Memorie (Bentivoglio)/Libro secondo/Capitolo V
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Capitolo V.
Quello che negoziasse in nome del papa il patriarca di Costantinopoli col re di Francia e col duca di Savoia prima che il cardinale Aldobrandino partisse di Roma; e quello che poi seguisse intorno alla mossa d’armi del re contra il duca.
Rimessa dunque alla decisione del papa la differenza del marchesato nel modo che si è veduto, egli cominciò a far viva instanza d’esserne quanto prima informato appieno dall’una e dall’altra parte, accioché avesse commoditá di possederne bene ogni punto, e di maturare poi nella forma che bisognasse l’intiera spedizione della sua sentenza. Come fu mostrato di sopra, erano venuti a Roma il signor di Sillery e il conte di Verrua; quegli spedito dal re di Francia e questi dal duca di Savoia per la causa del marchesato; ma l’uno e l’altro aveva differito sí lungamente a venire che ormai pochi mesi restavano a finir l’anno dentro al cui spazio si prefigeva il tempo del compromesso. E perché non era possibile che il papa in termine cosí breve potesse vedere la causa, egli risolvè di procurare appresso le parti che il compromesso per qualche nuovo spazio di tempo si prolungasse. Da quella di Savoia non vi poteva essere difficoltá, perché stando egli in possesso del marchesato ogni dilazione era per lui vantaggiosa; ed all’incontro il re di Francia mostrava non un vivo desiderio ma piú tosto un’ardente impazienza di ricuperarne il dominio, del quale vedeva che la Francia contra ogni ragione troppo manifestamente restava spogliata.
Parve dunque necessario al papa di fare col re i piú caldi offizi per ottenere l’accennata proroga, e per questo gli spedi espressamente il patriarca di Costantinopoli soggetto di giá conosciuto e molto ancora stimato dal re medesimo. Questi era fra Bonaventura siciliano di Calatagirone, religioso della famiglia osservante di san Francesco. Aveva, come di sopra toccossi, dopo i gradi inferiori della sua religione esercitato ultimamente il supremo del generalato, ed il papa si era servito di lui appresso il cardinale di Fiorenza, legato apostolico in tutto il maneggio della pace fra le due corone frescamente in Vervin trattata e conclusa. In quella negoziazione aveva il generale riportata gran lode, e fatto apparire che li suoi talenti lo rendevano abile non meno agl’impieghi del secolo che a quelli del claustro; onde il papa per dimostrazione d’onore e di stima l’aveva poi creato patriarca di Costantinopoli.
Spedito che egli fu al re di Francia per dover fare col duca di Savoia similmente gli offizi che bisognassero, il papa cominciò a pigliare intorno alla causa le necessarie informazioni dal signor di Sillery e dal conte di Verrua. Ma sul principio s’incontrò subito una durissima difficoltá, e questa fu che i francesi volevano avanti d’ogni altra cosa che si vedesse il punto del possessorio, e i savoiardi all’opposito pretendevano che universalmente il papa decidesse ambedue i punti del possessorio e del petitorio. Erano grandissime sopra di ciò le durezze dell’una e dell’altra parte. Con tutto ciò potè il papa fra tanto avere in mano qualche scrittura, e scuoprire sino a certo segno dove si fondassero le ragioni che di qua e di lá si potevano addurre. Consistevano le ragioni in sostanza nell’aver i marchesi di Saluzzo prese l’investiture del marchesato, secondo il vario corso de’ tempi, ora dalla parte di Francia e ora dalla parte di Savoia, ed in conseguenza con variabile soggezione riconosciuta la sovranitá del feudo ora in quella ora in questa; nondimeno appariva molto chiaro l’ultimo stato, nel quale per lungo tempo e sí pacificamente la corona di Francia ne aveva goduto il possesso, prima che il duca di Savoia venisse all’innovazione sopra narrata.
