Memorie (Bentivoglio)/Libro secondo/Capitolo VI
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Capitolo VI.
Nell’andare in Francia vedesi il legato col duca di Savoia in Tortona, e al congresso loro interviene il conte di Fuentes nuovo governatore di Milano. Quindi il legato passa l’Alpi; negozia col re a Ciambery, e piú strettamente in Lione, e dopo grandissime difficoltá conclude una forma nuova d’accordo fra il re e il duca. Parte egli da Lione e va per mare a Genova, e di lá passa a Milano. Ratifica il duca l’accordo e vedesi col legato, il quale seguitando il viaggio ritorna con grandissimo onore e applauso a Roma.
Dunque lasciata che ebbe Fiorenza, e uscito che fu di Toscana, il legato con ogni celeritá se n’andò a Bologna, e di lá a Ferrara, sua legazione ordinaria e da lui esercitata nel modo che giá da me si è riferito di sopra. Quindi egli prese il cammino di Parma, e si trattenne solamente in quella cittá quanto bastava per le reciproche dimostrazioni d’affetto e di stima che dovevano passare fra lui e il duca e la duchessa novella sposa, nepote sua, in quella fuggitiva occasione. In prima egli fu invitato dal conte di Fuentes gionto a Milano pochi di prima a voler passare per quelle parti, mostrando il conte gran desiderio di vedersi con lui avanti che si abboccasse col duca di Savoia in Piemonte. Accettossi volontieri dal legato l’officio, e partito da Parma trovò il conte alla Stradella, luogo su quel confine. Quivi esso conte lo ricevè con ogni maggior splendidezza e rispetto, e lo condusse di lá poi a Voghera dove si trattennero alquanto, e cominciorno a trattare insieme sopra il maneggio che portava seco il legato. E perché il conte desiderava di trovarsi all’abboccamento che dovesse seguire tra il legato e il duca, perciò spedi con diligenza un corriero al duca e l’invitò a venire per tal effetto a Tortona, e fra tanto il legato e il conte si trasferirono in quella cittá.
Del conte di Fuentes e delle militari sue imprese di Fiandra io di giá ho parlato a lungo nella mia Istoria particolare di quei paesi. Onde ora qui soggiongerò solamente alcuna cosa di piú intorno alle qualitá personali sue proprie. Trovavasi egli allora di giá molto innanzi con gli anni, ma con vigorosa e prospera sanitá gli portava. Era d’alta e ben formata corporatura, di faccia militare e che al rigido pendeva piú che al severo; pregiavasi d’essere uscito dalla scola del duca d’Alba, d’aver quei sensi e d’osservar quella disciplina: cauto perciò molto piú che arrischiato, pieno ancor’egli di alterigia e di fasto, sprezzatore d’ogni altra gloria nell’armi a paragone della sua, come anche d’ogni altra potenza d’Europa in riguardo di quella del re di Spagna.
Ma in ogni modo e per vigilanza e per disciplina e per virtú di consiglio e per vigor di comando e per altre sue qualitá militari, degno allievo di un sí gran capitano come fu il duca d’Alba, e degno insieme d’essere stimato il primo che avesse in quel tempo la nazione spagnuola; né gli mancavano le qualitá che potevano essere piú necessarie ancora quando gli bisognava passar dall’armi al negozio e dalla professione militare al ministerio civile.
Mentre si aspettava il duca di Savoia a Tortona, si trovarono il legato ed il Fuentes piú volte insieme a lunghi ragionamenti, e si dichiararono l’uno e l’altro di voler trattare con ogni maggior libertá e confidenza tra loro di tutto quello che poteva occorrere in tale occasione. Mostrò dunque il legato al Fuentes di sapere quanta parte egli avrebbe nelle risoluzioni che il duca di Savoia dovesse pigliare, e che in lui avrebbe anco rimesso il re cattolico la parte principale del suo proprio interesse. Che in somma da lui doveva quasi in primo luogo dipendere la pace o la guerra nella presente occorrenza, e che perciò esso legato prima d’ogni altra cosa desiderava di sapere se in effetto si voleva la pace in Spagna, e se egli medesimo era inclinato a volerla. Potersi credere che in Spagna si conoscesse quanto al nuovo re per infiniti rispetti ciò convenisse, potersi giudicare similmente che dal medesimo Fuentes la pace si dovesse desiderare molto piú che la guerra, poiché in questa non poteva accrescere la gloria di giá acquistata fra l’armi; lá dove all’incontro poteva rendersi ora quasi non men glorioso in quella; che nondimeno per onore del pontefice suo zio e della sede apostolica e per sua propria riputazione, conveniva ch’egli in ogni modo sapesse la vera intenzione del re e dell’istesso Fuentes intorno a questo punto cosí essenziale; poiché volendosi in Spagna la pace e potendo egli portarne seco qualche pegno sicuro in mano, seguirebbe il cominciato viaggio, e scoprendo i sensi contrari tornarebbe a Roma piú tosto che inutilmente continuare la sua legazione.
Al discorso del legato rispose il Fuentes che in Spagna sinceramente si desiderava la pace; giurò da cavaliere ch’egli stesso la desiderava quasi non meno che il papa; che vi cooperarebbe con ogni spirito, ma però salva sempre la riputazione del suo re, e non in altra maniera; che quanto al venir a piú stretti termini era necessario di aspettare l’arrivo del duca di Savoia, col quale vivamente tentarebbe di superare le difficoltá che dalla parte di lui s’incontrassero.
Replicò il legato al Fuentes che senza dubio sarebbero grandissime l’opposizioni che il duca farebbe, come quegli che ugualmente abborriva e la restituzione del marchesato e la ricompensa per via del cambio con Pinarolo di qua da’ monti; che ora egli si mostrava tutto acceso di dolore e di sdegno per vedersi la guerra addosso col re di Francia in persona, con la Savoia in gran parte di giá perduta e col pericolo d’altre perdite che potevano soprastargli. Onde fra tali e si focose passioni troppo difficilmente potrebbe egli dar luogo a moderati consigli; conoscersi ch’egli voleva la guerra, che procurava di tirarvi il re cattolico in ogni modo, che di giá parlava intorno alla causa del marchesato come di causa del re intieramente, e che in somma tutti i suoi fini erano d’impegnar a nuovo rompimento le due corone. Dunque esser necessario che il conte supplisse dove il duca mancava o piú tosto eccedeva, e appunto giacché la causa del marchesato era divenuta causa del re cattolico, giacché in mano del conte era la direzione principale di questo interesse e ch’egli affermava constantemente che dal re si desiderava la pace, da lui perciò si doveva fare ogni sforzo per tirare il duca ne’ sensi regi, e dalla sua inclinazione alla guerra condurlo in ogni modo all’effettuazione della pace. Tutto ciò disse il legato al Fuentes con libere ed affettuose parole. Soggiunse poi con la medesima libertá che in somma la pace non si poteva né trattar né concludere se non per via degli accennati due partiti, o della restituzione o del cambio, e ch’egli dovendo seguitare il viaggio voleva in ogni modo portar seco l’ultime risoluzioni che dal duca o dal conte si pigliarebbero sopra l’uno o l’altro di essi partiti; che pensasse bene prima esso conte a quel che voleva o poteva fare in nome del re, perché quando per alcuna tacita e non penetrabile cagione dalla parte di Spagna s’inclinasse alla guerra, il papa finalmente non avrebbe piú oltre continuato a procurare la pace in dispetto, per cosí dire, del re stesso, ma gli bastarebbe d’aver fatto tutto quello che per servizio publico apparteneva al supremo pastorale suo officio nella presente occasione, come aveva procurato di fare sempre ancora nelle passate.
A questo parlare del legato restò sospeso grandemente il Fuentes, e con pari libertá gli rispose ch’egli voleva pensare molto ben prima a pigliare sopra di sé quelle risoluzioni intiere che da lui si chiedevano. Desiderarsi dal suo re sinceramente la pace, ma con la dovuta riputazione; e quanto piú era giovine il re e nuovo nel possesso di sí gran monarchia tanto piú esser necessario che ne principiasse con riputazione il governo; che a lui stesso non mancavano emuli nella corte di Spagna, e perciò gli bisognava render conto bene prima a se stesso delle proprie sue azioni per doverlo poi rendere tanto meglio ad ogni altro. Fece egli poi alcune proposte al legato, contro alle quali sorsero varie difficoltá che lo fecero rimanere sospeso. E perché le medesime proposte furono di nuovo messe in campo dopo l’arrivo del duca, perciò basterá il riferirne allora il successo per non ripetere soverchiamente piú di una volta una medesima cosa. Questa fu in sostanza la prima e piú stretta negoziazione che passò tra il legato e il Fuentes.
In questo medesimo tempo che si aspettava il duca a Tortona, giudicò bene il legato di unire col negozio temporale eziandio le preghiere spirituali, e di fare in tanto qualche azione ecclesiastica, la qual fosse proporzionata alla sua qualitá di nepote del pontefice ed al suo principal ministerio di legato apostolico. Furono perciò da lui publicate indulgenze amplissime in tutti i paesi all’intorno del Milanese e del Piemonte, per quelli che facessero particolar orazione affinché si potesse col divino aiuto impetrar la pace che da lui doveva trattarsi. Nella chiesa di Tortona egli stesso con ogni solennitá pose le quaranta ore, e dopo una messa privata uscí processionalmente da quella chiesa e con un largo giro portò il santissimo sacramento per la cittá, avendo prima fatto predicare due famosi predicatori, Monopoli e Toledo, da me nominati di sopra, che l’accompagnavano in quel viaggio, e con inaspettato successo appunto seguí che mentre egli processionalmente usciva di chiesa arrivò il duca di Savoia. Onde l’uscir suo di carrozza ed il presentarsi alla processione, l’ingenocchiarsi e l’accompagnarla fu, si può dire, una medesima cosa.
Arrivato il duca e finite le prime accoglienze, passossi dopo strettamente al negozio. Col duca era don Mendo di Ledesma ambasciatore del re cattolico appresso di lui. Il condurlo fu molto a proposito per agevolare, come si vedrá, la negoziazione che in quel congresso fu poi stabilita. Unironsi dunque il duca e il Fuentes e andarono a trovare il legato, e si ristrinsero per allora al partito della restituzione. Dissero che non solo per servizio del duca principale interessato e per servizio del re di Spagna che in ciò aveva quasi uguali interessi, ma che in riguardo a tutto il resto d’Italia ogni ragione voleva che non si risolvesse cosa alcuna, in cosí grave materia, se prima che si venisse alla restituzione non fosse data una piena sicurezza dal re di Francia di non portar l’armi e sconvolgere le cose in Italia; che sopra d’ogni altro doveva esser dal pontefice desiderata una tal sicurezza, per gli evidenti pericoli che, tornando quella porta in mano a’ francesi, avesse ad entrar l’eresia di Francia in Italia ed a contaminare la Chiesa dove con maggior puritá si doveva mantenere il suo culto. E qui fecero il duca ed il Fuentes vivissime instanze al legato, affinché innanzi ad ogni altra cosa egli procurasse questa assicurazione per via del papa; e averebbono voluto ch’egli avesse continuato il viaggio senza dargli prima risoluzione alcuna intorno agli accennati due partiti, a’ quali bisognava che si riducesse tutto il negozio che da lui doveva trattarsi. Ma egli stando fermissimo ne’ suoi primi sensi, non si lasciò punto svolgersi da tali instanze. Rispose dunque egli che l’assicurazione richiesta doveva dependere dal re di Francia e non dal pontefice; che non poteva non parergli strano ch’altri volesse pensar piú all’interesse della religione che il papa stesso, a cui toccava d’averne la prima cura e mostrarne il piú vivo zelo, e specialmente per conservarla netta e pura in Italia dove era collocata la sede pontificia della Chiesa romana. Doversi perciò lasciare al pontefice principalmente questo pensiero. E quanto all’assicurazione della temporale quiete in Italia, non ricusarebbe egli mai di fare pur’anche in ciò le principali sue parti. Ma questo esser maneggio lungo e da incontrarci dure e nodose difficoltá; lá dove il bisogno di spegnere il fuoco della rinascente guerra appariva urgentissimo per avanzarsi ogni di piú il re di Francia con l’armi, e crescere ogni di maggiormente il pericolo di essere tirate in Italia quanto piú si desiderava di vedernele escluse.
A questo parlare di guerra il duca e il Fuentes strinsero vivamente il legato per sapere da lui se egli intendeva, che stando il re di Francia con le mani libere nel maneggio dell’armi, essi per l’intervento della sua legazione dovessero stare con le loro impedite. A tal proposito si vidde a stretto passo il legato, e volle pigliar tempo a dare piú matura risposta. Per l’una parte egli dubitava, che passando l’armi del re di Spagna e del duca di Savoia a fronte di quelle del re di Francia, non succedessero tali accidenti che gettassero tutta la negoziazione per terra, ma dall’altro canto parevali che niuna ragione potesse giustamente permettere che il duca di Savoia si vedesse occupare il suo senza aver a difendersi, ed a poter congiongere le forze del re di Spagna con le sue proprie. Onde gli parve di rispondere con questo temperamento: che da lui veniva stimata giusta l’opposizione che il duca farebbe al re di Francia, ma dall’altra parte stimar necessario d’esser assicurato che per qualsivoglia accidente, o favorevole o contrario, non si dovessero dal duca né dal conte alterare quelle risoluzioni ch’egli portarebbe con sé, intorno alla pace, nel seguimento del suo viaggio. Mostrarono il duca ed il Fuentes di restar sodisfatti della risposta che il legato in ciò dava e di quel piú che chiedeva, né si passò piú innanzi a quel primo congresso.
Negoziavasi in tanto dal re di Francia con l’armi e facevasi da lui, come poi si vedrá, ogni giorno maggiori progressi nella Savoia; onde il legato vivamente sollecitava il fine di questa sua negoziazione, col duca e con il Fuentes, per quanto prima poter passar l’Alpi, e stringer l’altra con il re, che era la principale. Trovaronsi dunque a nuovo e piú formato congresso il legato il duca e il Fuentes, e di piú v’intervennero l’ambasciatore Ledesma e l’arcivescovo di Bari nunzio ordinario a Turino, che era venuto anch’egli a trovare il legato a Tortona. A tal fine si preparò una tavola nelle camere del legato; alla mano destra il duca alla sinistra il Fuentes; appresso il duca il nunzio e a lato del Fuentes l’ambasciatore. Rappresentossi tutto quello che bisognava per la parte del duca e del Fuentes dall’ambasciatore, il quale con gravi e meditate parole mostrò quanto si facesse e quanto si desiderasse di fare, per quella parte, in riguardo alli offici del pontefice e del legato. Soggiunse che il suo re e il duca si promettevano uguale corrispondenza e dal zio e dal nipote in occasione cosí importante, e spiegò una scrittura nella quale per maggior chiarezza, come egli disse, delle materie, si contenevano i punti loro piú essenziali. La scrittura fu poi letta, e quattro erano le proposte.
La prima che si depositasse il marchesato di Saluzzo in mano del papa, il quale con la necessaria sentenza decidesse nel termine di tre anni la causa, e se quel termine paresse troppo lungo si lasciasse all’arbitrio del papa il restringerlo. La seconda fu che non piacendo il deposito ed inclinando il papa ed il legato alla restituzione assoluta, essi trovassero qualche forma di assicurar nel debito modo il re di Spagna e il duca di Savoia che il re di Francia non molestarebbe il duca né moverebbe l’armi in Italia; e qui replicavasi che il principal fine era di assicurare la religione. Concludevasi poi in questo punto con lunghe parole, che la migliore assicurazione sarebbe stata il fare una lega, la quale comprendesse il pontefice il re di Spagna la republica di Venezia il duca di Savoia e gli altri potentati d’Italia. Nella terza proposta si conteneva che non volendo il papa obligarsi a questo maneggio ed a questa assicurazione, egli prima d’ogni altra cosa terminasse la causa speditamente col dichiarare a chi di ragione il marchesato appartenesse. La quarta era, che dovendosi venire alla ricompensa per via del cambio, questo cambio si facesse tutto di lá da’ monti sí che Pinarolo non restasse di qua in mano a’ francesi. Né in, luogo di questa piazza e di quel piú che vi andava annesso, veniva offerto altro che il baliaggio di Gies, posseduto da’ ginevrini ma preteso dal duca di Savoia col rimanente di quello che essi ginevrini usurpavano alla sua casa.
