qualcheduno venga ad aiutarmi, disse fermandosi ad un tratto, fingendo di non poter più andare avanti.
Era bellissima così nascosta fra le viti folte, colle foglie di un mandorlo basso che le incorniciavano la testa, cogli occhi scintillanti d’un fuoco strano che pareva ebbrezza, le labbra umide, frementi. Gastone di Spa la guardava dall’alto, sentendo un rincrudimento di passione che lo faceva impazzire, desiderando follemente di prendere una manata di fiori e gettargliela, poi di correre a lei, di portarsela via, per quella strada difficile, scivolando, di sentirla dare dei piccoli gridi di terrore, che gli salivano al cervello mordendolo acremente.
— Venite dunque, Gastone, disse lei gettandogli la sua voce argentina.
E lui venne, scendendo adagio, sempre fissandola, strappando qualche fiore selvatico e buttandolo a lei, che non lo coglieva, che guardava distratta verso il palazzo Santelmo che biancheggiava enorme, pesante, schiacciante colla sua mole che da qualunque punto si vedeva.
— Elena, gridò Gastone, fermandosi dinanzi a lei, perchè mi hai chiamato, che cosa pensi, che cosa guardi laggiù?
— Nulla.
A Gastone attraversò il cervello un pensiero brutto, le prese le mani ferocemente, stringendole:
— Parla, a che pensi, voglio saperlo, parla......
— Nulla, fece lei senza guardarlo.
— Bada, Elena, perchè mi chiami bada..... rimase fermo, fremendo di gelosia pazza per un rivale che intuiva.
— Gastone sei brutale, disse lei svincolando le mani rosse dalla stretta.
— No, ti amo, ecco, ti amo.
— Ancora? fece Elena ridendo ferocemente.
— Perdio! vedrai. E Gastone appoggiò la testa al tronco ruggendo come una belva.
Elena tremava un poco di paura, avrebbe voluto che Gastone l’amasse un po’ meno, avrebbe voluto liberarsi da una catena che gli aveva gettato scherzando ed aveva legato anche lei.
Non si perdette di coraggio, esitò un momento:
— Via, Gastone, sei ammalato oggi.
Lui si volse:
— Abusi, Elena.
— Del tuo amore? ma, no. È vero ciò che mi ha detto Diana che vuoi tornare a Montecitorio?
— È vero, non vuoi?
— Anzi, ci ho caro.....
— Ch’io me ne vada, neh Elena?
— Che sciocchezza! sembri un bambino cocciuto.
— Elena, mi ami ancora?
— Sì, ti seguo a Roma, sai.
— Davvero, Elena, davvero?
— Sì, sì..........
Gastone, vinto, le baciò le mani chiedendole perdono, colle lagrime negli occhi, senza guardare il volto di lei, che aveva preso una espressione infinita di trionfo.
Diana appariva dall’alto tutta pallida nel suo abito nero, sorridendo lievemente ai due che stavano in fondo:
La marchesa s’appoggiò al braccio di Gastone, quando fu dappresso all’amica, disse tranquillamente:
— Ho vinto una battaglia!
— Infatti il terreno è difficile, Elena.
— Ed io l’ho guadagnato.
— Volete la corona? chiese Gastone ridendo.
— Da voi no, conte, sarebbe troppo.
La baronessa Torre camminava dappresso al conte Sangui sorridendogli in faccia graziosamente, e guardando dall’altra parte nel gruppo degli uomini che parlavano vivamente.
— È piena d’ambizione quella contessa Diana, disse Sangui; voler far risorgere suo marito che stava così bene nell’ombra.....
— Credete proprio che sia una tattica elettorale?
— Diamine per che cosa volete che inviti a casa sua tutti questi borghesucci di provincia?
— Perchè in fondo s’annoia.....
— Non credo.
— Voi, conte, siete orribilmente intrigante, lasciate che s’aggiustino. - Per chi voterete?