In tanto il patriarca era venuto in Francia, né si può dire quanta renitenza avesse trovata nel re intorno al consentire che il compromesso con nuova dilazione di tempo si prolongasse. Aveva egli preso vivo sospetto che il papa non solo per compiacere il duca di Savoia, ma per sodisfare molto piú il re di Spagna che entrava a parte con Savoia in tutto quello interesse del marchesato, prima si fosse indotto a spedire il patriarca ed ora con tanta efficacia procurasse una tale dilazione, la quale perché era di cosí gran vantaggio della parte contraria e tornava in sí gran pregiudizio alla sua, non poteva essere da lui se non molto ritrosamente sentita. Ma se il re per le addotte ragioni si era insospettito del papa del duca di Savoia e degli spagnuoli, non si mostrava da questa parte all’incontro minor sospetto di lui, temendosi ch’egli desiderasse di restare libero quanto prima dal compromesso per trovarsi poi libero in conseguenza a poter assalir subito il marchesato con l’armi, ed a rientrarne in possesso a viva forza per quella via. L’instanza del patriarca in nome del papa era che s’allongasse quanto piú fosse possibile il compromesso, rappresentando la qualitá e l’importanza d’una tal causa, e quanti nodi s’incontrarebbono difficilissimi da sciogliere prima che si potesse vedere ben terminata. Ma, in somma, il re non volle consentir mai a dilazione maggiore di quattro mesi.
Desiderava egli nondimeno di tenere sodisfatto il papa, e di persuaderlo a credere ch’egli nella causa del marchesato non avesse pensiero d’usar se non per ultima necessitá il rimedio dell’armi, onde con parole di gran rispetto gli fece proporre dal patriarca il seguente partito: ch’egli consentirebbe volentieri dalla sua parte a depositare il marchesato in mano del papa, e aggiongere al compromesso una proroga tale di tempo che potesse dar al papa ogni maggior commoditá di vedere e condurre a fine la causa; che un tal partito non poteva essere giustamente ricusato dal duca di Savoia, e che ricusandolo darebbe segno di volere con artificio tirare la causa in lungo e fra tanto godere il vantaggio del presente possesso, il che non potrebbe consentirsi in modo alcuno dalla sua parte.
Udita che ebbe il papa una tal proposta, rimase molto perplesso e irresoluto fra se medesimo per le considerazioni importanti che gli si rappresentavano cosí nell’ammetterla come nel ributtarla, e perché la materia non poteva essere piú grave; perciò risolvè di porla in deliberazione coi ministri suoi di maggior confidenza, e de’ quali ordinariamente negli affari di stato era solito piú di servirsi, e pesate bene le ragioni si vidde sorger fra loro una gran contrarietá di pareri.
In opposizione al deposito discorrevasi in questa maniera: che di giá si vedeva quanto il papa si trovasse angustiato dal compromesso; ma quanto piú si angustiarebbe in voler di piú sottoporsi al deposito? Dal compromesso poter egli al fine sbrigarsi agevolmente con una sola netta e ben aggiustata sentenza, alla quale accomodandosi quietamente le parti non potrebbe egli desiderare di vantaggio, e non accomodandosi verrebbe a cader sopra di loro e non sopra di lui ogni inconveniente e disordine che fosse per risultarne. Ma se in favore di una parte oltre la sentenza si vedesse aggiungere eziandio la restituzione del marchesato, come sentirebbe ciò la contraria? e se vinta forse dalla passione mettesse mano all’armi per non soffrirlo, doverebbe il papa allora armarsi ancor’egli e nella medesima forma sostenere la sua restituzione e la sua sentenza? Doverebbe in luogo di mezzano farsi parziale? in luogo d’autor di quiete, fautor di guerra? e coi mezzi istessi di procurar l’una far nuovamente risorger l’altra? Alle passate sue azioni troppo repugnarebbe questa presente, troppo al suo offizio di padre commune e alle sue qualitá particolari di supremo e pacifico pastore del cristianesimo. E quanto gravi, se pur ciò seguisse, riuscirebbero le spese in parti massimamente sí lontane dallo stato ecclesiastico, sí vicine agli eretici della Francia, i quali tanto goderebbono di vedere il papa involto nelle fiamme d’un tal incendio, e che per ogni via procurarebbero tanto ancora d’alimentario? A queste, e forse ad altre piú moleste necessitá potersi ridurre il papa con un simile impegnamento. Ricusasse dunque egli di sottoporvisi, e potendo bastargli d’avventurarsi a quei minori pericoli che si potevano temere nel compromesso, in ogni modo fuggisse i maggiori che inevitabilmente con sé portarebbe il deposito.