Restò con molta maraviglia il legato delle tre prime proposte, che venivano fatte nella scrittura, per esser tali che non si potevano effettuare in maniera alcuna; onde egli piú chiaramente che mai comprese quanto li spagnuoli fossero alieni dalla restituzione del marchesato, e che da loro si mantenesse tanto piú sempre la renitenza del duca; e perciò si potesse giudicare che alfine l’aggiustamento nuovo col re di Francia si ridurrebbe all’ultima proposta. E quanto alla prima disse che non bisognava parlare piú intorno al deposito come intorno a partito, per la mutazione delle cose, di giá totalmente escluso, e che dal re di Francia non sarebbe in alcuna maniera accettato. Replicarono il duca e il Fuentes che almeno il legato volesse proporlo come per introduzione di negozio, il che ricusò di fare il legato dicendo che ciò insospettirebbe il re di Francia, e gli farebbe di nuovo credere che gli si volesse dar parole e trattenerlo con partiti giá piú volte proposti e da lui sempre ricusati. Al secondo punto concernente l’assicurazione rispose che si doveva lasciare al papa la cura delle cose toccanti alla religione, poiché egli l’aveva a cuore piú che la vita medesima; che nel resto sapevasi quanto grandi ordinariamente fussero le difficultá nel farsi le leghe, e quanto maggiori dell’ordinario sarebbono intorno a questa che doveva abbracciare tutti li potentati d’Italia; che intanto si vedeva accesa la guerra, e dandole tempo non se ne potrebbe forse piú estinguere il fuoco.
Esser questo un male sí urgente e sí pericoloso che non poteva aspettare lunghi e incerti rimedi. Vedersi quanto piú difficile si renderebbe ora il re di Francia, dopo i vantaggi acquistati con l’armi, a voler di nuovo star alla capitulazione di Parigi; onde meglio essere di provar quello che operarebbe la restituzione del marchesato, e se allora il re volesse tentar cose nuove in Italia, si potrebbe in tal caso trattar di lega e stabilire ogni maggior unione fra i prencipi italiani per far ostacolo alla novitá de’ francesi. Concluse poi finalmente il legato che la lega proposta non era materia da trattarsi con il re di Francia; non aver che fare la restituzione con la lega né l’un negozio con l’altro; e perciò non poter egli in modo alcuno giudicar buono allora un maneggio tale. Intorno alla terza proposta rispose che il papa non poteva in quella precipitosa forma sentenziare sopra la causa del marchesato; doversi prima sentire le parti, caminar per le vie giudiziali, e con la dovuta maturitá poi terminar per giustizia una differenza cosí importante. Esser scorso il tempo del compromesso, non doversi sperar piú nuova proroga dalla parte di Francia, e in somma non aver piú fondamento alcuno questo partito. E qui con grave senso rinovò l’instanze al duca ed al Fuentes accioché, sopra questo punto della restituzione, non lo tenessero piú lungamente sospeso, ma in un modo o in un altro venissero quanto prima all’ultima loro risoluzione.
Dopo si risolute risposte, il conte di Fuentes propose che almeno il pontefice promettesse di unirsi con il re di Spagna in caso che, dopo la restituzione del marchesato, il re di Francia volesse tentar cose nuove in Italia; al che replicò il legato quasi le ragioni medesime che aveva addotte sopra il particolare della lega, mostrando egli di nuovo l’urgente necessitá di rimediare subito al fuoco della guerra di giá rinata. Che in ciò egli non aveva autoritá d’impegnare il zio, che un tal negozio sarebbe pur’anche riuscito lungo e dubioso, e che non aveva che fare questo con quello da trattarsi ora con il re di Francia; oltre che dovendosi considerare il re di Spagna interessato quasi al pari del duca di Savoia nella differenza presente col re di Francia, come averebbe potuto ora il papa unirsi con quel re e voler, al medesimo tempo, farsi mezzano a trattar di pace con questo? Ben soggiunse il legato, con larga dichiarazione, che per l’interesse d’Italia in giusta occorrenza il papa s’unirebbe volontieri sempre con il re di Spagna, e procurò insieme, con molti esempi di azioni particolari succedute nel suo pontificato, di far conoscere quanto anche per l’adietro avesse procurato di caminar unitamente col medesimo re, a beneficio publico della cristianitá ed a commodo particolare eziandio della propria reai sua casa.
Non si resero a tante e sí vive ragioni il duca e il Fuentes, e unitosi parimente con essi l’ambasciatore, tutti congiuntamente rinovarono le medesime instanze; e all’incontro stando piú fermo sempre il legato, si restrinsero a chiedergli, che avendo mostrato egli di non avere autoritá d’impegnare il papa nel punto dell’accennata sua propria assicurazione, si contentasse almeno che fosse con ogni diligenza spedito a Roma un corriero per far sopra di ciò col papa medesimo gli offizi che bisognavano. Non puoté fare che vivamente non si commovesse a tal proposta il legato. Parevagli che tutti fossero artifici per aggiungere negozio a negozio, lunghezze a lunghezze, e far nuovo cumulo sempre di nuove e piú spinose difficoltá; onde con piú viva risoluzione di prima ributtò questa nuova instanza, e determinatamente si dichiarò di non volere che si finisse quella conferenza d’allora, se prima egli sopra la restituzione del marchesato non sapesse dal duca e dal conte quello che da loro in un modo o in un altro fosse precisamente concluso.
A sí costante dichiarazione il duca, il Fuentes e l’ambasciatore rimasero grandemente sospesi; e guardandosi l’un l’altro mostrarono con tacito senso di voler conferire separatamente fra loro intorno all’ultima precisa risoluzione, che in ciò dovevano pigliare. Il che dal legato assai chiaramente congetturandosi, egli col nunzio si levò dalla conferenza. Quivi poi furono grandi fra loro medesimi le difficoltá, percioché il duca voleva che il Fuentes, con ordine espresso del re di Spagna, lo facesse risolvere alla restituzione del marchesato, dicendo che sí come di concerto col re defonto si era introdotto, cosí nell’istesso modo con l’autoritá del re presente voleva uscirne. Ma il Fuentes ricusava d’impegnarsi tant’oltre col dire che non aveva dal re tal’ordine, e ch’egli non poteva arrogarsi un’azione di tal sorte. Al che il duca non si acquietava, e il Fuentes dall’altra parte non si rendeva. Nondimeno egli propose al fine che il Ledesma come ambasciatore facesse al duca in scritto una dichiarazione, con la quale approvasse quello che da lui si farebbe intorno alla restituzione del marchesato. Ma in ogni modo al duca non sodisfaceva il ripiego. Onde si giudicò bene communicare il tutto al legato, e sentir quello ne giudicasse. Parve al legato che veramente non avesse cagione il duca di voler astringere il Fuentes a passar tanto innanzi, ma che gli potesse bastare l’accennata dichiarazione dell’ambasciatore. E cosí formaronsi due scritture, l’una dell’ambasciatore e l’altra del duca. In quella si dichiarava che il re cattolico approvarebbe che il duca di Savoia restituisse al re di Francia il marchesato di Saluzzo, con presupposto che dal medesimo re all’incontro si dovesse restituire tutto quello che avesse occupato al duca, lasciando poi la cura al cardinale legato intorno alla forma con la quale reciprocamente l’una e l’altra restituzione dovesse farsi. Per l’altra dal duca si prometteva, che in riguardo del beneficio publico della cristianitá e agli offici paterni del pontefice, egli restituirebbe il marchesato di Saluzzo al re di Francia, purché all’incontro si restituisse a lui dal medesimo re tutto quello che egli occupasse, lasciando nel rimanente all’arbitrio e prudenza del cardinale legato la forma dell’eseguirsi l’una e l’altra restituzione. Tali in sostanza erano le due scritture, e con questo ripiego dopo tante contradizioni e difficoltá rimase stabilito finalmente il punto principale della restituzione del marchesato, benché poi con tal partito non seguisse l’aggiustamento col re di Francia, ma con quello dell’intiero cambio di lá da’ monti, come si vedrá in luogo suo.
Restava dunque il darsi l’ultima risoluzione ancora dal duca e dal Fuentes al legato sopra questo partito del cambio; desideravasi come giá si è mostrato che si potesse dar tutto intiero di lá da’ monti, ma nell’esaminarsi ben la materia due grandissime difficoltá in particolare si prevedevano: l’una che il re di Francia fusse per indursi a non voler Pinarolo di qua da’monti, o che l’indursi dovesse poi rendere al duca troppo cara la ricompensa; l’altro che il re fosse per lasciare tanta porzione al duca di lá nel paese della Bressa quanta fusse necessaria per farvi tuttavia godere il passo alla gente di Spagna, che per quelle parti ordinariamente s’inviava nella contea di Borgogna e di lá poi nelle provincie di Fiandra. Sopra queste difficoltá si discorse a lungo tra il legato e il duca e il Fuentes e l’ambasciatore; ma perché tutte erano materie da trattarsi e risolversi principalmente col re di Francia, perciò il legato non poteva sopra questo partito del cambio, come sopra l’altro della restituzione, stringere il duca e il Fuentes a partito alcuno determinato. In luogo di Pinarolo il duca non offeriva altro, come toccai di sopra, che il baliaggio di Gies, né anche posseduto da lui ma da’ genevrini, e ben si vedeva ch’era un’offerta piú tosto imaginaria che praticabile, e della quale il re di Francia si sarebbe riso o piú tosto offeso. Dall’altra parte il Fuentes mostrava di non curarsi gran fatto che piú o meno costasse al duca la ricompensa di Pinarolo, pur che i francesi non mettessero di nuovo il piede in Italia; onde egli faceva animo separatamente al legato, accioché procurasse di stringere il nuovo aggiustamento col re di Francia per questa via. E conoscevasi che vi s’indurrebbe anche il duca in ogni maniera per non vedere nuovamente i francesi alle porte di Turino, dalla qual cittá si andava in poche ore a quella di Pinarolo. Dunque non essendosi allora potuto pigliare alcuna risoluzione precisa intorno a questo partito del cambio, il legato giudicò necessario di seguitare il suo viaggio verso Turino, e di lá poi passare l’Alpi speditamente a fine di poter quanto prima trovarsi col re di Francia. Il duca fu il primo a partirsi di Tortona, per uscir poi da Turino a ricevere e incontrare il legato con quelle dimostrazioni d’onore e di rispetto che l’occasione richiedeva. Partí poi similmente il legato e lasciò in Tortona il Fuentes, che di lá tornò anch’egli in Milano. Non giudicò bene il legato di far entrata publica e solenne in Turino, ma stimò conveniente di passar innanzi con ogni sollecitudine e di far cedere affatto le ceremonie al negozio. Col duca non trattò d’altro che di tirarlo piú innanzi che si poteva sopra il punto della ricompensa, quando si dovesse dare tutta intiera di lá da’ monti; al qual fine stabilí o che il duca mandasse con lui o spedisse poi subito due particolari suoi deputati con piena autoritá di concludere in nome suo tutto quello che bisognasse in questo nuovo aggiustamento, che da lui doveva trattarsi con il re di Francia. Partí dunque alli due di novembre da Turino il legato, dopo aver ricevute in quella cittá e dal duca e da’ suoi figliuoli tutte quelle dimostrazioni piú affettuose, piú riverenti e piú splendide, ch’egli avesse potuto desiderare. Partí pur’anche un poco prima di lui il duca per la necessitá che lo stringeva a procurar di soccorrere ben tosto la fortezza di Momigliano, che di giá era assediata strettamente dal re di Francia. E qui io di nuovo ritornerò all’armi del re, dopo aver dato il luogo che si doveva alla negoziazione del legato.
Preso che fu dunque dal re Ciambery, e fatto acquisto degli accennati due passi che dal Piemonte danno l’ingresso nella Savoia, egli cominciò a stringere in ogni piú viva maniera il castello di Momigliano e l’altro di Borgo, ma specialmente di Momigliano, che è la chiave principale di Savoia verso Ciambery e verso il regno di Francia. Come ognuno sa, è quasi tutto orrido e tutto alpestre, e quasi occupato sempre dalle nevi e da’ ghiacci il paese della Savoia. Con gli alti monti che vi sorgono da ogni parte si accompagna un gran numero ancora di precipitosi torrenti, in modo che può restar in dubio se piú dall’insolita asprezza di quelli o dalla spaventevole fuga di questi si inorridiscono gli occhi de’ viandanti. Fra sí vaste moli de’ sassi imminenti, una in particolare sopra ogni altra si estolle in maniera, che fatto un perpetuo verno, porta di continuo i ghiacci e le nevi in cielo con incredibile altezza. Chiamasi il Montesenise, nome d’orror famoso all’orecchie d’ogni nazione. Direbbesi che da tutte l’altre montagne dell’Alpi fosse resa obedienza e come tributo a questa, e che tutte riconoscessero il Montesenise come sovrano re loro, e questa come la principal reggia dell’alpino suo regno. Fra le concavitá di Savoia corrono le due principali vallate di Tarantasia e di Moriana, delle quali fu parlato di sopra. Unisconsi poi queste due, e un’altra comincia a nascere piú spaziosa, che poi sempre maggiormente s’appiana e s’allarga verso la terra di Ciambery e verso quella frontiera di Francia. Nel sito ove unitamente sboccano l’altre due prime vallate giace la terra e il castello di Momigliano; è debole di mura e d’ogni altra difesa la terra, ma per sito e per arte all’incontro non può essere quasi piú forte il castello: siede sopra un gran sasso che ivi sorge dalla campagna, e che, di varia forma nel giro, è per lo piú d’ogni intorno dirupato e scosceso. A qualche imperfezione del sito supplisce con piena industria l’opera a mano, per via di un recinto che di cortine e di fianchi non può essere piú vantaggiosamente fortificato; e benché una delle piú vicine montagne signoreggi alquanto il castello, nondimeno la distanza è sí grande che di lá non può ricevere se non danno leggierissimo anche dalle piú formidabili artigliarie. Stimavasi perciò come inespugnabile una fortezza di tal qualitá; né forse con vano giudizio se nel modo che bisognava fosse stata e meglio provista e piú virilmente difesa. Ma l’uno e l’altro difetto la fece cadere, come si vedrá, in mano del re di Francia, se non prima del suo desiderio almeno prima assai della sua aspettazione. Era governatore di Momigliano il conte di Brandis, uomo di nobil sangue ma che in quella difesa non mostrò né valore né fede, come allora fu generalmente giudicato; e non senza meraviglia s’era veduto che fusse stato posto dal duca un pegno tale in man sua, poiché avendo egli giá sposata con licenziosi pretesti una abbadessa d’un monasterio, si trovava in concetto vile presso ognuno, e faceva credere che poco averebbe stimato l’onore del secolo chi aveva con azione cosi indegna perduto, e sí bruttamente, il rispetto a Dio. Non era veramente proveduta la piazza né di soldati né d’altre cose necessarie come la sua carica richiedeva; ma non però cosi debolmente che sotto un miglior comando non avesse potuto far molto piú lunga difesa. Dalla parte del re appoggiavasi al Dighiera la cura principale dell’assedio, e con debole speranza di riuscita per le difficoltá, quasi del tutto insuperabili, di portare secondo il solito le trinciere contro la piazza, usare le batterie e le mine, e l’ultimo terror poi delli assalti. Cominciossi nondimeno a piantarvi intorno gran numero di cannoni e furono divisi in piú batterie, adoprandole, non ostante il gran vantaggio della piazza nel sito, con quei vantaggi almeno di fuori che somministrava loro l’industria. Su quel fianco dell’accennata montagna che dominava il castello, particolarmente ne furono alzate due, e di lá procuravasi d’infestar quei di dentro quanto piú si poteva; ma ciò seguiva con piú terror che danno, sí deboli e sí snervate per la troppa distanza giungevano le percosse al recinto. Rimaneva perciò la sola speranza d’impedire al duca il soccorso, in modo che la piazza disperata di poterlo ricevere non tardasse poi molto a cadere. Preparavasi con ogni ardore fra tanto il duca a soccorrerla, e metteva insieme a tal fine molta gente sua propria, ed il conte di Fuentes ne gli aggiongeva molt’altra del re di Spagna, gente spagnuola in gran parte e quasi tutta vecchia e di gran servizio. Ma l’essere occupati dal re di Francia, come si disse, quei passi per via de’ quali si entra con piú spedito cammino dal Piemonte nella Savoia, l’esser preparato egli stesso a fare ogni piú viva opposizione al soccorso, e l’aver di giá cominciato l’inverno a farsi orribilmente sentire in quei siti alpestri tanto piú resi allora intrattabili, non lasciava quasi alcuna speranza al duca e alli spagnuoli che si potesse ridurre all’esecuzione il disegno loro.