— Sono pel conte Raul.
— Perchè?
— Per convinzione.
— Io voterei per di Spa.
— Perchè?
— Per simpatia.
— Badate che vi senta la marchesa Elena!
— Credete proprio?.....
— Ci vuol poco, è chiaro.
— Povera Diana! replicò la Torre guardando la contessa di Spa che passeggiava parlando vivamente col sindaco.
La baronessa e Sangui passarono loro accanto e raccolsero a volo una frase del sindaco, che rispondeva a Diana arrossendo, balbettando, trovandosi estremamente fuor di posto in quella casa troppo ricca, fra padroni troppo educati e servitori troppo superbi che lo impacciavano:
— Vostro marito avrà tutta la maggioranza, tutti i voti di cui posso disporre sono per lui.
— Siete molto buono, Derenzi, mio marito farà di tutto pel suo paese.
Il buon uomo sogguardava Diana tremando di contentezza d’averla vicino, sentendosi onorato da quella confidenza aristocratica, che innalzava la sua borghesia, non pensando menomamente al secondo fine di quelle cortesie, dimenticando affatto ch’era lui che obbligava promettendo i voti al conte, confuso di non poter corrispondere abbastanza bene.
Gastone aveva ripreso perfettamente il suo contegno alteramente gentile d’uomo che sa di essere quello che è.
Parlava a tutti con una specie d’indulgenza affabile mostrava i suoi vastissimi tenimenti a tutti quei contadini arricchiti fra il grano, il granturco, ed il concime, coll’aria di voler loro dire che la sua ricchezza era un vantaggio pel paese, che egli si occupava del miglioramento e del progresso dell’agricoltura, e per dare del lavoro agli operai.
Lentamente, con molta grazia svolgeva dinanzi a loro tutto il suo programma elettorale; qualcuno s’incantava, altri diffidava, pensando profondamente al bene che poteva derivare loro che il conte di Spa godesse pacificamente le rendite di tre milioni. Il dottore, un giovane che aveva sacrificato il suo ingegno, e le sue aspirazioni al bisogno urgente di guadagnare uno stipendio; che aveva soffocato la sua passione per la scienza, tutte le sue grandi ambizioni in quel piccolo paese di provincia, guardava quel gran signore che lo onorava della sua confidenza, con un grande disprezzo ed una infinita amarezza sentendosi impotente a sollevarsi di sotto il grande, inesorabile peso del danaro altrui, deciso in cuor suo, di gettare nell’urna un voto contrario, intimamente convinto di fare così un bene al suo paese.
Il segretario comunale, guardava, esaminava attentamente la faccia del sindaco, a cui doveva mille lire per un campo, e di cui si era messo a perfetta disposizione.
Il conte Gastone di Spa aveva pretestato quel pranzo tutto politico, coll’inaugurazione di un nuovo padiglione in una nuova vigna.
I pampini grossi, verdi, si piegavano sotto il peso dei grappoli, e tutti ammiravano quel primo raccolto ch’era stupendo. Il conte Raul, invitato da Gastone, era venuto non pel pranzo, ma dopo; era venuto per convenienza, per finezza, ed anche per furberia.
Le persone si dividevano a gruppi, sparpagliandosi pel parco, le signore al braccio dei cavalieri, cercando ogni modo per mescere bene la borghesia ed i nobili, e non riuscendovi che a metà, restando ciascuno al proprio posto per naturale attrazione.
Diana affascinava colla sua grazia squisita, resa più bella dall’agitazione interna del suo cuore; Elena era splendida, rideva con tutti, motteggiava il dottore, che le rispondeva molto bene, la confondeva anche colle sue risposte superiori dell’uomo d’ingegno, che non vede altra corona che quella d’alloro, altro blasone che la gloria.
