Capo IX

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Capo VIII

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CAPO IX.

In quel salone troppo illuminato, in cui vibravano ancora le ultime note d’un valtzer di Strauss, in cui aleggiava un profumo strano, acuto di fiori, d’essenze, di carne rosea di belle donne spallate, rimasero soli Diana, Elena, e Gastone. - Su di loro era sceso improvvisamente una specie di freddo, un senso di sbalordimento, quasi di tristezza.

La contessa di Spa vestita di broccato bianco filettato d’oro, scintillante di brillanti, sul petto e sui capelli, ai polsi, stava ritta dinanzi all’alto specchio, togliendosi adagio i guanti che si laceravano fra i braccialetti; guardando distrattamente i servi, che stavano ritti automaticamente alle quattro porte della sala pensando profondamente al riposo perduto per quella festa da ballo dei padroni. Le candele consumavano rapidamente colando sulle bobeches d’argento; sopra un tavolinetto in un angolo v’era un calice di sciampagna intatto, dimenticato forse, e Diana pensava vagamente che in quel posto avea visto il conte Raul; ma un altro calice scintillava intatto sopra una caminiera, colle piccole bolle effervescenti [p. 109 modifica]del vino, rincorrentesi, uguali rotonde come tante perline gialle.

Certamente la danza aveva trascinato potentemente tutte quelle creature belle e giovani o brutte e attempate, ma profondamente desiose di cacciarsi nella pazza vertigine del ballo, di quella antica e splendida follia che stordisce e procura tante squisite, intime sensazioni.

Certamente qualcuno s’era scordato l’ebbrezza del vino per l’ebbrezza di un sorriso, di una parola.

Diana era stanca, ripensava, ripeteva mentalmente le parole di Attilio, ed il suo cuore accarezzato da quell’amore potente, si struggeva di amarezza, si rivoltava di dover scendere a delle finzioni volgari.....

Tutte le parole cortesi, ardite o appassionate che le erano state dette in quella notte, da tanti uomini che l’avevano ammirata, le ronzavano indistinte, lei le confondeva nella mente e non ricordava s’era il baronetto Aquila che le aveva detto che era terribilmente splendida, od il contino Gandi, quel giovinetto tanto innamorato della Roccabruna che era invecchiato in due anni dietro le quinte fra le dive, ubbriacandosi per dimenticare, stando tutti gli intermezzi degli atti accollato al telone per vedere da un foro la vedova del ministro che si faceva corteggiare in un palchetto di prim’ordine.

Elena aveva arrovesciato la testa sulla spalliera della poltrona, aveva chiuso gli occhi, come se avesse avuto un estremo bisogno di riposo, [p. 110 modifica]col ventaglio mezzo aperto fra le mani che lo stringevano debolmente, restando così in quell’abbandono più bella, più splendida che nella vivacità chiassosa della danza. La sua vittoria era completa, piena e dolcissima, ed ella la assaporava voluttuosamente.

Raul le era caduto ai piedi, le aveva dato tutto il suo amore, le aveva offerto tutto il suo avvenire, il suo nome; Raul era suo. Quel grande, superbo, innamorato Raul!

Gastone guardava fuori l’alba rosea, colle mani convulse che si stringevano contorcendosi, col cuore che si rompeva sotto lo sparato lucido della camicia, sotto la gardenia che gli aveva puntato Elena prima del ballo, scherzando; col cervello che scoppiava sotto i capelli neri, lucidi, un po’ radi.

Stettero così un momento, assorti, muti, poi Diana si mosse.

Gastone venne accanto ad Elena, la guardò un momento, con una infinita espressione d’odio e di sprezzo.

— Pensate a che cosa, donna Elena?

— A nulla.

— Pensate al marchese vostro marito ch’è morto lontano da voi, chiamandovi, desiderandovi e che non ebbe il conforto di abbracciare la vostra splendida e fredda persona?