Mosso il conte di Brandis da queste difficoltá del soccorso, ma tirato molto piú dall’occulte promesse del re di Francia, secondo il piú commune giudizio d’allora, cominciò a dare orecchie all’instanze che in nome del re gli furono fatte per indurlo a rendere quanto prima la piazza, col rappresentarsegli la poca speranza che in lui restava di poterla difendere, giaché si poca o niuna ormai ne rimaneva al duca di poterla soccorrere. Onde egli senza piú differire, non avvisato il duca né fatta quasi nessuna prova di resistenza, ma dato piú tosto ogni segno e di basso cuore e d’impura fede, patteggiò vilmente di rendere la piazza se in termine di venti giorni non fusse stato soccorso; termine che pareva lungo ma che era brevissimo in riguardo alle difficoltá accennate, che doveva incontrare l’esecuzione del soccorso. Di questo successo il duca restò meravigliosamente afflitto e sdegnato, ma godendone all’incontro tanto piú il re di Francia, non si tralasciava diligenza alcuna da lui per assicurare l’acquisto d’una tal piazza che poi lo metteva nell’intiero possesso di tutta la Savoia. A tal fine egli scorreva infaticabilmente per ogni lato, e procurava sopra tutto di fortificar bene i passi per via de’ quali voleva far l’opposizione maggiore al soccorso.
Fra tanto il patriarca si era veduto col re in Granoble, ed in nome del papa l’aveva pregato, con ogni piú viva efficacia, che volesse almeno per qualche giorno sospendere l’armi e nuovamente dar qualche luogo al negozio, giacché il legato veniva, e lo portava sí bene aggiustato col duca di Savoia e col Fuentes ch’egli ne riceverebbe intiera sodisfazione. Ma il re si mostrò in tutto alieno da tal proposta. Disse che non voleva perdere li suoi vantaggi; che l’armi sue riuscivano altretanto felici quanto erano giuste; che perciò facevano ogni di progressi maggiori; che Momigliano senza dubio caderebbe in man sua ben presto; e soggiunse che postosi con tal’acquisto nel possesso intiero della Savoia egli facilmente allora consentirebbe che il duca restasse marchese di Saluzzo e di Turino, rimanendo all’incontro egli vero duca di Savoia; e che in questa maniera verrebbero a terminarsi da se medesime le differenze che passavano fra loro. Con tal risposta piena d’amari scherzi, e non meno d’amara volontá contro il duca, ricusò il re di consentire all’officio del patriarca.
Erano in questa disposizione le cose quando il legato cominciò a passare l’Alpi incaminandosi alla volta di Ciambery, dove il re fra l’incessanti sue mosse piú d’ordinario si riduceva.
AU’uscir d’Italia e all’entrare in Savoia, egli ordinò strettamente alla sua fameglia che procedesse con ogni possibile modestia, e fuggisse ogni occasione di far nascere qualsivoglia sorte di scandalo. Disse quella essere famiglia ecclesiastica e non temporale, perché andava in seguimento d’un legato apostolico e nipote di papa. Onde conveniva che tutte le sue azioni fossero ben misurate gravi e di buon esempio, oltre che si caminarebbe fra genti di guerra infette anche di eresia, le quali con occhi lividi e piú lividi sensi averebbono minutamente voluto osservare tutto quello che farebbe non solo il legato ma ogni altro ancora di quelli che l’accompagnavano. Entrato che fu in Savoia trovò il signor di Chaves, cavaliere principale, che era venuto in nome del re con due trombetti e con altra gente per fargli godere ogni sicurezza maggiore nel viaggio, e ogni altra commoditá che l’asprezza naturale del paese e quella insieme della stagione, la quale participava ormai piú del verno che dell’autunno, potevano allora concedere. Riuscí nondimeno tollerabile il passaggio dell’Alpi al legato, benché il freddo che ogni di piú inorridiva tanto maggiormente le rendesse intrattabili, e particolarmente le scale immense, per le quali bisognò ch’egli montando e scendendo misurasse le piú alte e piú lubriche cime del Montesenese. In tutto il passaggio fu giovevole grandemente, alla sua persona ed a quelle di tutti i suoi, l’industria e opera de’ maroni. Fra gli abitatori alpini della Savoia molti ve ne sono che piú duramente nati e nudriti per quelle balze non vivono d’altro esercizio che d’agevolare, dove piú fa di bisogno, e specialmente di verno, a’ passaggieri le strade. Sono alti per lo piú di statura vigorosi e agili sommamente di corpo, ma inculti e rozzi di vita in maniera che hanno quasi piú del selvaggio che dell’umano, e particolarmente sono si abituati nel trattar di continuo la neve e il ghiaccio che altretanto s’allegrano essi quanto s’attrista ogni altro di quelli orrori. Per commune vocabolo maroni sono chiamati, dividendosi in compagnie, ciascuna delle quali un numero competente di rozze e picciole sedie portatili ha sempre alla mano. Se la neve non è condensata in gelo con passo piú ritenuto e piú lento su l’accennate sedie portano i viandanti, ma se il freddo ha gelata ben tenacemente la neve, apparecchiano le sedie al suolo e non le portano allora ma le sospingono, e con tanta velocitá specialmente al discendere che appena l’occhio presta fede al rapido corso loro, e appena può seguitarlo. Quel che io narro qui in tal maniera fu provato da me similmente e da tutti i miei, cosí la prima volta che passando per la Savoia andai nunzio in Francia, come la seconda, che ripassandovi, tornai cardinale in Italia; e perciò qui volontieri ho rinovata la memoria e di quel tempo e di quel paese e di quei viaggi.
Ma incominciando io a parlare del legato, bisognava ch’egli nell’andare a Ciambery passasse per Momigliano. È distante questo luogo due brevi leghe da quello; e come io toccai di sopra, veniva assediato strettamente allora dal re di Francia. Ebbe occasione dunque il legato di passare per gli alloggiamenti militari del campo regio, e per tutto ricevè quelle dimostrazioni di rispetto e d’onore che da lui si potevano desiderare. Fuori di Ciambery, per un gran pezzo di strada, fu poi in nome del re incontrato e raccolto dal prencipe di Condé e dal duca di Mompensiero, ambedue prencepi del sangue reale, che uscirono accompagnati da molti principali signori e da un grandissimo numero d’altra fioritissima nobiltá, la quale sul primo rumor dell’armi era concorsa da tutte le parti del regno a servire prontamente il re in cosí fatta occasione. Con questo accompagnamento giunse il legato a Ciambery senza far altra piú sollenne entrata in quel luogo, parendoli che né il tempo né il luogo stesso la richiedessero in altra forma. Entrovvi però con la croce innanzi, come aveva fatto sempre ancora per tutto il precedente viaggio. Arrivato che fu, procurò d’andare la mattina seguente a riverire la persona del re, il quale era alloggiato allora in certo luogo lontano di lá mezza lega; ma ciò non gli fu permesso dal re, perché egli volle essere il primo a trovarsi con il legato e a renderli questa dimostrazione di stima e d’onore. Venne il re dunque con tutta la corte a Ciambery nel prossimo giorno, e disceso all’abitazione del legato fu ricevuto da lui al piè delle scale con ogni riverenza maggiore.
Fu breve il primo congresso, né vi ebbe parte alcuna per allora il negozio. Mostrò il re che la venuta del legato gli fosse gratissima. Scusossi di non aver potuto farlo ricevere e trattare secondo il suo desiderio, dandone la cagione alla qualitá del paese e alla condizione della guerra che ne toglievano le commoditá necessarie, ed aggiunse molte parole di gran riverenza verso il pontefice, e di molta affezione e stima verso il legato.
Dall’altra parte il legato in ogni piú efficace modo rappresentò al re l’affetto cordiale e paterno del pontefice verso di lui; e passando a parlar di se medesimo, gli disse che riputava a somma felicitá il trovarsi alla sua real presenza, e poter vantarsi che servendo nel ministerio di quella legazione ad un pontefice, il quale a giudizio commune veniva stimato uno de’ piú eminenti per dottrina prudenza e vivo zelo di religione che giá un pezzo avesse avuto la Chiesa, nel medesimo tempo esercitasse un tal ministerio appresso uno de’ piú gloriosi re, per successi memorabili e d’arme e di vittorie e d’ogni altra piú eroica azione, che si fussero veduti mai nell’etá passate e fussero mai per vedersi nelle future. In queste simili e altre parole di complimenti scambievoli terminò quel primo congresso.
Vennesi poi al negozio, ed il legato fu all’audienza del re, col quale si trattenne in lunghi ragionamenti, che passarono dall’una e l’altra parte. Erasi preso dal re qualche sospetto che il legato venisse con sensi parziali a favore del duca di Savoia e delli spagnuoli. Sapeva il re che da quella parte si era procurata la legazione, e stimava che ciò fosse fatto particolarmente con fine d’ordinare, con nuove lunghezze, qualche nuovo maneggio, e di rompere quello che di giá, col mezzo del patriarca, si era ultimamente concluso in Parigi. Sapeva che dal duca e dalli spagnuoli si abborriva piú che mai la restituzione del marchesato, e quasi non meno il partito del cambio con la cessione di Pinarolo, e che si desiderava una sospension d’arme per aver tempo d’apparecchiar meglio le loro, e d’introdurre se avessero potuto nuovi disordini nel proprio regno di Francia; e sapendo il re similmente che il cardinale Aldobrandino era protettore di Savoia nel proporre in concistoro le chiese che vacavano nelli stati del duca, ciò gli accresceva in alcuna maniera il dubio dell’accennata parzialitá in favor di quel prencipe. Sopra tutte queste cose da Roma si erano fatti poco buoni offici col re, affin di mettere in diffidenza il legato appresso di lui. Onde egli per tal rispetto ne stava in qualche ombra, e avendone il legato avuto notizia se n’affliggeva, e pensava a tutti quei modi co’ quali potesse dall’animo del re sgombrare affatto queste sinistre opinioni. A tal fine, avvisò che il far apparire candidamente al re la necessitá ch’egli aveva di tornar quanto prima a Roma, per suo proprio interesse e della sua casa, fosse per farlo rimovere tanto piú dal sospetto ch’egli venisse per trattenerlo in parole ed artificiosi raggiri di nuove pratiche, sperando nei resto di mettere ancora tutte l’altre cose talmente in chiaro che il re, deposta ogni gelosia, fosse per usar con lui ogni diligente confidenza.
Presentato ch’egli ebbe dunque al re il breve pontificio credenziale della sua legazione, gli disse che prima d’ogni cosa il pontefice gl’inviava l’apostolica sua benedizione accompagnata insieme da ogni piú vivo affetto paterno verso di lui, e per la stima singolare che faceva del singolar suo valore, e principalmente perché lo riconosceva non tanto come figliuolo primogenito della Chiesa, ma come figliuolo suo proprio rigenerato da lui con la grazia dello Spirito santo nell’averlo sí felicemente riunito alla Chiesa medesima. Che perciò sarebbono inferiori sempre al suo desiderio tutte le prosperitá che a Dio piacesse di concedere alla real casa e persona di Sua Maestá. Che dalla pietá e forze della Maestá sua si prometteva il pontefice di veder ogni di crescer maggiormente i vantaggi, e al servizio particolare della religione cattolica in Francia e alla causa commune della Chiesa in tutto il resto del cristianesimo. A tal effetto giudicare Sua Santitá che fosse necessaria la pace, dal cui riposo e tranquillitá sí come nascevano tutti quei beni che potevano piú giovare alla religione, cosí dalle turbulenze e disordini che si tirava dietro la guerra si cagionavano per ordinario tutti quelli mali che favorivano l’eresia. Ciò saper meglio d’ogni altro Sua Maestá, la quale dopo aver superato i nemici con sommo ordine e valore in guerra, aveva poi con somma prudenza applicata ogni cura a fermar bene il suo regno in pace a fine di poter piú agevolmente domarvi la fazione eretica, la quale sempre piú si era invigorita fra l’armi, e si mostrava non punto meno contraria alla grandezza temporale della sua corona che alla spirituale autoritá della Chiesa. Al medesimo effetto aver Sua Santitá procurata di fresco poi anche la pace tanto felicemente col mezzo del suo legato seguita in Vervin fra Sua Maestá e il re cattolico, accioché, non solo ne’ regni loro ma in ogni altra parte ancora, potesse la cristianitá e specialmente la Chiesa goderne ogni maggior beneficio e vantaggio. Né potersi esprimere l’afflizione che sentiva ora Sua Santitá nel veder nuovamente perturbato il riposo publico, per le differenze intorno alla causa del marchesato sopravenute, e nel considerar il pericolo d’una rinascente guerra, che avesse in breve a distruggere quei tanti commodi che dalla pace con tanta ragione si aspettavano, e che di giá con sí lieto principio si largamente si raccoglievano. Che perciò non potendo Sua Santitá di persona propria far questi offizi, che richiedeva una si importante occasione, aveva eletto lui che godeva l’onore d’essere il piu congionto seco di sangue e di ministerio e di confidenza per sodisfare in sua vece alla necessitá di questo sí grave maneggio. E qui poi con parole affettuosissime si stese il legato a pregare in nome del pontefice il re che volesse disporsi alla pace in ogni maniera dalla sua parte, assicurandolo che aveva indrizzate le cose di modo appresso il duca di Savoia e il conte di Fuentes, che non dovrebbe dubitare Sua Maestá di non riceverne ogni piú conveniente sodisfazione dal canto suo. Questa fu la prima generale instanza con la quale procurò il legato di fare apertura al negozio.