Fu il sindaco che diede il segnale del congedo, inchinandosi profondamente, ammicando troppo apertamente alla contessa Diana per farle intendere che aveva tutto il suo appoggio, balbettando al conte frasi scucite di ringraziamento; il segretario ripeteva. Il dottore per non umiliarsi era soverchiamente altero con tutti, eppoi per la confusione, al cancello disse grazie al servo che gli teneva la porta.
Rimasti soli casa di Spa, Elena, Raul, la baronessa e Sangui, regnò fra di loro un po’ d’imbarazzo.
Si capivano tutti molto bene, profondamente, fino in fondo ai pensieri, e non volevano farselo vedere.
Portavano il discorso sull’autunno, sulla campagna, sulla bonomia del sindaco, e sull’orgoglio del dottore, trascinando le frasi che non volevano correre; guardandosi in faccia come per dire: Saremo a posto?
Raul sorrideva finemente, tranquillo di sè, compassionando quei mezzucci.
Il duca San Pietro venne sul tardi da Firenze in una egoista tirata dal suo bel cavallo sauro. Diana gli sorrise con grande dolcezza, ma un po’ melanconicamente.
— Dunque? - disse Attilio avvicinandosi a lei, e fingendo di esaminare attentamente il tavolinetto rustico del pergolato.
— Bene, - rispose Diana pianissimo, voltando la faccia.
Il sole s’era allontanato lentamente, e su quell’angolo di parco era scesa all’improvviso la pace solenne dell’abbandono; la fontana aveva perso il suo scintillìo di fuoco liquido, e pareva un fantasima che s’ergesse solitario fra le alghe verdi, grasse, che gli salivano al fianco; il rumore cadenzato, monotono dell’acqua gorgogliante pareva abbassarsi in un lamento sordo, continuo, straziante d’anima sofferente. L’aria bigia, fresca, entrava tra le foglie scuotendole, i fiori perdevano il colore vivido, il sorriso, si appannavano, era il principio dell’ombra, della notte, del riposo.
Diana continuava a star ritta, ferma, su quell’altura, e Attilio ritrovava la luce che fuggiva rapidamente in quel sorriso raggiante, luminoso, divino; la contemplava là fra il vapore del crepuscolo che le tingeva di roseo l’abito bianco, lievemente, come una nube. Il sole curvandosi giù dietro Firenze le baciava i capelli con un ultimo raggio fermo, insistente, che indugiava a sparire e la circondava d’un pulviscolo d’oro.
— Diana, - disse lui finalmente, avvicinandosi affascinato al promontorio dov’ella era, - Diana datemi una parola, uno sguardo, un filo d’erba che voi calpestate, sembrate una visione di cielo; Diana non involatevi come il raggio di sole, parlate, movetevi, divina, divina...
Diana scese lentamente, diede la mano ad Attilio senza dire una parola, un po’ pallida, si guardò attorno, arrovesciò il capo:
— Com’è bello, com’è bello!....
La fontana gorgogliava, monotona, cupa, straziante come il lamento d’un’anima sofferente.
Parlavano piano istintivamente perchè era buio d’attorno, perchè anche i fiori, anche le piante con un lieve fruscìo parevano farsi delle intime affettuose confidenze, perchè un fremito indistinto aleggiava in quell’aria fresca ed umida dell’autunno.
Elena camminava accanto al conte Raul, fermandosi ogni tanto, come stanca.
Lui guardava profondamente nell’oscurità della campagna come seguisse la sua visione che gli scintillava dinanzi, lei gli posò improvvisamente la mano sul braccio, una mano ardente e secca:
— Quanto arrovellarsi, quante battaglie quante vittorie, a prezzo del vivo sangue dell’animo, per l’eterna ambizione di voialtri uomini...
— Per la gloria, marchesa.
— E per l’amore, conte.
Si guardarono un momento; in quel buio del viale, solo il volto d’Elena spiccava bianchissimo.
— E per l’amore, avete ragione, marchesa.