Ma in contrario adducevansi molte efficaci ragioni, e primamente consideravasi la reputazione e la dignitá della sede apostolica. Tornar senza dubio in grande onor suo che due tali prencipi avessero dato segno di cosí gran confidenza e rispetto verso il papa nell’azione del compromesso. Ma quanto piú largamente apparirebbe ciò in quest’altra, di far ancora seguire il deposito? Con l’aggiunger l’uno all’altro darebbesi a punto quella forza che bisognasse alla pontificia sentenza, la quale stando appoggiata al solo fondamento del compromesso poteva essere dalle parti molto piú arditamente o con vari pretesti delusa o con aperto disprezzo schernita; ed in casi tali restare si offesa la dignitá del papa, ch’egli sarebbe costretto a dover in ogni maniera procurar l’esecuzione della sua sentenza. Al che quando non giovassero i prieghi l’esortazioni e simili pastorali offizi, come potrebbe egli, se non volesse parer giudice appassionato iniquo e ingiusto, tralasciar d’unir l’armi sue temporali con la parte da cui si temesse di ricevere violenza in opposizione dell’altra, che tentasse ingiustamente di usarla?
Dunque corrersi i medesimi pericoli nel compromesso che si correrebbono nel deposito. Anzi, che si doveriano considerare minori in questo potendosi credere che niuna delle parti mai ardirebbe di opporsi con le armi alla sentenza del papa, il quale col deposito goderebbe ancora il vantaggio d’averne pronta in sua mano l’esecuzione. Poter forse piú tosto succedere che all’una ed all’altra parte, in dubio di conseguire la vittoria, dovesse riuscire caro ogni nuovo allungamento nella sentenza; e fra tanto, perché non averebbe potuto forse ancora succedere qualche impensato caso nella varietá di quelli che il mondo ogni di piú produce, col quale, per propria natura del successo medesimo e senza alcuna temporale ambizione e cupiditá de’ pontefici, la santa sede potesse continuar sí lungo tempo nel possesso del marchesato che in luogo di semplice deposito si convertisse in vera proprietá di dominio? E quanto vantaggio in un caso di tal qualitá riceverebbe la Chiesa e particolarmente l’Italia, cioè, nel vedere in un sito cosí importante fra le sue mura dell’Alpi una tal porta in mano a’ pontefici, per aprirla e chiuderla di tempo in tempo secondo che piú convenisse, o per servizio della religione cattolica o per maggiore stabilimento, non solo della quiete particolare d’Italia, ma dell’universale riposo ancora in tutto il resto del cristianesimo? Né dover porsi in conto qualche incommoditá di spesa in riguardo di tante altre conseguenze maggiori, che si dovevano considerare in materia di tal momento.
Dunque richiedersi per queste ragioni che il papa accettasse il deposito. Ma sopra tutte per quella di non lasciar mezzo alcuno intentato col quale si potesse da lui rimediare all’imminente pericolo di una nuova guerra, dopo aver egli con tanta felicitá e con tanta gloria estinto il fuoco dell’altra, che aveva fatto patire alla cristianitá, e specialmente alla Chiesa, un flagello sí lungo di tanti e sí atroci mali.