Il re gli rispose che non poteva se non lodar grandemente il pontefice del vivo zelo che mostrava nel procurare il ben publico della cristianitá insieme col servizio particolare della Chiesa; e poi lo ringraziò in ogni piú riverente maniera e dell’affetto paterno e del senso onorevole che sí pienamente di nuovo faceva apparire verso la sua persona. Quindi passò a giustificare la causa sua. Disse che ad ognuno era noto il sollenne accordo fra lui e il duca di Savoia ultimamente seguito. Ciò piú di tutti sapere il pontefice, con l’autoritá del quale per mezzo del patriarca di Constantinopoli si era maneggiata la negoziazione e conclusa; ma uscito di Francia il duca, mentre doveva secondo le promesse farne seguir subito l’esecuzione, averla con vari mendicati pretesti allungata, e poi ad instigazione delli spagnuoli con aperte repugnanze sfuggita. Perciò veramente essere il duca il violatore dell’accordo, il perturbatore della pace, il machinatore della guerra. Ma, intorno alla guerra, essersi però ingannato pensando ch’egli dovesse aspettarla e non prevenirla. Dunque egli con sí chiara e giusta necessitá aver voluto con la prevenzione opporsi al disegno de’ nemici, e procurar per via della forza la restituzione del suo, giacché dopo sí lunga pazienza non gli era potuto ciò riuscire amichevolmente per via del negozio. Favorirsi da Dio manifestamente l’armi della sua parte, e sperare ogni giorno piú di far pentire e il duca della sua temeritá e li spagnuoli delle loro machinazioni. Ciò detto, soggiunse il re ch’egli nondimeno udirebbe volontieri gli offizi paterni che in nome del pontefice gli portava il legato, benché sapesse molto bene essersi procurata la legazione dal duca e dalli spagnuoli con fine d’introdurre nuovi maneggi, e in conseguenza nuove lunghezze sopra la causa del marchesato, e specialmente per fare che seguisse con l’autoritá del pontefice qualche sospension d’armi, e cosí aver tempo di preparar meglio essi le loro e movere altre occulte lor pratiche, se avessero potuto, di nuove turbolenze e agitazioni dentro al proprio suo regno. E qui si avanzò il re liberamente a dire che per l’accennate sí gelose considerazioni egli da principio non inclinava a ricevere alcun legato, ma che poi essendosi compiaciuta Sua Santitá di eleggere a tal ministerio il principal suo nipote, che portarebbe seco prohabilmente non solo il sangue ma i sensi ancora del zio, il quale sempre gli aveva mostrati sí giusti e sí favorevoli verso la Francia, egli perciò aveva goduto di vedere qualificata in quel modo la legazione, e godeva ora di aver presente l’istesso legato da cui sperava che non gli si farebbono se non ragionevoli e ben misurate proposte, e quali richiedeva il buon diritto della sua causa e il proprio onore della sua persona. Con queste ultime parole sí libere da una parte e sí ben temperate dall’altra, il re scopri e celò, si può dire, ad un tempo le gelosie che potevano in qualche maniera tenerlo sospeso intorno alla negoziazione del legato.
Ma fu grandemente cara al legato la libertá che il re mostrò di usar seco, parendoli che a lui ancora si aprisse piú largo campo di fare il medesimo e di poter agevolmente, per giungere a quell’accordo, far isvanire ogni ombra che il re potesse avere intorno alla sua persona. Preso qui, dunque, il tempo disse al re il legato che supplicava Sua Maestá di permetterli, che in questa prima apertura del suo maneggio publico, egli potesse rappresentarle congiontamente il suo interesse privato, dal quale conoscerebbe quanto egli fosse alieno dal condurre fra lunghi e incerti rivolgimenti di nuove e artificiose pratiche la sua legazione. Il re gli rispose che l’udirebbe volentieri in tutto quello che volesse significarli. Onde il legato seguitò a dire che Sua Maestá, per aver sí gran notizia di tutti gli affari del mondo sapeva quanto importasse a’ nepoti de’ pontefici lo stare appresso di loro, per conseguire tanto piú agevolmente quelle grazie che in tempo tale si speravano, e per vantaggio delle loro persone e per beneficio delle loro case. Ch’egli di giá ne aveva ricevute di molte, e nella sua propria persona e in quelle de’ suoi piú congiunti, ma che per andare il zio molto ristretto in farle, e per la scarsezza delle occasioni, la sua casa nondimeno si trovava in poco rilevata fortuna. Desiderare egli perciò di poter quanto prima tornare alla corte di Roma dove a lui non mancavano emuli e invidiosi, e qualcheduno ancora fra i suoi parenti medesimi. Avere obedito volontieri al zio nell’accettare quella legazione, per l’obligo che aveva d’obedirlo sempre e insieme per l’occasione da lui tanto stimata di poter offerire la sua servitú, di presenza, ad un re cosí grande e cosí glorioso. Restargli ora, dunque, il desiderio dell’accennato breve ritorno, al quale fine supplicava Sua Maestá che volesse liberamente dirli se inclinava alla pace o alla guerra, poiché, volendo la pace, egli la trattarebbe con ogni ardore, e sperava che ben tosto fusse per seguirne la conclusione; ma se, all’incontro, Sua Maestá inclinasse a continuare la mossa dell’armi, egli procurarebbe che in sua vece sottointrasse qualche altro pontificio ministro, nel quale non cadessero quelle sí vive necessitá, ch’egli aveva, di ritornare il piú tosto che gli fosse possibile a Roma. Questa libertá usò il legato col re: libertá però da non doversi lodare molto a giudizio mio, perché manifestava troppo la temporalitá di quei sensi che pur troppo in lui si accusavano, come giá fu da me toccato di sopra, e con i quali in molte occasioni egli faceva, si può dire, violenza alla moderazione del zio; il che apparí ogni giorno piú nel declinar di vita del zio e nel crescer egli di autoritá.
Piacque al re nondimeno questo termine del legato; e sodisfacendo alla sua dimanda rispose ch’egli aveva mossa la guerra, ma per elezione inclinarebbe alla pace ogni volta che senza pregiudizio delle sue ragioni e della sua dignitá potesse accettarla. Il legato disse che non doveva di ciò temer punto, e l’assicurava che in altro modo né il pontefice sarebbe entrato di nuovo in questo negozio né sarebbe egli venuto a trattarlo. Che Sua Beatitudine ci era entrata non per instanza del duca di Savoia né delli spagnuoli ma per l’obligo del supremo suo pastorale officio; che bramava ardentissimamente la pace, e che la procurarebbe con ogni maggior brevitá e con isfuggirne ogni artificiosa lunghezza. Ma desiderando il re di saper sino d’allora qualche cosa piú innanzi intorno alle proposte che fosse per fare il legato, passò in buon modo a fargliene qualche motivo. Non aveva pensiero in quella prima audienza il legato di far altro che una generale apertura al negozio; nondimeno stimando a proposito in quella prima occasione ancora di sodisfare alla curiositá del re, disse ch’egli stimava essere intenzione di Sua Maestá medesima che si negoziasse nuovamente sopra i due punti, o della restituzione o del cambio, con l’aggiustarsi meglio qualche difficoltá che prima non si era intieramente levata. A questo replicò il re, che non avendo il duca di Savoia voluto eseguire l’accordo in Parigi, le cose dopo avevano mutato faccia. Aver’egli costretto dal duca fatte spese gravissime, e tuttavia farne ogni dí maggiori. Voler dunque esserne ricompensato, voler i frutti del marchesato dal giorno che n’era seguita l’usurpazione, e volere che si vedessero tutte le altre differenze che restavano in piedi fra la corona di Francia e la casa di Savoia; le quali differenze egli per la sua parte averebbe rimesse volontieri alla decisione e arbitrio di Sua Santitá. E di piú il re soggiunse, che non potendosi fidare del duca, egli vorrebbe qualche particolare sicurezza ancora intorno all’esecuzione dell’accordo che avesse nuovamente a seguire, come egli volesse quasi pretendere che in man sua restasse alcuna piazza del duca finché le cose nel primo loro termine ritornassero.
Parve al legato che il re uscisse a pretensioni troppo alte e che parlasse troppo da vincitore: nondimeno stimò che non convenisse a lui d’entrare col re allora in contrasto, e perciò disse modestamente che Sua Maestá con la sua gran prudenza, quando si venisse al trattato, misurarebbe meglio tutte le sue pretensioni, dovendosi credere che la Maestá sua non moverebbe se non quelle che fossero giuste plausibili e proporzionate alla sua reai grandezza e generositá. E qui prese l’occasione il legato di fare instanza al re che volesse, giá che mostrava d’inclinare alla pace, lasciarne introdurre quanto prima il trattato; soggiongendo ch’egli sopra di ciò aveva stabilito con il duca di Savoia quello che poteva essere necessario. A questo rispose il re che aborrendo egli di trattar piú col duca potrebbe il legato trattar per esso, giaché sapeva pienamente i suoi sensi. Replicò il legato al re che a lui non conveniva d’essere in un tempo e ministro del pontefice e ministro, per cosí dire, del duca; ma ch’egli al partir suo da Turino era col duca restato in appuntamento ch’egli spedisse ad ogni sua richiesta due deputati con piena autoritá di trattare e concludere tutto quello che bisognasse. Che il duca averebbe voluto inviarli con lui, ma ch’egli per usare maggior termine di rispetto verso Sua Maestá non aveva a ciò voluto consentire, se prima non sapesse quale in ciò fosse il senso della Maestá sua, al che volendo condescendere ciò sarebbe un negoziare molto piú con lui che col duca, poiché i deputati da inviarsi non si allontanarebbono punto dalla sua devozione. Mostrò il re che non ricusarebbe questo espediente. E quindi entrò in nuove acerbe querele contro il duca e poi contro li spagnuoli, dolendosi del fomento che in varie maniere questi davano a quello, e mostrando che da loro si procedesse con mala intenzione, col dire specialmente che sin’allora non aveva il re giurata la pace conclusa giá un pezzo prima in Vervin.
Procurò il legato di mitigare quanto gli fu possibile i sensi del re, ma insieme liberamente gli disse che non si maravigliava gran fatto nel vedere che li spagnuoli non avessero pur anche giurata quella pace, poiché stando essi in dubio di veder nascere nuova guerra fra Sua Maestá e il duca di Savoia, dal quale essi non potevano separarsi, perciò si poteva credere che il re di Spagna differisse a giurare quella pace finché restasse intieramente sicuro che non avesse a succedere nuova guerra.
E qui nuovamente il legato esortò in nome del pontefice il re, con efficacissime preghiere, a voler disporsi in ogni modo alla pace. Soggiunse poi egli che non poteva tralasciar di proporre a Sua Maestá nel medesimo tempo qualche sospensione d’armi, per agevolare tanto piú l’incaminamento al negozio. Ma che avendo di giá fatto officio il patriarca e trovatane Sua Maestá, renitente perciò credeva egli che veramente fosse meglio d’entrar subito nel trattato di pace e procurare con ogni maggior brevitá di concluderla.
Intorno al particolar della sospensione d’armi, disse il re d’averla ricusata come troppo vantaggiosa a’ disegni del duca e degli spagnuoli, dalla quale parte si voleva rimediare con un tal mezzo alla perdita infallibile che soprastava di Momigliano; che perciò il legato con molta prudenza andava ritenuto a far sopra questo alcun’altra instanza piú viva; e quanto al trattato di pace il re tornò a ripigliare le cose giá dette, e con nuova significazione di riverenza verso il pontefice e d’affetto verso la persona dell’istesso legato, si dichiarò che in riguardo loro egli averebbe agevolato quanto piú si fosse possibile dalla sua parte il successo. Questa fu in ristretto la prima audienza di negozio che ebbe il legato dal re, la quale audienza durò piú di due ore stando sempre l’uno e l’altro a sedere; né ciò fu senza meraviglia de’ prencipi e signori che in disparte vi si trovarono, considerato l’uso del re, il quale per l’incredibile sua vivacitá di spirito non lasciava né anche riposar mai la persona, in modo che rarissime volte o si poneva o si fermava a sedere.
Poco dopo venne il segretario Villeroy a trovare in nome del re il legato, a fine di stabilire con lui quello che fosse necessario per dar principio al trattato di pace. Negoziarono lungamente ambedue insieme, con molta sodisfazione. Era Villeroy primo segretario di stato, e rendeva egli maggiore l’autoritá dell’officio con la propria riputazione di se medesimo. Grande era la sua esperienza, grande la sua integritá, e quantunque egli fosse stato uno de’ piú constanti parteggiani che avesse avuta la lega, nondimeno si erano in lui sempre veduti sensi e di buon francese e di buon cattolico, e d’uomo che abborrisse altretanto la dominazione straniera quanto amasse la vera legitima e naturale autoritá regia francese. Da lungo tempo esercitava egli quel ministerio, e l’essersi fatta in lui ormai grave l’etá gli accresceva tanto maggiormente la stima. Benché quindeci anni dopo io lo trovai vivo nel mio giungere in Francia e vigoroso tuttavia nel sostenere quell’officio, al quale diede fine poi con la morte l’anno seguente, lasciando un’immortal memoria del merito in sí lunghe ed egregie fatiche da lui acquistato e con la casa reale e insieme con tutto il regno.
Fu carissima dunque al legato questa occasione di trattare con un ministro di tal qualitá, e ch’era de’ piú stimati e piú confidenti che il re avesse intorno alla sua persona. Negoziarono lungamente, come ho detto, insieme, ed il legato con destrezza si dolse in particolare d’aver trovato il re con pretensioni sí alte, e soggiunse liberamente che il disporsi alla pace il re a quel modo era un volerla per non volerla, potendosi tenere per certo che la parte contraria non accettarebbe mai quelle condizioni. Ma Villeroy dopo aver sostenuto con soave modo le parti del re, disse al legato che non bisognava si presto allentarsi d’animo, che il trattato medesimo insegnarebbe come s’avessero da superare le difficoltá, e ch’a tal fine niun mezzo sarebbe stato migliore che la prudenza e autoritá dell’istesso legato. Onde ricevuti con gran prestezza i recapiti necessari, spedí subito per le poste al duca per tal effetto il segretario Valenti, sua creatura e che sotto di lui faceva in Roma le prime parti nella segretaria pontificia di stato. Trovavasi il Valenti appresso il legato, e l’aveva egli condotto seco e l’adoperava per farlo crescere tanto piú in riputazione e stima appresso il pontefice, e condurlo finalmente alla dignitá del cardinalato, al quale onore egli poi ascese tre anni appresso. Uomo di commune sangue ma di grata presenza; svegliato e destro nel capire e trattare i negozi; di poche lettere, e segretario di pratica molto piú che di studio, e tale insomma nell’altre sue qualitá che in riguardo alla porpora egli poteva esserne giudicato non indegno piú tosto che meritevole.
Tale era l’introduzione che si dava al negozio, ma non perciò seguiva alcun raffreddamento nell’armi, anzi queste ogni di piú riscaldandosi facevano in conseguenza temere che la guerra non potesse piú dare cosí agevolmente luogo alla pace. Di giá si era mosso il duca di Savoia con forze grandi, e sue proprie e degli spagnuoli, per soccorrere Momigliano, e all’incontro il re aveva preparate le sue non meno rigorosamente per impedire al duca in ogni modo l’esecuzione di tal disegno. Ma in questa contrarietá di fini erano troppo svantaggiose le condizioni del duca, poiché dovendo egli sforzare i passi che il re aveva occupati, e combattere nel medesimo tempo con le nevi e con li ghiacci che in altissima copia di giá ingombravano per ogni lato il paese, non era quasi possibile che una sí dura e malagevole impresa felicemente gli riuscisse, e tale appunto ne fu il successo. Avanzossi il duca su l’Alpi con dieci mila fanti, la maggior parte italiani ed il resto spagnuoli, con mille ducento cavalli e con alcuni pezzi d’artigliaria, ma ritardato dalle difficoltá del marciare fra luoghi sí aspri di lor natura e fatti piú aspri ancora dalla stagione, egli prima udí la caduta di Momigliano che potesse avere alcuna speranza di effettuarne il soccorso.