Tacquero; quella mano piccola, bianca, le cui gemme che l’adornavano, avevano un bagliore strano, che a tratti pareva più intenso, tremulo, non si muoveva dal suo braccio, anzi s’appesantiva, pareva avvinghiarlo, pareva attaccargli un fuoco morboso che gli dava dei piccoli brividi; dai capelli di lei saliva un profumo sottilissimo che lo assopiva, provava lo stordimento dell’asfissia, quegli occhi lucenti, grandi, neri come abissi profondi lo incantavano. Mai aveva sentito tanto potentemente il fascino di quella donna come in quella sera buia, senza luna, senza palpiti di stelle nel cielo; mai l’aveva sentita appoggiarsi con tanto abbandono alla sua persona. Elena pareva triste, pensosa, una velatura di lagrime le abbassava la voce profonda; un piccolo fremito la scuoteva di tanto in tanto.
Raul sentiva un palpito violento al cuore, senza sapere perchè, come se avesse provato un grande spavento.
Gli occhi azzurri di Costanza, ch’egli vedeva colla mente, non vincevano l’oscurità piena di burrasche degli occhi d’Elena. Soffriva un malessere strano, quelle parole susurrate da lei, con quella sua voce piena di triste amarezza, gli si ripercuotevano nel cervello con un martellío sordo, continuo: E per l’amore conte.
Istintivamente prese la mano nella sua, e se la passò sotto il braccio:
— Appoggiatevi, marchesa, - disse piano con voce rauca.
D’improvviso una luce bianca, lieve, si fe’ loro dinanzi; cessava il viale e cominciava la campagna.
Erano nel tratto più solitario del parco, non un rumore di voci più si sentiva, il fruscìo indistinto delle piante addormentate accarezzava l’orecchio dolcemente, una stella era nel cielo fra due grandi nubi, una sola, splendida.
Un’ondata potente di passione secreta, indefinita, straziante, gravava sull’animo di Raul, un profumo di menta saliva su dalla siepe, di tanto in tanto più intenso, poi più vaporoso, perdendosi nell’aria pungente, e ritornando più acuto d’improvviso, con un insulto di vento che batteva in faccia.
— Conte, ci perdiamo, - disse Elena guardando attorno lentamente, - così ci perderemo nella vita... Raul ci scorderemo; la vita travolgerà voi e Costanza, la vostra dolce Costanza, io errerò ricca, invidiata, folleggiando, trascinando il vuoto immenso del mio cuore, trascinando le mie memorie... il mio sogno, - soggiunse pianissimo, dopo una pausa.
Raul tremava, lei continuò:
— Voi nulla sapete del mio passato, nevvero conte?
— Nulla, rispose lui monotonamente.
— È triste, Raul... - stette muta guardando in cielo la stella tremula, palpitante.
— L’amore vi sorrise, marchesa.
— L’amore! ecco l’eterna menzogna; l’amore. Di questa parola ch’è tutto un poema, gli uomini sciocchi ne hanno fatto un libro volgare, un romanzo da biblioteca amena, aperto a tutte le donne per poco belle che siano, per poco civette, per poco furbe. L’amore, quella grande manifestazione della immensità di Dio, ce lo appiccicate come una toeletta nuova che ci calzi bene, e non comprendete che noialtre donne abbiamo un cuore che sente come cento dei vostri, che abbiamo una fantasia ardente che ci trascina, che noi l’amore lo intendiamo nelle più lieve sfumature, nelle più delicate manifestazioni. Anche voi, Raul, così nobilmente, così tenacemente, così... stranamente innamorato, potete credere ch’io sia stata felice per l’amore? da chi?
— Vostro marito; - rispose il conte, senza sapere che cosa diceva, gettandole in faccia quel nome come una provocazione.