Questa ultima ragione mosse il pontefice di maniera ch’egli finalmente prese risoluzione d’accettare il deposito. Mostravasi da lui nondimeno grandissima ripugnanza a questo partito, perché egli in effetto conosceva quanto piú fosse pericoloso il deposito che il semplice compromesso, nel quale pur troppo anche stimava d’avventurare con tali prencipi l’autoritá pontificia. Ed in proposito d’esperimentare questa autoritá generalmente, e con i prencipi in particolare, soleva egli dire che il non averne occasione alcuna i pontefici era gran ventura che l’averne alcuna, e saperla giudiziosamente sfuggire era gran prudenza; ma che bisognando per qualche necessitá cimentarsi a tal prova, l’uscirne con favorevole successo doveva riputarsi una grazia singolare di Dio e quasi un miracolo manifesto. Al patriarca egli dunque ordinò che dopo aver in nome suo ringraziato il re della confidenza che in lui mostrava, procurasse con ogni piú caldo offizio di mantenere le cose ne’ primi termini del semplice compromesso, e dilungarlo piú che fosse possibile facendo apparire veramente al re la sua ripugnanza al deposito, ma che non si potendo sfuggire di accettarlo, gli significasse che in riguardo al ben publico e alla conservazione della pace egli finalmente non ricusarebbe di sottoporvisi. Volse di piú che il patriarca usasse ogni diligenza maggiore accioché il re, non ostante il compromesso e il deposito, si contentasse di porgere orecchie anche intanto ad altri partiti per via de’ quali potesse nascere qualche composizione amicabile fra le parti, e cosí restar egli poi libero affatto da ogni impegnamento fra loro. Di quanto si negoziava tra il papa e il re aveva piena notizia l’ambasciatore di Sillery, né mancava il papa di fare ogni offizio con lui parimente, accioché egli accompagnasse i suoi in ogni forma piú favorevole appresso il re nella materia della quale si trattava.
Esposte che ebbe il patriarca al re le sue commissioni, lo trovò tuttavia molto fermo nel desiderare che in ogni modo si effettuasse il deposito, senza il quale si mostrava del tutto alieno dal prolongare con nuovi termini il compromesso. Persisteva nel dire che il prolongarlo era troppo vantaggio del duca di Savoia, ma che quando vedesse in mano del papa il suo marchesato (con questa parola di suo sempre il re parlava), egli allora consentirebbe a prolongare il compromessa tutto quel tempo che per decidere la causa vi bisognasse, e che nel medesimo tempo ancora si contenterebbe d’udire altri partiti d’amicabile accordo che si proponessero. Questo fu il senso che il re mostrò, e questa la risposta che fece.
Dunque non tardò il patriarca, dopo aver negoziato col re, a trasferirsi in Piemonte per trattar col duca di Savoia medesimamente dell’istessa materia nel modo che conveniva. Era di giá informato il duca della proposta che aveva fatta il re intorno al deposito, e ne sentiva un amarissimo dispiacere; perché in effetto nel piú occulto di se medesimo egli stava risolutissimo di non voler in niun conto venire alla restituzione del marchesato; nondimeno considerando per l’altra parte quanto gli fosse necessario di non accrescere maggiormente i sospetti nel re, e di non farli nascere nel papa, aveva presa risoluzione di consentire per lo meno apparentemente al deposito; e perciò il patriarca nel riferirgli quanto aveva in commissione dal papa lo trovò ben disposto all’effettuare per la sua parte il deposito, ancorché per altre sue parole, e specialmente per quelle del nunzio ordinario che risiedeva in Turino, egli subodorasse di certo che il duca non aveva potuto sentir peggio che di vedersi venire addosso una tal proposta. Mostrò dunque con ogni miglior apparenza il duca che assentirebbe al deposito, e per farvisi conoscere tanto piú ancora inclinato discorse lungamente col patriarca intorno alla maniera del farlo.
Ma il patriarca prima di passare nella pratica piú innanzi col duca, si risolvè di tornare subito a trattare col re, e perciò senza alcuna perdita di tempo ripassò di nuovo a Parigi per rappresentare egli al re pienamente tutto quello che aveva negoziato col duca, e con ogni maggior efficacia, procurò d’astringerlo accioché in grazia del papa si contentasse di dare orecchie a qualche amicabile accordo prima ancora d’effettuarsi il deposito, atteso che non si doveva perdere la speranza che ciò potesse succedere fra le parti senza che il papa, nel compromesso e nel deposito, si avesse a trovar impegnato sí pericolosamente fra loro. Veniva a ciò il re mal volontieri, dicendo che troppo dubitava dagli artifici con i quali procederebbe il duca di Savoia nel trovar sempre nuovi pretesti per non uscir fuori del marchesato; nel quale sospetto perseverando sempre piú il re, e persuadendosi fermamente che il duca non effettuerebbe mai il deposito, riscaldatosi nella materia piú del solito, un giorno disse al patriarca queste parole: — Monsignor patriarca, voi vederete che il duca di Savoia con artificiose invenzioni anderá sfuggendo il deposito, e che il papa non potrá farmi giustizia come io sperarei con la sua sentenza; onde io sarò costretto a farmela da me stesso con la mia spada. — Era accortissimo di sua propria natura il re, e benché impiegato lungo tempo fra l’armi, era non men consumato ancora fra i negozi, e parve appunto ch’egli allora prevedesse con sicuro pronostico quello che doveva seguire e che seguií poi in materia del marchesato, come si anderá di mano in mano rappresentando. Reiterò nondimeno sí efficacemente il patriarca le medesime instanze, che al fine il re non seppe negare al papa una sí giusta e sí da lui desiderata sodisfazione.