Passò egli nondimeno piú oltre, sinché trovatesi a fronte le forze regie col re in persona fu costretto a fermarsi, e questa vicinanza dell’uno e dell’altro esercito diede occasione di qualche leggiero combattimento. Crescevano in tanto piú le difficoltá per parte del duca, e all’incontro piú i vantaggi per quella del re; onde al fine fu forzato il duca di ritirarsi, fremendo egli ch’una tal piazza e sí presto e sí vergognosamente fusse venuta in mano a’ francesi.
Mentre che si aspettavano li deputati del duca, fece il legato in Ciambery un’azione ecclesiastica simile a quella che aveva fatta prima in Tortona, invocando con publiche orazioni accompagnate da larghe indulgenze l’aiuto divino a favor del trattato di pace che stava per cominciarsi. Piacque e lodossi molto l’azione, e fu celebrata devotamente non solo da magistrati e dal popolo di Ciambery, ma da gran numero d’altra gente che vi concorse dal paese circonvicino. Tentò ancora in questo il legato di tirar a qualche sospensione d’arme il re, giaché egli aveva fatto l’acquisto di Momigliano, che prima era stato il pretesto d’escluderla; e desiderava il legato di stringerla per dubio, che intorbidandosi maggiormente le cose, non venisse a farsi piú torbido in conseguenza il trattato. Ma il re all’incontro sperando di far nuovi progressi, e di avvantaggiare sempre piú dalla sua parte il negozio con l’armi, seguitò a scusarsene con il legato e ricorse a nuovi pretesti col dire particolarmente che abbracciare egli la tregua allora sarebbe stato con poco onor suo, come se la facesse per timore dell’armi che il duca gli aveva portate contro.
Giunsero in tanto li deputati del duca a Ciambery, e con l’interposizione del legato furono raccolti dal re con molta benignitá. L’uno di essi era il conte Francesco Arconati milanese, che aveva servito poco prima il duca nell’officio d’ambasciatore appresso il pontefice, e l’altro il presidente d’Alimes ministro di molta stima appresso il medesimo duca. Deputò il re similmente dalla sua parte due suoi principali ministri, e furono il signor di Sillery tornato non molto prima dall’ambasceria di Roma, e l’altro il presidente Giannino. Fatta questa deputazione cominciossi il trattato, e ciò fu ne’ primi giorni dell’anno milleseicentouno. Sapeva il legato che nell’antecedente negoziazione di Parigi, condotta per mano del patriarca di Constantinopoli, erano succedute contese grandi fra i deputati dell’una e dell’altra parte nell’essersi trovati insieme alle conferenze, e che per tal cagione spesse volte si erano notabilmente commossi gli animi, e venutosi a termini anzi di rompere che d’aggiustare l’accordo che si maneggiava. Onde il legato pensò che fusse meglio d’udire le parti con separata negoziazione, e far che mettessero in scritto quello che per via di proposte e di repliche si andasse trattando di mano in mano. Parve nuova questa forma di negoziare, ed il fresco esempio di Vervin specialmente lo dimostrava, dove i deputati delle parti si ragunavano alla presenza del legato apostolico, e quivi si andavano levando le difficoltá secondo che risorgevano. Al che servivano grandemente la presenza e l’autoritá dell’istesso legato, e la venerazione particolare che in tale occasione viene resa ad un rappresentante pontificio di tale qualitá. Cosi pur anche si vede per ordinario seguir nella pratica di maneggi simili fra prencipi temporali, senza l’intervento d’alcun ministro apostolico; e al mio tempo in Fiandra passò in questa maniera il trattato e la conclusione della tregua di dodeci anni, perciò che prima in Olanda e poi in Anversa, dove si concluse il trattato, sedevano ad una tavola i deputati cattolici da una parte e gli eretici dall’altra; e in luogo superiore sedevano pure all’istessa tavola gli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra, che in nome e con l’autoritá delli loro re facevano l’offizio di mezzani a comporre quella differenza. Con tutto ciò parve bene al legato di negoziare in questa nuova maniera, benché a lui riuscisse piú faticosa per la necessitá ch’egli aveva di fare separatamente i congressi doppi, e con doppia attenzione vedere e considerare le scritture che da lui di mano in mano si ricevevano.
La prima negoziazione fu intorno al partito del cambio, ma l’offerte che fecero li deputati del duca furono sí basse che non davano speranza alcuna di aggiustamento. Dall’altra parte i deputati del re, col dar precisa risposta intorno a questo partito, si fermorno nell’altro della restituzione e qui fecero dimande altissime, e furono che si restituisse il marchesato in quei termini stessi ne’ quali si trovava quando il duca l’aveva occupato; che si pagassero le spese fatte dal re nella presente guerra per tale occasione; che si terminassero tutte le altre differenze tra la corona di Francia e la casa del duca di Savoia; che Momigliano restasse in mano del re per sicurezza di veder eseguito l’accordo, e che la restituzione del marchesato si facesse del tutto libera e senza alcuna riserva di ragioni a favore del duca. Intorno al partito del cambio toccarono solamente che il re non lo pretendeva, ma ch’essendogli proposto con ragionevoli offerte risponderebbe allora nel modo che piú convenisse. Queste sí alte e sí vantaggiose dimande intorno al partito della restituzione non riuscirono però nuove al legato, perché egli di giá l’aveva scoperte quasi tutte dal re medesimo. Dubitò egli nondimeno che si movessero da’ francesi artificiosamente, a fine di rendere tanto piú malagevole questo partito e all’incontro poi tanto piú riuscibile l’altro del cambio, al quale si giudicava che il duca per se medesimo, e quasi piú ancora per senso delli spagnuoli, maggiormente inclinasse, e che in conseguenza poi sarebbe riuscito molto avvantaggioso a’ francesi. Ma finalmente non dispiaceva al legato che le parti inclinassero piú a comporsi per via del cambio, perché egli tanto piú ancora sperava di potere a quel modo ridurre le cose all’aggiustamento. Con tutto ciò procurava egli d’agevolare quanto piú poteva l’uno e l’altro partito. E perciò poneva ogni studio nel moderare le dimande eccessive che facevano i deputati francesi, e all’incontro nel far crescere l’offerte sí basse de’ savoiardi. Non offerivano questi se non quasi il medesimo cambio che avevano di giá offerto e che si era stabilito nell’antecedente capitolazione di Parigi, senza neanche comprender Pinarolo di qua dall’Alpi, compresovi allora insieme con l’altre sue dipendenze. E sopra il punto della restituzione, essi non consentivano quasi a niuna delle nuove dimande che facevano i regi. Erano dunque grandissime le durezze dell’una e dell’altra parte. Ma perché il legato aveva promesso al conte di Fuentes di procurare l’aggiustamento per via del cambio intiero di lá da’ monti, e perché ogni giorno piú scuopriva l’inclinazione de’ francesi all’istesso partito, usavansi da lui perciò le diligenze maggiori in agevolarlo, benché si conoscesse che verrebbe a costare in fine tanto piú caro al duca. Per superar l’accennate difficoltá, negoziava indefessamente il legato ora con l’una ora con l’altra parte, e col mezzo del nunzio in Turino faceva rappresentare vivamente al duca le necessitá di condescendere a piú larghe offerte, massime col veder farsi dalla parte del re piú grandi ogni giorno i vantaggi e conoscendoli il re molto bene, ed a punto in quei giorni fece un nuovo acquisto pur anche di molta importanza. Aveva giá il duca di Savoia nelle turbolenze passate, e specialmente nell’occasione dell’armi mosse contra la cittá di Ginevra, piantato un forte reale sopra l’ultimo confine della Savoia verso quella cittá, e chiamavasi il forte di Santa Caterina dal nome particolare dell’infanta sua moglie; e s’avvicinava in modo a quella cittá che pareva a’ genevrini d’avere come un giogo del duca sui loro colli. Applicossi dunque il re a far l’acquisto del forte, e passatovi egli stesso in persona con le provisioni militari che bisognavano, cominciò da piú lati a stringerlo. Ma nel medesimo tempo egli fece svolgere in modo il governatore, parte con le minaccie e parte con le promesse, che in termine di pochi giorni l’indusse a rendere senza contrasto alcuno vilmente il forte. Fu grave il senso del legato per questo successo, temendo che i deputati francesi non si rendessero piú duri sempre col vantaggio di tante prosperitá, e sospettando insieme che ciò non avesse in qualche modo a tornare in vantaggio de’ genevrini. Né s’ingannò egli punto, percioché i deputati francesi, i quali mostravano ormai d’inclinare a qualche moderazione, tornarono di nuovo alle prime durezze, ed in Ginevra fu ricevuto con sommo applauso il successo del forte, e con speranza di vederne seguire l’intiera demolizione, secondo che poi avvenne alcuni di appresso, e con tanta indignazione del legato che l’accordo, il quale era di giá ridotto all’ultimo segno d’aggiustamento, fu per sconcertarsi di nuovo e rompersi, come in luogo suo da me si narrerá pienamente. Sperava pure anche il re d’avere in mano ben tosto la cittá di Borgo, ristretta dal maresciallo di Birone, benché la resa non seguisse poi se non dopo il nuovo accordo che si concluse; o perché ciò nascesse dalla fede e virtú di chi difendeva la piazza o perché piú vi operasse la perfidia allora occulta di chi l’oppugnava. Questi vantaggi dalla parte del re ottenuti e sperati mantenevano, come ho detto, piú duri sempre i suoi ministri nel trattar col legato, al quale se bene dispiacevano tali progressi in ordine alla sua negoziazione, bisognava nondimeno che gli ammirasse in riguardo al valore e alla vigilanza del re che gli conseguiva. E nel vero il re volendo essere in ogni luogo e regolare egli stesso ogni azione, si maneggiava in tutto con tanto vigore di spirito e di persona, con sií ardente celeritá e con applicazione sí efficace, che lasciava in dubio s’egli facesse piú le parti o di re o di capitano o di soldato, o pure insieme di negoziante. Poiché intorno al negozio non meno della pace che della guerra, egli cosí bene riteneva le maggiori prerogative come le ritenesse in ogni altra piú eccellente qualitá militare. Poco dunque per l’accennate cagioni s’avanzava la negoziazione del legato, e dopo esser scorsi di giá molti giorni, non aveva egli ancora potuto aggiustare punto alcuno sopra i due partiti della restituzione o del cambio.
In tanto era gionta a Marsiglia felicemente per mare la regina novella sposa, e di lá poi era andata a Lione dove il re l’aveva fatta venire per consumare il matrimonio con lei. Dunque, arrivata ch’ella fu in quella cittá, egli partí subito similmente da Ciambery, e volle visitare prima il legato dandoli buone speranze intorno alla pace, e assicurandolo che i suoi progressi nell’armi non l’avrebbono perciò reso niente piú inclinato alla guerra. In segno di che invitò il legato a voler ancor egli trasferirsi a Lione, dove a piú bell’agio avrebbono potuto trovarsi insieme e trattar del negozio e superar le difficoltá. Mostrossi pronto il legato a voler seguitare il senso del re, e con ogni diligenza preparossi all’andata. Ebbe egli qualche difficoltá nel condur seco i deputati del duca, mostrando essi che fossero stati spediti per negoziare in Savoia e non dentro al regno di Francia. Ma il legato pigliò sopra di sé a fare che il duca approvasse, come poi fece, una tale resoluzione, e perciò i deputati fecero il viaggio unitamente con lui.
Giunto il re a Lione, consumò il matrimonio con la regina, e risolvè d’andarsi trattenendo in quella cittá sin ch’egli vedesse a quale piega le cose andassero a fine, poscia o di continuar la guerra o di stabilire la pace, secondo che l’occasione o piú l’astringesse a quella o piú l’invitasse a questa. Giunsevi anche il legato, e dal re fu di nuovo fatto ricevere con grande onore e fatto alloggiare con ogni commoditá. Per le prerogative particolari e del sito e degli edifici, e della mercatura e d’ogni altra piú nobile circostanza, da Parigi in fuori, non cede la cittá di Lione forse ad alcun’altra delle maggiori e piú splendide che abbia il regno di Francia. Desiderò quella cittá, dunque, di vedersi onorare con un’entrata publica in ogni piú sollenne e riguardevole forma nella presente occasione del legato, al che si dispose egli volontieri non solo in riguardo dell’onore che ne riceverebbe la sua legazione, ma perché ne fu mostrato dal re ancora un particolare desiderio, e per sodisfazione della cittá e perché ciò sarebbe come un festeggiamento del novello suo matrimonio; e l’azione passò in questa maniera. Uscí nuovamente il legato fuori della cittá, e andarono di nuovo a riceverlo in nome del re i medesimi due prencipi del sangue Condé e Mompensiero accompagnati da tutti i primi signori e da tutto il resto della nobiltá, piú fiorita che si trovasse allora nella corte del re. Al medesimo effetto similmente uscirono tutti i magistrati della cittá con un gran numero di cittadini piú principali.
Giunto alla porta entrò il legato sotto il baldachino della cittá, restandovi egli solo a cavallo con l’abito suo cardinalizio solito portarsi in tale occorrenza. Nell’avvicinarsi alla cattedrale passò egli sotto il baldachino del clero, il quale era venuto solennemente a riceverlo, e con numerosissimo concorso di gente fu condotto all’altare maggiore, dove secondo le solite ceremonie diede la benedizione al popolo; e fu terminata a quel modo la sollennitá dell’azione.
Dopo questa ceremonia mostrò gran desiderio il re, insieme con la regina, di ricevere pur medesimamente nelle persone loro proprie con particolare solennitá la benedizione apostolica per mano dell’istesso legato. Erasi di giá in Fiorenza fattasi in ogni piú maestosa forma questa sorta di ceremonia, come fu mostrato di sopra. Onde stimò il legato che potesse ora bastare una semplice messa da lui recitata, ma però publicamente nella chiesa catedrale medesima e con piú numeroso e piú riguardevole concorso. Dunque, stabilito il giorno all’azione, il legato fu il primo ad entrare in chiesa e l’accompagnorno tre cardinali, che allora si trovavano appresso il re insieme con molti vescovi. Fatta l’orazione all’altar maggiore, passò il legato a sedere sul trono sotto un baldachino che per lui stava eretto dal lato dell’evangelio. In poca distanza da lui si posero i cardinali, e piú lungi in piú basso luogo poi gli accennati vescovi. Intanto entrarono, nella chiesa il re e la regina con tutto l’accompagnamento della loro corte, e con straordinaria pompa di vestiti e di gioie, che campeggiavano da ogni parte, ma specialmente nella persona della regina vestita d’un manto reale ch’era tempestato di gigli d’oro, e che insieme con diversi altri reali ornamenti in capo, facevano risplendere a meraviglia quella bellezza naturale in lei che non aveva bisogno d’alcuno esteriore ornamento. Postosi il re con la regina in genocchione avanti l’altare, il legato prese ancor egli i suoi paramenti sacerdotali e ripassato all’altare vi recitò la messa, e poi in ultimo con le solite orazioni benedisse l’uno e l’altra, e tornato egli poi al suo luogo di prima, partirono il re e la regina con tutta la corte loro. Né quella azione poteva succedere con maggiore allegrezza e applauso di quello che apparí e dentro in chiesa e fuori per tutta la cittá.
In quel medesimo giorno celebrossi il banchetto regio di nozze, e le persone che ci intervennero sedevano in questa maniera. Il re nel mezzo, al destro lato la regina e al sinistro il legato, con tre sedie uguali. Appresso il legato sedevano i tre cardinali, il patriarca in qualitá di nunzio l’ambasciatore di Spagna e quello di Venezia; e dall’altra parte dopo la regina avevano luogo alcune prencipesse che potevano essere piú capaci di tal onore. Servirono i prencipi e gli altri primi signori alle persone reali, in questa occasione, secondo la qualitá degli offici loro. Dopo il banchetto, cominciossi a danzare con allegrezza scambievole, con indecibile agilitá e destrezza, e con quella loro libertá naturale in cosí vaga maniera che quei balli tanto vivaci si conoscevano propri della nazione, la natura della quale si dimostra tutta spiritosa in quei balli. Durò sino a mezza notte, con ogni piú dilettevole e insieme maestoso trattenimento, la festa.