— Mio marito... - riprese Elena, calma ad un tratto: ebbene, Raul, chi vi ha detto che mio marito mi sapesse amar bene? Oh! il marchese mi dava tutta la sua melanconica passione di etico innamorato, fatta di molli carezze, e di blandi profumi. Quella passione strana degli ammalati, profondamente egoista, che richiede continui sacrifici da chi ne è l’oggetto; oh! Raul ho molto sofferto per l’amore di mio marito, che mi dava un olezzo di fiori gialli da camposanto.
Tacque come esausta.
Raul sentiva una profonda pietà per quella donna bellissima, che parlava con tanta passione, che anelava all’amore vero, potente, che si trovava sola, derelitta, incompresa fra il bagliore d’una ricchezza immensa, fra l’incenso d’una adorazione che tutti gli uomini votavano alla sua bellezza, al suo spirito, al suo fascino, e di cui forse non uno comprendeva il cuore profondamente triste e assetato d’amore.
Vedeva quella regina della grazia confessarsi a lui ingenuamente, appoggiata al suo braccio in un momento d’abbandono, piena di fiducia, coll’animo traboccante d’amarezza. La gentile persona di Costanza, appariva splendida, nel suo candore innocente di fanciulla, col fascino naturale dei suoi occhi grandi, e del suo volto soave di vergine che ama profondamente, nobilmente, il prescelto del suo cuore, ma senza battaglie, senza raffinatezze di fantasia ammalata, senza tensione di nervi. Raul pensava alla sua fidanzata, ed un rimorso lo pungeva di trovarsi in quel momento lontano da lei, in quella campagna solitaria e buia, con quella creatura bellissima che gli rubava i battiti violenti del cuore, che lo stordiva coll’incanto della sua persona, che appannava, che impallidiva la adorata figura di Costanza.
Pensava a lei profondamente cercando con disperato, intensissimo desiderio di ripercuotersi nell’animo le emozioni d’amore che per tanto tempo l’avevano incatenato.
— Mi avete compreso, conte - disse Elena ad un tratto.
— Marchesa, vi comprendo, vi ammiro, e... vi compiango.
— Anche?
— Anche, perchè l’amore è la vita.
— Lo dite voi, Raul, a cui l’amore sorride... siete felice voi, conte...
— Chissà! - esclamò Raul, che si sentiva la testa in fiamme. Si pentì subito, riprese stringendo convulsamente la mano d’Elena:
— Non merito l’amore di Costanza, marchesa, non lo merito.
— Perchè, Raul, perchè? domandò Elena, incalzando, colla voce soffocata.
— Perchè non l’amo abbastanza, perchè sono debole, perchè sono vile... perchè ripensando a lei ch’è una santa, a lei che mi ama, che ho adorato per tanto tempo, non ritrovo più il fascino d’allora, perchè quella figura d’angiolo m’appare fredda, senza una scintilla, perchè sono un pazzo ammalato...
— Come, l’amate, Raul! - disse Elena piegando la testa sul petto, come dev’essere superba di voi Costanza... lei ha tutto il trionfo della vittoria, senza lo strazio della battaglia, lei nulla sa della vita... nulla degli acri dolori dell’anima!
Ritirò piano la mano dal braccio di lui, e se la passò sulla fronte:
— Raul, non rammaricate nulla, il vostro amore è grande e sublime, non compiangete... Costanza.
Come Elena si staccò da lui, a Raul parve di restar solo, debole, disperso nel vuoto, provò come una grande vertigine.
— Elena, - disse, - venite accanto a me. Oh! io sono vile, ma voi siete terribile!
Qualche goccia cadeva dal cielo grossa, rada; la stella era scomparsa, Elena s’attaccò a lui disperatamente, trascinandosi, i suoi capelli sfioravano la guancia del conte, il palazzo Santelmo da quel punto non si vedeva, celato nell’ombra, il cuore di Raul si spezzava, il suo casto amore agonizzava contorcendosi sotto il fascino potente, morboso d’Elena...
— È la tempesta, conte...
— E l’amore, Elena... disse Raul singhiozzando.