— Come siete duro, conte!

— Pensate al vostro passato, alla lunga via che avete percorso, inciampando ad ogni passo, [p. 111 modifica]infangandovi ad ogni caduta e risollevandovi sempre più bella, più finta, più terribile?

— Come siete volgare, conte!

Pensate all’azione che avete fatto rubando Raul ch’era sposo, ingannando me che vi amavo come un pazzo, ingannando tutti? pensate a quanto siete infame, a quanto siete bassa, a quanto siete odiosa, Elena?

— Come siete villano, conte!

Si alzò pallida di collera, lui disse ancora: pensate a Raul, ditemi.

— Sì, sì, penso a Raul che mi ama e che io amo perdutamente, conte, perdutamente, come non ho amato mai.

Gastone livido, tremante, pazzo d’ira, d’umiliazione disse forte:

— Diana, fa uscire di casa tua la marchesa Elena Malaspina perchè è una perduta.

Diana si volse atterrita, senza respiro, smarrita, guardando suo marito che credeva pazzo.

— Dio! Dio! gridò Elena, scattando rossa, viperea, ha ragione tuo marito, sono la sua amante! hai capito? la sua amante!

Stettero un momento guardandosi, poi Diana afferrò le mani d’Elena.

— È vero, sogno, è vero, tu?

— Vigliacchi! urlò cadendo rinversa......

I servi nella stanza vicina bisbigliavano sommessi.


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I padrini si scostarono per lasciare il posto al medico; il conte Gastone di Spa, stava ritto, pallidissimo appoggiato al tronco d’un albero, Raul bianco cogli occhi aperti, le mani raggrinzite, agonizzava, la palla gli aveva rotto la clavicola e forato il polmone: il dottore lo fece portare adagio nella carrozza, mentre un fiotto di sangue gli usciva a stento dai denti stretti, colando sulla camicia, sull’abito, in terra. Il lento, triste convoglio attraversava la campagna silente, velata d’una nebbia densa, azzurrina. Raul guardava fuori dello sportello, cogli occhi spenti, cercando di acuire tutta la sua facoltà visiva, per scorgere il palazzo Santelmo; con un delirio di moribondo credeva che fosse là, in quell’angolo desolato di terra brulla. Gastone colla testa fuori del cristallo seguì cogli occhi la carrozza di Raul, finchè potè vederla, poi si rincantucciò tremando provando tutto lo spasimo tremendo del delitto. La sua debolezza di carattere ritornava a dominarlo; quell’uomo fatuo, nullo, aveva ucciso un uomo ed aveva paura.

Appena il sangue calmò il suo sbocco, Raul cominciò a parlare, lentamente, interrompendosi, esalando a poco a poco l’anima colle parole.

— Dite alla soave..... santa Costanza..... che mi perdoni..... che preghi..... che mi scordi..... fui vile, è giusto ch’io muoia..... ditele che quella donna..... Elena..... mi era entrata nel cuore..... lentamente..... ubbriacandomi a poco a poco di tutti i suoi fascini morbosi, di tutti i suoi [p. 113 modifica]incanti pieni di misteri..... e di deliri segreti..... ditele che non pianga.... Morì così, in un soffio.


Diana e Attilio stavano di fronte, l’uno all’altra, muti accasciati, affranti. Quella casa vuota in cui il marito non era più tornato da quella notte; in cui la contessa Diana si trovava sola, dispersa, come lanciata in un abisso, metteva loro paura.

Il loro amore immenso s’ingigantiva, prendeva le proporzioni di un colosso strano, enorme che poteva da un momento all’altro schiacciarli: si guardavano negli occhi atterriti, pallidi, più innamorati e più tristi più grandi nella sublimità del loro sacrificio. Loro due s’erano saputo amare, aveano saputo lottare le aspre, terribili, sanguinose battaglie del cuore, ed avevano vinto. La loro vittoria era costata lagrime di sangue ma non un momento avevano esitato a rompere, distruggere, calpestare il santo sogno di tanti anni. Non una macchia adombrava il purissimo orizzonte del loro amore; quei due martiri del dovere stavano sul punto di dividersi, di dirsi l’ultimo straziante addio; le loro anime battevano ancora le ali candide in un supremo, intenso desiderio di volar via congiunte per le azzurre trasparenze d’un amore infinito.