Dopo queste azioni publiche nelle quali si era divertita la corte, ritornossi di nuovo dal legato alla negoziazione particolare. Desiderava egli sommamente di poterla vedere quanto prima ridotta a fine, e di ciò il papa non solamente faceva a lui viva instanza ma con lettere di sua mano spesso ne rinovava nuovamente gli offici col re medesimo. Né si mostrava men desideroso anch’egli il re di sapere quanto prima se dovesse o continuare la guerra o godere la pace. A quella, per una parte, lo facevano inclinare i guerrieri suoi spiriti, le prosperitá sue d’allora nell’armi, l’incitamento di tanti e sí valorosi capitani e ’l natural genio sí bellicoso della nazione. Ma in contrario, il trovarsi egli giá innanzi con gli anni e aver bisogno di prole, il considerare le turbolenze passate e l’esserne il regno tuttavia stanco afflitto e languente gli facevano con troppa chiarezza vedere che gli sarebbe, non solo piú fruttuosa, ma quasi del tutto necessaria la pace. Questo era in particolare il senso de’ suoi piú sperimentati e piú gravi ministri. Onde egli finalmente si dispose a volere in ogni modo stringere il trattato d’accordo, per tirarne insieme, con ogni industria però, quei vantaggi che la condizione delle cose sue, allora sí vantaggiose, molto fermamente gli prometteva.
Ripigliatosi dunque il negozio, tornò il legato di nuovo a stringerlo con ogni ardore ad uno dei due partiti, della restituzione o del cambio. Intorno al primo, egli si offerse al re di operare in modo che gli si facesse la restituzione del marchesato assolutamente libera e senza riserva alcuna di ragioni a favore del duca. Pregò poi affettuosamente il re a voler contentarsene e a voler, senz’altra maggior tardanza, consolare il pontefice e la cristianitá con la pace, la quale facendosi in quella forma non potrebbe essere piú onorevole per Sua Maestá, perché il duca non solamente verrebbe a cedere il marchesato ma insieme tutte quelle ragioni ch’egli, per sí lungo tempo e con sí grande e sí pericolosi impegnamenti, era andato publicando per tutto d’avervi sopra.
Rispose il re al legato che non gli poteva bastare la sola restituzione di Saluzzo, perché il duca in tal modo potrebbe vantarsi che fusse stata sempre in man sua e la pace e la guerra, la pace col restituirlo e la guerra col ritenerlo, e vantarsi pur anche di conseguir ora di nuovo come aperto nemico quello che poco innanzi avesse ottenuto come ospite amico. Doversi considerare i suoi falli e qual dovesse a proporzione da lui venirne l’emenda. Troppo altamente aver egli offesa la Francia con l’usurpazione di Saluzzo, troppo altamente la persona di se medesimo con l’aver mancato all’effettuazione dell’accordo stabilito seco ultimamente in Parigi. Esser necessario ch’egli una volta finisse d’apprendere la differenza che era fra i duchi di Savoia e il re di Francia, e che non bastando a disingannarlo gli esempi tuttavia molto freschi di quello che la Francia aveva fatto sí giustamente patire all’avo e al padre, ne rinovasse egli nella persona sua propria qualche altro piú fresco e forse piú dannoso e lamentabile.
A queste parole uscite dal re con sí vivo senso, replicò il legato che volendo Sua Maestá considerar bene la forma della restituzione da lui ora proposta, la troverebbe tale che non potrebbe desiderarla né piú vantaggiosa né piú onorevole.
Potersi ricordare Sua Maestá che nella capitolazione conclusa ultimamente a Parigi restava in arbitrio del duca di Savoia l’eleggere uno de’ due partiti, o della restituzione o del cambio, e che volendo restituire il marchesato ciò seguirebbe con riserva delle sue pretese ragioni, e col doversi poi difenire intieramente la causa dal pontefice in termine di tre anni; ma ora la presente restituzione dover’esser libera e senza riserva alcuna, ch’era tutto quel piú che in tal caso la Maestá sua potesse desiderare, cosí per interesse come per riputazione; per interesse ricuperando un stato sí vantaggioso alla Francia, e per riputazione facendo rimaner vinto chi pretendeva prima di essere vincitore. Nella ricuperazione di Saluzzo in somma consistere la vittoria nella presente contesa; onde con rientrarne in possesso Sua Maestá dalla parte sua, tutto intiero sarebbe il vincere, e in conseguenza dalla parte contraria tutto intiero il perdere. Dunque potersi Sua Maestá contentare d’una sí piena e síi gloriosa vittoria, nella quale rimanerebbe in dubio se avesse operato piú o la sua giustizia o la sua spada. Ed a quali maggiori angustie poter Sua Maestá ridurre il suo avversario, avendolo privato della Savoia, che gli dava il titolo del principal suo dominio, e privatolo quasi ormai della Bressa con la caduta che gli soprastava della cittadella di Borgo, e costrettolo in tanti altri modi a dover appunto conoscere e confessare la differenza che era fra lui e un re di Francia, e massime un re tale colmo di tanta gloria come il presente?
Ma nondimeno doversi credere insieme che Sua Maestá con la singoiar sua prudenza servendosi con moderazione de’ suoi vantaggi, non averebbe voluto ridurre a disperazione il duca, sí che non potendo egli sostenersi con le sue forze invocasse in altra forma che di semplice aiuto quelle del re di Spagna, le introducesse nel marchesato e nel Piemonte, e si trovasse la Maestá sua per confinante, da quella parte, un prencipe cosí grande e cosí potente in luogo d’un altro che per ogni riguardo gli era di stato disuguale e tanto inferiore.
Queste ragioni del legato benché molto efficaci poco nondimeno operavano. Diceva il re che non erano d’alcun rilievo le pretensioni del duca sopra Saluzzo, e ch’egli ben facilmente poteva cedere quello che in alcun modo non potrebbe difendere. Armarsi egli ogni di piú in questo mezzo, e col fomento delli spagnuoli far molto piú le parti d’uguale che d’inferiore, onde essere necessario in ogni maniera di rintuzzare il presente suo orgoglio e di farlo pentire della temeritá sua passata.
Da queste durezze che nel re apparivano poco i suoi deputati ancora si discostavano; ma poco inclinati pur anche scoprivansi quei di Savoia a voler condescendere a piú larghe offerte dal canto loro. In modo che il legato ogni dí si trovava in maggiori angustie; nondimeno continuando sempre piú nell’ardore delle sue diligenze, egli fece viva instanza di nuovo a’ deputati del re che volessero intieramente dichiarare le pretensioni loro sopra l’uno e l’altro partito. Essi come se allora cominciassero a fare le loro prime proteste, e non si ricordassero delle giá fatte sopra il punto della restituzione, proposero nuovamente in tal forma: che il duca senza riserva alcuna restituisse il marchesato nel termine in che si trovava al tempo dell’invasione; che da lui si pagassero seicento mille scudi per ricompensa delle rendite che il duca vi aveva goduto e delle spese che nella presente guerra il re aveva fatto; che Momigliano rimanesse in mano del re per tre anni, accioché gli servisse per la sicurezza del nuovo accordo; che si terminassero l’altre differenze tra la corona di Francia e la casa di Savoia, e di piú si aggiungeva che il re potesse far demolire il forte di Santa Caterina ed alcuni altri ancora piantati dal duca in occasione delle turbolenze in Francia.
Queste erano le dimande intorno al partito della restituzione. Quanto all’altro del cambio domandavano tutta la Bressa il Beuge il Verame e il baliaggio di Gies; che si restituissero al re le quattro terre di Centale Damonte Roccasparviera e Castel Delfino, le quali non erano molto lontane dal marchesato, ma non gli appartenevano; e che il duca pagasse trecento mille scudi e cedesse la metá dell’artigliarie e monizioni del marchesato. Parvero cosí eccessive e cosí fuori d’ogni convenienza e ragione al legato queste dimande ch’egli se ne turbò sommamente, e non potè rilasciar di risentirsene in ogni piú viva maniera. Disse che tali pretensioni facevano apparire manifestamente esser alieno il re dalla pace. Querelossi che in luogo di moderar le dimande piú tosto da quella parte ogni dí crescevano; e finalmente concluse che riputando egli ormai infruttuosi gli offici del pontefice e inutile affatto l’opera di se medesimo, però stimava che gli convenisse di pensare piú alla partita che alla dimora, il che farebbe senz’altro dopo l’aspettar tuttavia alcuni giorni per non essere incolpato d’impazienza, e di non dar quel tempo che bisognasse a maturar nel debito modo le cose. Ma non si può dire quanto dispiacesse al legato in particolare che dalla parte regia si pretendesse di far demolire gli accennati forti, e specialmente quello di Santa Caterina, del che si era divulgato che facessero grand’instanza gli eretici di Ginevra; onde egli nell’udire tali pretensioni si dichiarò liberamente con li deputati del re, che quando bene quelli di Savoia consentissero a tali demolizioni, il che essi però non farebbono mai, egli non permetterebbe giá mai che in faccia sua si smantellasse quello di Santa Caterina, e che sugli occhi suoi seguisse un’azione sí vantaggiosa alla cittá di Ginevra, nido il piú infame che avesse il calvinismo in Europa, e donde quella peste piú si era diffusa in particolare, e piú deplorabilmente, nel vicino regno di Francia.
A queste parole del legato non replicarono i deputati del re cosa alcuna, né piú avendo udito egli trattarsi di tal materia, stimò poi che da quella parte se ne fosse deposto affatto il pensiero.
Dopo queste risentite querele mostrò il legato di dover pensare da dovero alla sua partita, e cominciò a farne qualche preparazione, senza però abbandonare il negozio. Era desiderata dal re veramente la pace per le ragioni toccate di sopra, e di giá con impazienza desiderava egli ancora di tornare alla sua stanza ordinaria di Parigi e di condurvi la novella regina. Onde risolvè di agevolare il trattato quanto piú si potesse dalla sua parte, e commandò a’ suoi deputati che per tutti li mezzi piú convenienti ne procurassero quanto prima la spedizione. Dal duca di Savoia vennero gl’istessi ordini pur’anche a’ suoi deputati, poiché egli aveva conosciuto ogni di quanto piú il re si avvantaggiasse con l’armi, e quanto all’incontro peggiorassero le cose dal canto suo.
Dunque scopertasi dal legato questa disposizione dall’una e dall’altra banda, cominciò di nuovo a stringere con ogni ardore il trattato, e poste bene in contrapeso tutte le considerazioni che potevano cadere sopra i due punti e della restituzione e del cambio, le restrinse alla forma seguente. Giudicò che li deputati del re si potessero contentare della sola restituzione del marchesato libera e senza riserva alcuna a favore del duca; e quanto al cambio che il duca cedesse al re la Bressa con quel piú che fu accennato di sopra, restando però al duca le quattro terre pur accennate, che erano vicine a Saluzzo ma che non appartenevano a quel stato. Sorgeva però in questo secondo partito una difficoltá molto considerabile da superare, ed era che rimanesse al duca tanta porzione del paese da cedersi al re che fusse bastante a servire di passo alle genti, che per quella via solevano ordinariamente mandarsi in Fiandra dal re di Spagna. Onde era necessario che per tal bisogno restasse al duca un passo fermo nel Rodano, e di lá tanta poi continuazione di terreno che servisse ad introdurre le genti spagnuole nella contea di Borgogna posseduta dal re di Spagna, dalla qual contea si entrava in Lorena dove il medesimo re godeva sempre il passo libero, e di lá poi nelle provincie proprie che rimanevano sotto l’obedienza del medesimo re ne’ Paesi Bassi. Sopra questo punto temeva il legato d’incontrar difficoltá molto gravi, ma dall’altra parte sperava che il trattato medesimo fusse per suggerire di superarle.
Ristrettosi egli dunque prima con i deputati del re, appresso i quali dovevano incontrarsi le maggiori durezze, propose loro i due partiti nella forma accennata. Intorno alla restituzione offerta in quella maniera se ne mostrorno essi del tutto alieni. Dell’altro partito, in conformitá di quanto il legato aveva temuto, dissero che ne avrebbono trattato col re, il quale avrebbe senza dubio voluto esaminare bene la materia, e che poi essi avrebbono risposto quello che bisognasse. Ma il legato sin da principio aveva conosciuto, come piú volte si è detto, che i francesi desideravano piú il partito del cambio che l’altro della restituzione. Stimavano essi molto piú vantaggioso l’accrescimento di un gran paese cosí popolato, e pieno di tanta nobiltá com’era specialmente la Bressa, che non sarebbe la restituzione del marchesato, paese angusto e inferiore all’altro; e questo per molti rispetti, ma in particolare perché da quello veniva custodita la cittá di Lione, porta sí principale del regno, da una nuova grande e vantaggiosa frontiera. In questo godeva la Francia veramente un’altra porta di gran momento per le cose d’Italia. Ma librate ben tutte le conseguenze, stimavano finalmente i piú sperimentati ministri del re che dovessero prevalere quelle a queste. Restava il punto della riputazione, perché in effetto il duca di Savoia con l’invasione di Saluzzo aveva offesa la Francia, e con restituir quello stato avrebbe dovuto emendarla; né mancavano gravi ministri che erano di questa opinione, dicendo che il contrattare cambi e ricompense era azione da privato piú che da re, e da Roma specialmente scriveva in questo senso con vive parole al secretarlo Villeroy il cardinale d’Ossat, come si legge nelle sue lettere che dopo la sua morte si divulgarono sulle stampe. Ma il re e gli altri suoi consiglieri piú accreditati considerando piú le ragioni essenziali che l’apparenti, giudicarono che si dovesse in ogni modo stringere il partito del cambio e tralasciar l’altro della restituzione. All’istesso partito del cambio inclinava molto piú ancora il duca di Savoia che all’altro di vedere nuovamente ritornare i francesi nel marchesato, perché in somma egli non poteva soffrire d’avergli nel cuore del Piemonte e quasi alle porte della principal cittá sua di Turino. In questo senso lo confermavano poi anche sempre piú i spagnuoli, i quali non meno di lui abborrivano di vedere quella porta d’Italia si vicina allo stato loro di Milano tornar di nuovo in mano alli francesi.
Esaminatosi dunque nel conseglio del re piú volte questo partito, vennero i suoi deputati a dare la risposta che ne stava attendendo il legato, e dissero che il re averebbe conceduto il passo per la gente spagnuola da condursi per la contea di Borgogna in Fiandra e che sopra di ciò avrebbe fatta ogni piú solenne dichiarazione, ma che non gli pareva conveniente di lasciare al duca parte alcuna di paese da cedersi, poiché ciò sarebbe non cederlo ma prestarlo.
Quanto al lasciare in mano del duca le quattro terre di Centale Damonte Roccasparviera e Castel Delfino, mostrarono che non appartenendo esse terre al marchesato non poteva il duca giustamente pretenderle, ma che in ogni modo questo punto si potrebbe aggiustare con qualche ripiego di scambievole sodisfazione. Da tali risposte prese animo sempre maggiormente il legato, onde ristrettosi piú volte di nuovo con i deputati del re, finalmente dopo lunghi e duri contrasti gli dispose a procurare che il re lasciasse al duca l’accennata porzione di paese ch’era necessaria per dare il passo alla gente spagnola che andasse in Fiandra. Consentiva a ciò il re con grandissima ripugnanza, né volle mai condescendervi se il duca in contracambio non gli cedeva sette terre che esso duca possedeva sulla riva del Rodano, per le quali si contentò il re di lasciare al duca il ponte di Gresy sopra il medesimo fiume e di mano in mano poi una striscia continuata di terreno aperta che arrivava sino al confine della contea di Borgogna, ch’era come una larga strada per la quale avrebbono dovuto passare l’accennate genti spagnuole per entrare in detta contea. Volle di piú il re cento milla scudi, e che il duca non potesse fabricare alcun forte in quel passo né imporvi gravezza alcuna. Questo fu l’ultimo segno al quale si dichiararono li suoi deputati che il re giungerebbe. E per l’ultima conclusione sopra l’altro punto delle quattro terre accennate, si dichiararono che il re lasciarebbe al duca Centale Damonte e Roccasparviera, ma che in ogni modo rivoleva Castel Delfino, come luogo che s’avvicinava piú al Delfinato e poteva piú agevolmente unirsi con quella provincia.