Dichiaratosi il re che darebbe orecchie a qualche ragionevole accordo anche prima di venirsi al deposito, scrisse subito il papa una affettuosa lettera di sua mano al duca di Savoia, con la quale caldamente l’esortava a non perdere si buona occasione di aggiustarsi col re e di uscir quanto prima da si duro negozio e pieno di si nodose difficoltá. Ricordògli a questo fine che volesse proporre qualche speditivo e riuscibile partito, e dal nunzio suo ordinario gli fece liberamente soggiungere che si disingannasse ormai, e credesse che il negozio non poteva piú durare in quella maniera, e che assolutamente il re non l’avrebbe sofferto. Mostrossi il duca desideroso d’aggiustamento, e di nuovo si dichiarò che egli dalla sua parte effettuarebbe volontieri il deposito, affermando ciò con termini tanto espressi che si cominciò a credere ch’egli veramente inclinasse al partito.
Dunque non tardò piú il patriarca in procurare di stringerlo, benché il papa sempre continuasse a mostrarvisi renitente. In ogni caso voleva il papa che il deposito seguisse in tal forma ch’egli potesse con sicurezza, nel fine della causa, vedere eseguita la sua sentenza. Era la sua intenzione che il re e il duca rinovassero in piú ampia forma il compromesso di prima; che vi si comprendesse la decisione del petitorio insieme col possessorio, a fine di terminare la causa per sempre; che perciò gli si allungasse il tempo sino al termine di tre anni; che il marchesato si mettesse in mano di un presidio composto de’ suoi vassalli; che il re e il duca ampiamente rassicurassero di non tentare in esso novitá alcuna mentre durasse il deposito; che proporzionatamente concorressero alla spesa necessaria per mantenere il presidio; e che in particolare dal re gli fosse data ogni maggior sicurezza che gli eretici della Francia, e massime i piú vicini del Delfinato, non risarebbero insolenze contra il deposito che si doveva fare.
Queste erano le condizioni principali che per effettuarlo proponeva il papa dal canto suo.
Ma venutosi a trattare piú strettamente sopra ciascuno di questi punti, cominciossi ben presto a scuoprire quanto il duca di Savoia fusse alieno da tal partito. A misura che il re procurava di agevolare le condizioni che dal papa si proponevano, andava in esse all’incontro il duca trovando sempre qualche sottigliezza e difficoltá. Voleva in particolare, che se durante il deposito fusse venuto a mancare il papa, si rimettesse di nuovo il marchesato in mano sua, e che dovendo ora uscirgli di mano sua, dovesse all’incontro il re lasciare la protezione di Ginevra; cosa che non apparteneva punto al negozio del marchesato e che ravvivò nell’animo del re piú che mai i primi sospetti, e con indignazione cosí grande ch’egli minacciò apertamente di voler farsi la giustizia da se stesso con l’armi, ogni volta che il duca, senza alcuna maggior tardanza, o non effettuasse il deposito o non venisse con lui a qualche ragionevole accordo.
