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solenne dell’abbandono; la fontana aveva perso il suo scintillìo di fuoco liquido, e pareva un fantasima che s’ergesse solitario fra le alghe verdi, grasse, che gli salivano al fianco; il rumore cadenzato, monotono dell’acqua gorgogliante pareva abbassarsi in un lamento sordo, continuo, straziante d’anima sofferente. L’aria bigia, fresca, entrava tra le foglie scuotendole, i fiori perdevano il colore vivido, il sorriso, si appannavano, era il principio dell’ombra, della notte, del riposo.
Diana continuava a star ritta, ferma, su quell’altura, e Attilio ritrovava la luce che fuggiva rapidamente in quel sorriso raggiante, luminoso, divino; la contemplava là fra il vapore del crepuscolo che le tingeva di roseo l’abito bianco, lievemente, come una nube. Il sole curvandosi giù dietro Firenze le baciava i capelli con un ultimo raggio fermo, insistente, che indugiava a sparire e la circondava d’un pulviscolo d’oro.
— Diana, - disse lui finalmente, avvicinandosi affascinato al promontorio dov’ella era, - Diana datemi una parola, uno sguardo, un filo d’erba che voi calpestate, sembrate una visione di cielo; Diana non involatevi come il raggio di sole, parlate, movetevi, divina, divina...
Diana scese lentamente, diede la mano ad Attilio senza dire una parola, un po’ pallida, si guardò attorno, arrovesciò il capo:
— Com’è bello, com’è bello!....
La fontana gorgogliava, monotona, cupa, straziante come il lamento d’un’anima sofferente.