Ridotte a questi termini le cose con li deputati del re, fece gli uffici che piú convenivano similmente il legato con quei di Savoia, e di giá gli aveva fatti con ogni maggior efficacia appresso il duca medesimo per via del nunzio e con reiterati corrieri. Onde il duca risolvè di inviare ordini segreti a’ suoi deputati per la conclusione dell’aggiustamento, ma nondimeno commandò loro che, senza scoprire tali ordini, mostrassero piú tosto ripugnanza alle condizioni e si avantaggiassero in tutto quello che potessero. Fecero dunque essi molte difficoltá, e dissero che sopra delle accennate pretensioni del re, cioè, di cedergli il baliaggio di Gies, le sette terre sulla ripa del Rodano, la terra di Castel Delfino e di pagargli quelli cento mille scudi, essi non avevano sufficiente autoritá di concludere; ma turbatosi di ciò grandemente il legato, essi lo pregarono che volesse almeno pigliare sopra di sé il concludere, soggiongendo che essi vedevano sí bene disposto il prencipe loro alla pace e tanto desideroso di compiacere al pontefice che sicuramente approvarebbe tutto quello che il legato facesse. Giudicò il legato che essi non l’averebbono richiesto a concludere in quella maniera l’accordo se non avessero avuto prima commandamento espresso di farlo e col senso del duca non si conformasse quello degli spagnuoli, e vedeva chiaramente il legato, che questo era un volersi avantaggiare nella riputazione col mostrare il duca d’aver fatto in quella svantaggiosa forma l’accordo per l’impegnamento nel quale, con l’autoritá del papa, l’aveva posto il legato. In modo che gli parve di poter con gran sicurezza pigliare sopra di sé l’autoritá che gli davano i deputati del duca, e perciò, dopo alcuni altri nuovi congressi, finalmente egli ridusse ad intiera conclusione l’accordo, e fece che i deputati dell’una e dell’altra parte si trovassero a tal fine piú di una volta insieme alla sua presenza.
Consisteva dunque l’accordo ne’ principali punti seguenti: che per contra cambio del marchesato di Saluzzo il duca cedesse al re tutta la Bressa il Beuge il Verame, il baliaggio di Gies, i sette luoghi sulla ripa del Rodano, Castel Delfino, e gli pagasse di piú cento mille scudi; e all’incontro il re lasciasse al duca il detto marchesato con tutte le ragioni che aveva in esso la corona di Francia, le terre di Centale Damonte e Roccasparviera, e di piú il ponte di Gresy con l’accennata continuazione di paese per dove le genti spagnuole averebbono goduto il passo per entrare nella contea di Borgogna.
Stabilito in questa forma l’aggiustamento, concertò il legato che si stendessero dall’una e dall’altra parte le scritture nel modo che bisognava, e fra tanto egli prese la parola scambievolmente dagli uni e dagli altri deputati per l’effettuazione di quanto rimaneva fra loro stabilito.
Era dunque tanto innanzi il trattato che per tutta la corte di giá se ne parlava come di negozio intieramente concluso, e il re mostrava di sentirne gusto particolare, quando ecco uscire all’improviso una voce che il forte di Santa Caterina si demoliva, anzi ch’era demolito. Non poteva credersi dal legato una tale novitá. Ricordavasi egli della dichiarazione da lui fatta si espressamente in contrario alli deputati regi; e considerava, che in virtú del nuovo accordo allora aggiustato, la Savoia, dentro la quale era il forte di Santa Caterina, doveva restituirsi al duca in quelli termini stessi ne’ quali si ritrovava quando il re l’aveva occupata.
Ma reso egli certo da piú bande che la demolizione era seguita, se ne commosse altamente, e gli parve che da questo successo risultasse a lui in particolare sí grave offesa che non poteva in modo alcuno dissimularla. Faceva il patriarca le prime parti appresso la sua persona, onde per mezzo di lui cominciò il legato a risentirsi forte con i deputati del re, e passò tanto innanzi il risentimento ch’egli si dichiarò di non voler essere piú tenuto alla parola data per la parte del duca, giaché se gli mancava sí chiaramente per quella del re medesimo.
Pervenute all’orecchie del re le querele che faceva il legato ne mostrò vivissimo senso, parendogli sopra modo strano che gli fosse rimproverato un mancamento di parola in cosi risoluta maniera. Pretendevano i deputati regi che si fosse potuto venire allo smantellamento del forte per la dichiarazione da loro fatta sopra di ciò sin da principio, nel portar le dimande loro al legato, e che il non essersi ancora sottoscritto il nuovo accordo lasciasse al re bastante libertá per un tale effetto.
Ma il legato rispondeva che alla dichiarazione loro egli subito aveva opposta con termini molto precisi la sua, e che quanto al nuovo accordo si poteva di giá tenere per sottoscritto in virtú della parola scambievolmente data; sapendosi molto bene che in tali casi la sottoscrizione era un atto accessorio della proceduta parola, nella quale consisteva la virtú essenziale dell’accordo. Disputossi intorno a questo punto un gran pezzo, ciascuna delle parti sostenendo le sue ragioni senza voler cedere all’altra.
Intanto restava sospeso il negozio, e passarono alcuni giorni con molta amarezza dall’una e dall’altra banda, e non senza pericolo che l’accordo naufragasse dopo esser giá, si poteva dire, condotto in porto. Era volato in questo mentre al duca di Savoia l’avviso della novitá succeduta, e nondimeno persistendo negli ultimi ordini che da lui avevano ricevuti i suoi deputati, aveva loro scritto di nuovo che non ostante la demolizione del forte passassero innanzi nella conclusione dell’accordo.
Dall’altra parte lo desiderava anche il re con manifesta impazienza per le ragioni accennate di sopra, e per lo stimolo che sentiva ogni di maggiore di ritornare quanto prima a Parigi. Ma sopra ogni altro bramavaio ardentemente il legato, e per sodisfazione del pontefice e per benefizio della cristianitá e per onore della persona sua propria. In modo che, piegando le cose da tutte le parti alla suavitá, il re per adolcire il legato gl’inviò come per sodisfazione dell’offesa che pretendeva aver ricevuta quattro personaggi di gran qualitá, e furono il gran contestabile, il gran cancelliere e i due deputati Sillery e Giannino, per mezzo de’ quali fece scusa di quanto aveva eseguito in materia dell’accennata demolizione, e aggiunse ogni altra maggior testimonianza di rispetto verso il pontefice e di stima verso il legato.
Ma perché finalmente questa era una sodisfazione di parole, e dal legato se ne desiderava qualche altra piú essenziale, si trovò questa ancora, e nel trovarla e stringerla e farne seguir l’effetto vi ebbe gran parte il marchese di Rhony sopraintendente delle finanze e generale dell’artigliarie, il quale appresso il re (giá fu toccato da me in altro luogo) aveva grandissima autoritá; e benché fosse eretico, era gran politico e uno di quei consiglieri che piú avevano portato il re sempre alla pace.
Da questo Rhony era stato reso grand’onore al legato, e con visite particolari e con ogni altra dimostrazione piú riverente; né dal legato si era ommesso alcun offizio piú convenevole di stima e di cortesia verso di lui, ch’era ministro del quale, come ho detto, il re medesimo faceva cosí gran conto. Il ripiego dunque trovato fu, che delli cento mille scudi che il duca doveva pagare, egli ne ritenesse la metá per impiegarsi nel rifacimento del forte. Non volle però mai il re che si alterassero gli articoli di giá in parola accordati, parendogli che potesse bastar quella che sopra di ciò egli dava presentemente. Di questa sodisfazione contentossi a pieno il legato. Onde furono distese subito le scritture del nuovo accordo. Ma portò il caso che nel medesimo tempo i deputati del duca riceverono commandamento da lui di non sottoscrivere senza nuovo ordine suo la capitolazione, in caso che sin allora non l’avessero sottoscritta. Del che non si può dire quanto si turbasse e insieme infastidisse il legato, vedendo le mutazioni del duca e gli artifici con i quali di continuo procurava d’avvantaggiarsi, ma volendo egli pure in ogni modo concludere l’accordo, e considerando che il duca non ostante la demolizione del forte aveva scritto a’ suoi deputati che concludessero, tornò a stringerli di maniera che a forza delle sue vive ragioni, e di quelle insieme che vi aggionse Giovan Battista de’ Tassi, ambasciatore di Spagna appresso il re di Francia e ministro di gran qualitá e prudenza e d’intenzione molto retta, fece risolvere finalmente i deputati del duca a sottoscrivere l’accordo. Il che però essi non vollero mai eseguire se prima il legato non gli assicurò, con una dichiarazione particolare in scritto, di pigliare sopra di sé quello che essi facevano e di riportarne l’approvazione intiera del duca.
Questa fine ebbe, dopo tante difficoltá e variazioni, il trattato. Fu sottoscritta la capitulazione alli 17 di gennaro 1601, e la sottoscrisse il legato medesimo, e nel suo contenuto in sostanza, dopo essersi fatta al principio una breve menzione del trattato di Vervin e dell’accordo concluso l’anno antecedente in Parigi; dicevasi che per le difficoltá poi nate nell’effettuazione di detto accordo essendosi venuto a rompimento di guerra fra il re e il duca, perciò mosso il pontefice dal paterno suo affetto verso di loro e dal vivo zelo del ben publico, aveva spedito in Francia con titolo di legato il cardinale Pietro Aldobrandino suo nipote, per la cui efficace interposizione e per la riverenza particolare de’ sudetti prencipi verso la santa sede e la persona propria di esso pontefice, i loro deputati si erano finalmente indotti d’accettare e sottoscrivere la detta capitolazione. Che in virtú di essa il duca cedeva al re i paesi e le signorie della Bressa, Beuge e Verame con i loro territori sino al Rodano, e di lá dal Rodano la terra di Ayre con altri sei luoghi di ordinaria qualitá. Gli trasferiva la baronia e baliaggio di Gies. Gli rendeva tutto quello che si era occupato da lui nel Delfinato, e nominatamente Castel Delfino con la terra del Ponte; di piú si obligava il duca a demolire il forte chiamato di Bechaudaufin e in ultimo di pagare cento mille scudi.
All’incontro lasciava il re liberamente al duca il marchesato di Saluzzo con le terre di Centale, Damonte e Roccasparviera. Obbligavasi di restituirgli tutti i luoghi a lui pigliati dall’armi di Francia sin dall’anno 1588, e consentiva alla riserva che il duca si era fatta del ponte di Gresy sul Rodano con i luoghi che si comprendono tra il fiume di Valceronna e la montagna nominata il Gran Credo, e di lá del detto fiume della terra di Negracomba sino al piú vicino ingresso nella Borgogna contea, nella quale riserva di paese non sarebbe stato però lecito al duca di piantare alcun forte, d’imporre alcuna gravezza; e in ultimo si obligava ciascuna delle parti a ratificare dentro lo spazio di un mese l’accordo, per dover poi in piú solenne forma l’uno e l’altro prencipe giurar d’eseguirlo. Queste in ristretto erano le principali materie della capitolazione in riguardo agli interessi maggiori de’ sudetti due prencipi; l’altre venivano come accessorie, e per lo piú consistevano in materia di giustizia e d’altri minuti affari piú tosto privati che publici.
Divulgata che fu la sottoscrizione de’ capitoli, se ne mostrò grandissima allegrezza da tutta la corte, e sopra d’ogni altro dal re medesimo, per la considerazione di quei vantaggi ch’egli sperava con la pace di far godere al suo regno e alla sua real successione. Fra lui e il legato passarono subito quelli offici che piú vivamente potevano manifestar la scambievole sodisfazione che si riceveva da un tal successo; dando il re specialmente sopra di ciò molte lodi al legato, facendo apparire in ogni piú affettuosa maniera l’obligo particolare che da lui se ne riconosceva al pontefice.
Ma benché fra sí liete dimostrazioni si avesse per conclusa la pace, non finiva però di starne con intiera sicurezza il legato. Considerava egli le variazioni e raggiri del duca, e specialmente l’ultimo ordine cosí strano a’ suoi deputati di non sottoscriversi, e perciò temeva ch’intorno alla ratificazione non si trovassero da quella parte nuove difficoltá onde n’avesse a pericolare nuovamente l’accordo. Per ovviare a questo pericolo, sottoscritta che fu la capitolazione, il legato spedí subito con ogni diligenza a Turino il segretario Valenti, accioché egli facesse ogni piú viva instanza al duca di ratificare l’accordo seguito, e quando ciò non bastasse egli si trasferisse a Milano, e operasse che il Fuentes con la sua autoritá inducesse il duca a ratificare quanto prima. Fatto l’uno e l’altro di questi offici, doveva poi il Valenti andar con ogni diligenza a Roma per dar minuto conto al papa medesimo di tutto quello che si fosse trattato e concluso. Questa fu la spedizione che il legato fece in Italia.
Ma nel medesimo tempo ne fece un’altra con piú vivo ardore in Spagna. Considerossi da lui che verisimilmente il duca e il Fuentes non avrebbono presa l’ultima resoluzione, che restava di pigliarsi intorno all’accordo, senza l’espresso ordine e consentimento del re di Spagna, e che perciò di lá bisognava attendere principalmente quel bene o quel male che in simile caso poteva desiderarsi o temersi. Onde egli a tutta diligenza spedí un corriero a Madrid, e ordinò al nunzio che informasse bene pienamente il re di tutto quello che si era negoziato e concluso intorno alla pace, e procurasse con ogni piú efficace ed ardente officio che Sua Maestá scrivesse con tale efficacia al duca, e con sí espresso commandamento al suo ambasciatore in Turino e al Fuentes in Milano sopra il particolare della ratificazione, che non avesse a restarne in alcun modo non solo impedito ma ne anche ritardato l’effetto. Sopra tutte l’altre ragioni che potessero movere piú il re e il suo consiglio, comandò il legato al nunzio che rappresentasse in particolare ben vivamente quanto fosse grande e quanto onorevole il vantaggio che nell’accordo acquistavano li spagnuoli, col rimanere intieramente esclusi dall’Italia i francesi. Con queste due spedizioni, ma principalmente con l’offizio da farsi in Spagna, sperò il legato di levare ogni difficoltá che restasse intorno all’effettuazione dell’accordo.
Preparossi fra tanto il re di Francia a partire da Lione per tornare a Parigi, e tornando a far nuove dimostrazioni d’onore verso il legato lo visitò piú volte, e fra l’altre un giorno condusse domesticamente la regina medesima a godere la ricreazione di un nobile giardino, che era nella casa dove il legato alloggiava. In questo tempo esso legato trattò col re d’altre vive occorrenze publiche, ma intorno a due particolarmente nelle quali mostrava gran premura il pontefice: l’una era di vedere introdotto il concilio di Trento in Francia secondo le speranze che il re dopo la sua ribenedizione piú volte n’aveva date, e l’altra di vedere quanto prima restituita nel regno la compagnia de’ padri gesuiti che qualche tempo innanzi con esenzioni rigorose era stata costretta ad uscirne.