In questo pericolo si trovavano le cose quando si udí correre inaspettatamente una strepitosa voce, che il duca andava in persona alla corte di Francia per trattare egli medesimo di stringere col re il suo aggiustamento sopra la differenza del marchesato. Questo avviso fece nascere subito vari discorsi per ogni parte, ma specialmente in Roma dove è maggiore il prurito e l’abilitá di fargli, e dove a forza d’ingegno i piú gravi e piú occulti affari del mondo spesso ancora si antivedono prima che agli occhi communi si rappresentino. Bilanciata dunque sulla varietá de’ pareri quell’azione del duca, giudicavano alcuni ch’egli andasse a negozio di giá con reciproca sodisfazione segretamente finito; altri stimavano, che non essendo finito, con la sua andata in persona egli stesso l’avrebbe piú vantaggiosamente concluso. Ma i piú, al fine, credevano ch’egli trasportato dalle speranze andasse a negozio tuttavia molto incerto, e che da lui non si potesse far peggio che mettersi in mano di un re sí grande e sí formidabile, tutto fisso nella ristorazione del suo regno, e di giá tanto avvolto in un publico impegnamento di voler ristorarlo in particolare con la recuperazione, come egli sempre diceva, del suo marchesato. E veramente parve strano sopramaniera che il duca mostrasse d’abborrir tanto il deposito di quello stato in mano del papa, e ch’egli poi volesse depositar la persona di se medesimo nel potere assoluto del re di Francia. Onde non mancavano di quelli che avvanzandosi a piú alte e piú sottili considerazioni giudicavano quasi impossibile che il duca, riputato sopra modo ambizioso e inquieto, non andasse in Francia con qualche gran machina da movere il re a qualche gran novitá, con la quale nel vantaggio che riceverebbe il re per la Francia, fosse il duca per conseguire anch’egli piú agevolmente il suo fine, non solo intorno alle cose del marchesato ma in altre eziandio molto maggiori per la sua casa. Ciò cadeva in pensiero a quelli che erano di piú penetrante e piú scaltro ingegno, ma non vi fu alcuno di cosí tragico senso a cui potesse entrare nell’imaginazione che il duca andasse in Francia per machinare, contro il re contro la casa reale e contro l’intiero corpo del regno, una sí orribile congiura come fu quella del marescialle di Birone; e pure la fama publica, ricevuta pienamente e confermata per ogni parte, manifestò poi, dopo lo scoprimento della congiura, che il duca era andato in Francia con questo fine principale, e ch’egli stesso allora col marescialle di Birone l’aveva segretissimamente ordita e conclusa. Ciò specialmente vien dichiarato dal cardinale Aldobrandino medesimo in una sua relazione molto copiosa, nella quale riferisce tutto quello che da lui fu negoziato nella legazione; mostrando che i particolari della congiura gli fossero venuti anche piú distintamente a notizia nel tempo ch’egli alcuni anni dopo si trattenne in Turino, insieme col cardinale San Cesareo suo nipote, assai lungamente appresso il medesimo duca. Ma questa essendo materia che non appartiene alla negoziazione che io vo descrivendo, perciò sará da me lasciata del tutto a parte.
Era dunque ricevuta con vari discorsi, come ho detto, la risoluzione che aveva presa il duca di Savoia di andar in Francia; e generalmente veniva ripresa molto piú che lodata. Non rimanevano ignoti a lui stesso tali discorsi, e pigliandone gran dispiacere tanto piú s’ingegnava di giustificar quest’azione. Publicavasi da lui che dopo la pace di Vervin il re di Francia aveva mostrato particolar desiderio che nascesse occasione di potersi vedere insieme l’uno e l’altro di loro, ed avendo il duca dopo la pace inviato il signor Roncasio ministro suo confidentissimo a far verso il re allora quei complimenti d’onore e di riverenza che l’occasione richiedeva, esso Roncasio era stato benignissimamente raccolto dal re, il quale con piú chiari sensi gli aveva fatto apparire il medesimo desiderio di vedere il duca e di goderlo e di onorarlo, come si doveva, nella propria sua corte di Francia.