Era una lotta straziante, ma intima, segreta, eroica. Senza parlare, colle mani strette nelle mani, colle lagrime che tremavano loro negli [p. 114 modifica]occhi pronte a sgorgare, assistevano al supplizio dei loro cuori che si rompevano, che stillavano le ultime goccie d’un sangue ardente, che agonizzavano.

In quella stanzetta profumata, tiepida, senz’angoli, nascosta come un nido, gentile come il calice d’un fiore, si svolgeva l’eterno sacro poema dell’amore e del dolore.

Basta, disse Diana, d’un tratto, alzandosi, barcollando, bianca come un fantasima, addio, Attilio, parti..... che un altro cielo più azzurro ti sorrida.... non tornare più per lungo, lungo tempo.... ch’io non ti veda finchè gli anni non abbiano ingiallito queste splendide pagine della nostra passione, finchè ci possiamo rivedere calmi, sereni, senza che il nostro cuore palpiti ed i nostri volti impallidiscano..... va... va....

Tremavano entrambi sopraffatti dall’angoscia.

— Diana, santa, non posso, è orrendo, non vedi che muoio,....

— No, no, va Attilio, pórtati via la mia anima, tientela, che il pensiero del mio amore ti conforti; il mio amore che è eterno.

— Diana, Diana, perdonami tutto questo martirio, perdonami l’amore che ti ho inspirato: raccogli questo cuore, seppelliscilo col tuo e non scordarlo. Non tornerò, Diana, non verrò a turbare la tua vita di santa: ti pregherò nella mia solitudine, piena di lagrime, nel buio del mio avvenire: la mia colpa fu grande, ma l’espiazione è terribile.

Diana delirante, sentendosi a morire, lo [p. 115 modifica]spingeva pian piano verso la porta, tenendo gli occhi sbarrati col respiro anelante.

— Va..... va..... balbettava sommessa.....

— Un bacio sui tuoi capelli, Diana, uno solo.....

— Quando saranno bianchi.

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Come lo vide partito, diede un grido: Mio Dio, vi ringrazio!


Gastone di Spa, triste, invecchiato in pochi giorni, leggeva il giornale che lo annunziava deputato al Parlamento; la sua vanità accarezzata lo faceva arrossire lievemente. - Però l’anima era affranta; amava ancora potentemente la marchesa Elena Malaspina, ch’era fuggita via lontano, portando il lutto di Raul, e soffriva orrendamente per quest’amore spezzato.

Pensava a sua moglie, che non aveva più rivisto e l’onta lo faceva tremare.

Aveva ricevuto una lettera di lei e non osava aprirla: ruppe il suggello dopo molta esitazione:

Conte di Spa.

Non discendo a farvi rimproveri inutili, che sarebbero un’umiliazione per me; solo vi avverto ch’io vi rendo il nome che mi avete dato voi quattro anni fa: ve l’ho conservato intatto meglio di quanto avete fatto voi stesso. Io ritorno da mia madre, colà cercherò di dimenticare forse; riprendetevi le vostre ricchezze, non cercate di rivedermi.

Diana Malvezzi.

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Gastone stette un momento soffocato dalla commozione, aveva perduto tutto. La visione splendida di Roma gli si oscurò d’un tratto dinanzi. Roma gli parve un deserto immenso che lo aspettasse per seppellirlo nei suoi fulgidi miraggi; gli parve di veder Raul e sussultò, poi nascose la faccia tra le mani e pianse a lungo.....