Intorno al particolare del concilio, mostrò il re la solita sua buona intenzione, ma disse ch’era negozio da maturarsi meglio per non irritare gli umori del regno, e specialmente quelli che pur troppo erano disposti alle novitá, nel corpo degli ugonotti. E quanto al ricevere i gesuiti il legato ne riportò promessa ferma dal re, il quale dopo tre mesi la pose in esecuzione, anzi egli sin d’allora si dichiarò col legato di voler fondare un nobil collegio nella terra della Flescia, dove era nato, e di voler darne il governo a’ gesuiti. Offerí poi il re al legato il suo real patrocinio per ogni sua occorrenza e della sua casa, ed insieme ancora la protezione ecclesiastica della Francia nella corte di Roma con dodeci mila scudi d’oro annui, dicendo che non gli mancherebbono altre vie da ricompensare il cardinale di Gioiosa ch’esercitava allora quella sorte d’impiego. Non ricusò il legato la prima offerta mostrando di farne la stima che si doveva, ma non accettò giá la seconda col dire che il zio fosse del tutto alieno dal vedere impegnati i suoi tanto innanzi con i prencipi.
Partito che fu da Lione il re insieme con la regina, parve al legato che non gli convenisse, per dignitá della sede apostolica e sua, di restar solo in quella cittá, e d’aspettare in essa le risposte ch’egli doveva ricevere d’Italia e di Spagna, ma che sarebbe stato meglio d’attenderle in Avignone, cittá del papa molto vicina a Lione. Imbarcossi dunque egli sul Rodano, e in cinque giorni si trovò in Avignone. La prima risposta, come piú d’appresso, fu del Valenti, e ne rimase con grande amarezza il legato. Avvisavalo esso Valenti che non avendo trovato in Turino il duca di Savoia, egli perciò si era trasferito subito a Somma terra dello stato di Milano, dove si erano abboccati insieme il duca e il Fuentes e l’ambasciatore cattolico residente in Turino. Ch’egli aveva con ogni piú efficace maniera passati gli offizi necessari con loro secondo gli ordini del legato, ma senza alcun frutto. Ch’essi mostravano gran resistenza intorno alla ratificazione dell’accordo. Che lo riputavano troppo svantaggioso per quella parte. Che il duca minacciava altamente i suoi deputati per aver sottoscritta la capitolazione contro l’espresso ordine suo. Che sopra di ciò si doleva in qualche modo ancora del legato medesimo, e che finalmente la risposta di esso duca e del Fuentes era stata di voler subito spedire a Roma persona loro particolare, per far nuova instanza al papa accioché nuovamente interponesse la sua autoritá per ridurre a qualche piú moderata forma l’accordo. Ciò significava il Valenti, ed in effetto il duca inviò subito a Roma il cancelliere Belli, e dal Fuentes vi fu spedito don Sanchez Salines. Concluse nondimeno il Valenti d’aver penetrato che ciò si facesse per guadagnare tempo per ricevere dalla corte di Spagna la risoluzione, che di lá in primo luogo si aspettava da loro.
Ricevuto che ebbe questo avviso il legato, fu da lui presa risoluzione di andar egli stesso quanto prima a trovare il duca di Savoia e il conte di Fuentes, e stringere l’uno e l’altro in maniera che avessero finalmente a cessare le difficoltá che si mostravano da loro intorno alla ratificazione dell’accordo. Per espresso corriero dunque egli fece intendere questa risoluzione al nunzio residente in Turino, e gli ordinò che la significasse al duca ed al Fuentes, e procurasse in ogni maniera di stabilire un nuovo abboccamento simile a quello ch’era seguito l’altra volta a Tortona.
Al medesimo tempo spedi pur’anche un altro corriero al nunzio di Spagna informandolo delle difficoltá che si facevano dal duca e dal Fuentes, e rinovando egli piú efficacemente di prima gli ordini giá inviatigli con l’altro corriero intorno agli uffici che da lui in quella corte dovevano passarsi; restava che il re di Francia volesse acconsentire a questa nuova dilazione di tempo, giá che non bastava piú il mese prefisso a ratificare; sopra di che temeva il legato che il re non si ingelosisse ed in qualche pericoloso risentimento non prorompesse. Onde egli giudicò necessario spedirgli, per tal effetto, una persona di qualitá e gli mandò il conte Ottavio Tassone cameriero segreto del papa, che in altri tempi era stato in Francia, e ch’egli perciò allora aveva menato seco per valersene in quello che n’avesse potuto aver bisogno nella sua legazione.
Mostrò il re gran ripugnanza ad un tal officio, e dopo aver fatto querele acerbissime contro il duca, proruppe a dire che ben tosto rimonterebbe a cavallo e si trasferirebbe di nuovo a Lione per far la guerra, giaché il duca e li spagnuoli non volevano la pace. Ma il legato lo fece assicurare si fermamente ch’egli, e con la presenza sua propria e con gli offici che aveva di giá passati, e che di nuovo reiterava in Spagna, averebbe riportata la ratificazione del duca, che il re finalmente si contentò di aggiungere quindeci giorni di tempo, e di lasciarne altrettanti all’arbitrio del contestabile, il quale si tratteneva in Lione tuttavia con altri ministri regi, per aspettar ivi l’ultimo fine dell’accordo e farne poi seguire in nome del re la debita esecuzione.
Mentre che si tratteneva in Avignone il legato, portò il caso che per quella cittá passasse Antonio de Tassis, il quale veniva da Madrid e tornava a Roma dove egli era mastro delle poste di Spagna. Aveva egli non solo particolare introduzione ma stretta familiaritá col legato, e perciò fu subito a visitarlo e riverirlo; e parlandogli confidentemente e sopra le cose di Spagna l’assicurò che in quella corte si desiderava la pace, e veniva approvata grandemente la negoziazione giá condotta sí innanzi da lui. Onde Antonio concluse che la ratificazione si effettuerebbe senz’altro dal duca di Savoia, e che intorno a ciò si farebbe quanto bisognasse dal re di Spagna. Ricreossi tutto con questa relazione il legato, e pregò il Tassis a voler farla con ogni piú viva maniera al conte di Fuentes nel ritorno suo a Roma. Il che gli fu promesso pienamente dal Tassis, né piú tardò a partir per Italia. Il legato dunque alli sei di febraro lasciando Avignone se n’andò per terra a Cannes, luogo sul mare in Provenza; di lá poi sopra alcune feluche passò a Nizza, dove fatta rinforzare una delle galere che suol trattenere il duca di Savoia in quel porto, con essa navigò verso Genova, ed in pochi giorni felicemente giunto quivi, e da tutto il corpo della republica e da ciascun particolare della nobiltá, egli ricevè tutte quelle dimostrazioni e di riverenza verso il pontefice e di stima verso la sua persona propria, che in ogni piú alto grado si potessero desiderare. Trattennesi poco in quella cittá per l’impazienza con la quale desiderava di abboccarsi quanto prima col duca di Savoia e col Fuentes, e appunto egli fu avvisato in Genova che l’abboccamento seguirebbe come l’altra volta in Tortona. Andovvi dunque il legato, e quasi al medesimo tempo vi giunse il Fuentes. Scusossi il duca di non aver potuto venirvi perché due suoi figliuoli si trovavano allora gravemente ammalati. Voleva perciò il legato avvicinarsi piú con l’abboccamento a Turino, ma il Fuentes con molta sinceritá gli si aperse e gli disse che in effetto il duca sfuggirebbe ancora in ogni altro luogo l’abboccamento, perché voleva prima ricevere dalla corte di Spagna l’ultima risoluzione che aspettava intorno all’accordo seguito in Francia. Né seppe il Fuentes negare ch’egli similmente non fusse dell’istessa opinione, soggiungendo al legato con la medesima sinceritá, che se bene le relazioni del duca e le sue mandate in Spagna non erano del tutto favorevoli, non erano però né anche sí contrarie che non potesse aspettare di lá qualche buona risposta in approvazione dell’accordo. Stavasi allora sul fin di carnevale. Onde il Fuentes pregò strettamente il legato a voler trasferirsi a Milano dove si fermerebbe con maggior commoditá, e fra tanto potrebbono giungere le risposte che esso legato il duca ed egli ancora aspettavano. Consentí all’invito agevolmente il legato, e da Tortona col Fuentes andò a Milano. Né poteva riuscirgli piú felice l’arrivo, perché la notte seguente giunse di Spagna il corriero ch’egli attendeva, e ricevè con esso tutte quelle risposte che da lui potevansi desiderare piú favorevoli. Scriveva il nunzio che dal re e dal suo conseglio veniva grandemente approvato l’accordo; che se ne davano molte lodi al legato; che il re ne professava obligo particolare al pontefice, e godeva specialmente di un tal successo per la quiete e sicurezza nella quale si poteva sperare che le cose d’Italia restassero quietate. In segno di ciò scriveva il re una lettera di ringraziamento al legato, e quanto alla ratificazione passava gli uffizi necessari col duca, ed aggiungeva gli ordini che piú convenivano al Fuentes ed al suo ambasciatore in Turino, acioché senza alcuna difficoltá ne seguisse quanto prima l’effetto.
Rimase pieno d’allegrezza per una tale nuova il legato, e mostrossene ancora molto lieto il Fuentes, conoscendo egli, benché fosse uomo di professione militare, quanto era piú vantaggioso al suo re la pace che non sarebbe stata la guerra. Dal legato e da lui furono fatte subito le diligenze che bisognavano col duca acciò ratificasse l’accordo. Né vi pose egli alcuna difficoltá, mostrando pure dalla sua parte ancora egli di essere pienamente sodisfatto, e dell’accordo stabilito in Francia e della sodisfazione con la quale se ne restava in Spagna. Dal legato fu incontinente spedito a Lione di nuovo il conte Ottavio Tassone, accioché egli mettesse in mano del contestabile la ratificazione e si trattenesse ivi ancora sin tanto che cominciasse ad eseguire l’accordo. Il che doveva farsi coll’essere posta per la parte del duca la cittadella di Borgo in mano del re, e col restituirsi al duca quella di Momigliano.
Conclusa in tal modo e stabilita la pace, il legato inviò subito per le poste a Roma il cavaliere Clemente Sannesio suo maestro di camera, per dar pieno conto di tutto il successo al pontefice. Era nato Clemente di basso e vil sangue, ma col merito di un lungo servizio e con l’inclinazione di un particolare affetto che gli portava il legato, era asceso pur a tal segno di grazia con lui che niuno allora nella sua corte si trovava in maggior autoritá di lui, in modo che il Sannesio non serviva piú in essa ma piú tosto vi dominava, e col titolo di servitore godeva molto piú quello di favorito; e passò al fine tanto innanzi questo favore che il legato tre anni dopo, quando fu promosso al cardinalato il Valenti, fece promovere ancora alla medesima dignitá Giacomo, fratello di esso cavaliere Clemente. Azione che, a dir il vero, tornò a poco onore d’Aldobrandino, perché non poteva essere da lui portato a quel grado alcun soggetto non solo piú oscuro di sangue, ma né piú rozzo d’aspetto né piú rustico di maniere né piú duro d’ingegno né piú privo d’ogni altro piú commune talento. Dopo questa spedizione partí da Milano il legato per tornarsene con ogni maggior diligenza a Roma, e perché il duca di Savoia desiderava in ogni maniera di vedersi con lui e di passar quegli offici che richiedeva una tale occasione, perciò fu aggiustato che si vederebbono nella cittá di Pavia. Ma portò il caso che non avendo potuto dimorare piú lungamente nella detta cittá di Pavia il legato, si riscontrasse l’uno con l’altro in barca dove sbocca il Tesino nel Po; e cosí a quel modo, con l’intervento del conte di Fuentes, il quale accompagnava il legato, si viddero e si parlarono sulle barche medesime alla sfuggita, il che bastò nondimeno per sodisfare a quello che l’uno e l’altro in tale occorrenza poteva desiderare.
Uscito dal Tesino, entrò il legato nel Po col disegno di continuare a quel modo il viaggio sino a Ferrara, e di lá per terra andarsene a Roma. Godeva egli fra tanto del commune applauso, col quale si celebrava il felice successo della sua legazione. E veramente, considerate bene tutte le cose, potevasi giudicare sí bene aggiustata e stabilita la pace che fosse, come poi seguí, per essere lungamente durabile. Vedesi nei privati litigi che i megliori accordi sono quelli che bilanciano con proporzionata misura i commodi e gl’incommodi fra le parti, e cosí pareva che si potesse considerare questo publico e gran litigio con l’autoritá del papa sí felicemente accordato.
Il re di Francia accresceva e avantaggiava notabilmente, come si è detto, la sua frontiera del lionese, e con ravvicinarsi specialmente molto piú agli svizzeri veniva a rendere quelle nazioni tanto piú ossequienti alla sua corona. Ma dall’altro canto rimaneva poi senza il marchesato di Saluzzo, che per sí lungo tempo era stato la porta de’ francesi per entrare quando pareva loro in Italia, benché senza il marchesato essi fermamente ancora sperassero che in ogni caso l’armi loro averebbono saputo aprirsi le vie tra l’Alpi, e discendere secondo il bisogno in Italia. Del che si vidde poi questi anni addietro la prova, quando il re di mezzo inverno sforzò sí memorabilmente il passo di Susa prima che fusse venuto in mano sua Pinarolo.
Il duca di Savoia perdeva, senza dubio, una gran quantitá di paesi di lá da’ monti, ma egli acquistava di qua il marchesato per la cui vicinanza viveva prima in continui sospetti, pativa gravissime pene e non gli pareva di essere mai signore assoluto nella propria sua casa.
Il re di Spagna, per l’interesse che gli toccava in questa materia, non poteva piú godere né tanto libero né tanto sicuro come prima il passo della Savoia per entrare in Borgogna e di lá in Fiandra. Era all’incontro grande il vantaggio di vedere allontanarsi da Milano, e del tutto esclusi i francesi dall’Italia.
E volendosi ancora considerare generalmente l’interesse de’ prencipi italiani, poteva loro dispiacere dall’una parte di non poter piú chiamare cosí subito in aiuto loro i francesi quando potessero averne bisogno in opposizione degli spagnuoli, ma per contrario si era veduto piú volte che il marchesato in mano a’ francesi era come un fomite per accendergli, anche senza necessarie occasioni, a portar l’armi in Italia ed a sconvolgere in- essa la quiete in vece di assicurarla, ed in ogni evento potevasi restar con l’accennate speranze che i francesi saprebbono con il ferro in mano trovare le vie di rientrare in Italia, quando piú l’occasioni lo richiedessero.
Tutte queste considerazioni facevano lodare in universale grandemente l’effettuazione della pace, ma erano grandissime le lodi in particolare che si davano al pontefice per un tal successo, nel quale i suoi offici la sua autoritá e l’interposizione del nipote facevano godere un sí gran beneficio, non solamente alla Chiesa e alla sede apostolica, ma insieme a tutte le parti che potevano piú averne bisogno in cristianitá; né si può esprimere il giubilo che da lui ne fu dimostrato, e con ringraziamenti publici a Dio e con ogni altra maggior allegrezza publica in Roma.
Fra tanto era giunto a Ferrara il legato, e d’indi seguitando per terra il viaggio era andato a Loreto a fine di rendere in quel celebre santuario le debite grazie a Dio e alla santissima Vergine del felice successo che aveva avuta la sua legazione. Di lá speditamente egli giunse a Roma dove fu ricevuto dal zio con ogni piú viva dimostrazione di tenerezza e di onore, e insieme da tutta la corte con ogni piú festeggiante applauso di voci e d’ossequio. Dopo il concistoro publico che suol darsi a’ legati e quando partono e quando ritornano, egli poi ripigliò il solito ministerio di prima.