Dall’altra parte il duca voleva far credere che a ciò egli fosse consigliato ancora dal papa, dicendo ch’egli aveva fatto conferir questa sua intenzione, e che il papa era stato di parere che l’andar egli in presenza averebbe potuto senza dubio agevolar grandemente ogni accordo. Ma in effetto né in Francia né in Roma gli offizi del duca erano stati ricevuti in quella maniera; perciò che in Francia, se bene il re aveva ricevuto il Roncasio con molta benignitá e gradita la dimostrazione del duca, non si era però allargato nel modo che publicava il duca intorno al vedersi egli col re; anzi sapevasi che il re aveva chiaramente soggiunto che meglio sarebbe stato, prima di pigliarsi dal duca una tal risoluzione, che si terminasse la differenza del marchesato, a fine di poter allora stare insieme con pieno gusto e non aver occasione alcuna d’amareggiarla. E quanto al papa, si era inteso pur similmente ch’egli aveva molto gradito e stimato l’offizio del duca, ma non datagli alcuna sorte d’incitamento per fare una simil risoluzione; anzi che aveva soggionto essere molto incerti e molto pericolosi gli abboccamenti de’ prencipi, e che servivano spesse volte piú a disunir gli animi loro che a conciliargli. Sapeva dunque nel segreto di se medesimo il duca, che il senso del papa e del re piú tosto era stato contrario che favorevole al suo intento d’andare in Francia, ma sopra tutto l’angustiava e lo metteva in gran pena la considerazione del re di Spagna, dal quale egli non poteva dubitare che non fosse per essere malissimo intesa una tale azione. Di giá ne parlavano male tutti li ministri del re in Italia, di giá vi si opponevano con tutti gli offizi loro. E specialmente il contestabile di Castiglia, governatore di Milano, che al duca era piú vicino e che da lui anche era il piú riputato, con termini quasi piú di risentimento che di esortazione, procurava in ogni maniera di rimoverlo da cosí fatto pensiero. Con tutto ciò, il duca mostrando tuttavia di persistervi cercava di onestare appresso gli spagnuoli medesimamente la sua andata in Francia con le ragioni esposte di sopra, ma specialmente gli assicurava che non averebbe in niun caso mai consentito di lasciarsi metter fuori del marchesato, perché assolutamente in ciò andava troppo unito il suo proprio interesse con quello del re di Spagna. E nondimeno sapendo i ministri regi, meglio ancora di tutti gli altri, che il duca era prencipe d’alte machine e d’inquieti e vasti pensieri, non potevano acquietarsi alle sue parole, e temevano che il porsi in mano del re di Francia fosse per qualche ordimento di cose nuove, e ch’ogni vantaggio che dovesse poi risultare al re ed al duca avesse intieramente a fondarsi nel danno loro. Intanto usava il duca ogni diligenza per disporre le cose di modo in Francia che non solo dal re ma da quei signori e ministri, che nella corte erano in maggior autoritá e onore, la sua andata fosse ben ricevuta, e potesse partorirgli ogni trattamento piú avantaggioso e nella forma dell’accoglienza e nel fine principale del negozio. Le persone piú adoperate dal re in quel tempo e di maggiore stima erano il duca di Memoransi contestabile del regno, il marchese di Rhony sopraintendente delle finanze e generale dell’artigliaria, il signor di Bellieure gran cancelliere, il signor di Villeroy primo segretario di stato, il presidente Giannino, che aveva avuta grandissima parte in tutte le negoziazioni piú difficili della lega, e il signor di Sillery, che si trovava in Roma a quel tempo e della cui persona ho giá fatta menzione particolare piú d’una volta. Aveva il duca di Savoia un ambasciatore ordinario in Parigi, ma confidando assai nel segretario Roncasio, tornò a mandar lui in Francia per iscoprire piú chiaramente l’animo del re ed il senso degli accennati ministri intorno alla risoluzione del suo viaggio. Trattò Roncasio piú d’una volta con Bellieure e con Villeroy per le qualitá degli offizi loro, e perché Bellieure particolarmente era intervenuto alla negoziazione della pace in Vervin ed in essa aveva sostenute per la Francia le prime parti.
Ma non potè in somma ritrarre egli piú di quello che di giá si era scoperto, se non che essi piú ampiamente si allargarono in dire, che senza dubio il re averebbe veduto raccolto e trattato il duca nel modo che si dovesse un parente un amico ed un ospite di tal qualitá. Ma che essi non l’averebbero però mai consigliato a venire se non pensava di sodisfare, nella forma che si conveniva, il re sopra l’interesse del marchesato. Confidava nondimeno il duca tanto di se medesimo, che non poteva deporre le speranze giá prese d’aver con la sua presenza a migliorare, e con avantaggi grandi, ogni accordo. E perciò se ben fluttuava fra se stesso alle volte, conoscendo quanto egli s’avventurasse con sí pericolosa risoluzione, in ogni modo egli finalmente determinò di seguirla e star preparato a partir quanto prima. Sempre si tratta di gravi arcani fra i prencipi, e d’ordinario quanto piú sono gravi tanto piú si procura che restino occulti, ma pochi al fine se ne trovano che non siano e ben a dentro spiati e poi ben a pieno scoperti ancora dal tempo. Che il duca di Savoia persistesse cosí tenacemente nella risoluzione d’andar in Francia, di giá si è veduto; ché restava segretissimo allora il principale incitamento che a ciò lo moveva, cioè, il maneggio che fra lui e il marescial di Birone doveva seguire in Parigi: il che dal tempo e con breve tardanza fu poi chiaramente scoperto. E quanto alla ripugnanza sí grande che il duca mostrava al deposito del marchesato in mano del papa, rimase occulto pur anche allora uno de’ sospetti che piú l’adombravano, e che poi col tempo alcuni anni dopo si venne a scoprire dal cardinale Aldobrandino medesimo, secondo che da lui stesso nell’accennata sua relazione si rappresenta. Dice dunque egli che trovandosi appresso il duca insieme col cardinale San Cesareo suo nipote, come ho toccato di sopra, ebbe occasione di sapere sicuramente da un ministro molto principale del duca, che fra le cagioni di averlo fatto abborrire tanto il deposito, una era stata il temere che il papa non procurasse di far per la sua casa l’acquisto del marchesato. Gelosia contro la quale esclama, per cosí dire, il cardinale Aldobrandino in quella scrittura mostrando egli quanto un pensiero tale fosse alieno dalla moderazione del zio, e quanto vana in ragion di prudenza sarebbe stata medesimamente ogni speranza di fare, e piú ancora di stabilire, una tale sorte d’acquisto. E come si poteva, dice egli, sperarne il consenso da due prencipi che se ne mostravano essi medesimi tanto invogliati? avrebbe dovuto il papa fidarsi d’un tal consenso anche ottenendolo? averebbe dovuto avventurare la sua casa in un principato sí lontano, sí debole, tra le forze d’un potentissimo re di Francia da un lato e d’un ambiziosissimo duca di Savoia dall’altro? Vivente lui forse si sarebbe proceduto con qualche ritegno, ma succedendo un altro pontefice, e in conseguenza l’odio e l’invidia ch’allora suole sfogarsi contro gli ultimi passati nipoti, quanto piú vacillante sarebbe rimasto quel nuovo acquisto, e con quali forze averebbe potuto sperare la sua casa di conservarlo? non averebbe ella temuto sempre qualche violenza ora dall’uno ora dall’altro di quei due prencipi, e da quello piú ancora che pigliandone l’occasione sotto colore d’aiutarla, disegnasse tacitamente forse d’opprimerla? Ciò in sostanza contiene la scrittura d’Aldobrandino intorno a questo particolare.
Ma tornando al viaggio che il duca faceva in Francia, egli finalmente al principio di novembre dell’anno millecinquecentonovantanove partí da Turino e andò a Ciambery, che è la principale terra della Savoia, e quivi si fermò alcuni giorni per fare la radunanza di tutto l’accompagnamento, col quale in ogni piú splendida forma egli voleva comparire nella corte di Francia. Andava egli in somma con alte speranze che avesse o in un modo o in un altro a riuscirgli felicemente la risoluzione che aveva presa. Da una parte confidava di potersi unire col re di Francia con gran suo avvantaggio, e per l’interesse del marchesato e per altri suoi fini ancora; il che non poteva seguire, come fu toccato di sopra, se non per via di trattati che si fossero stabiliti fra loro a’ danni del re di Spagna. Dall’altro canto egli portava con sé l’accennato maneggio occulto da stringere col marescialle di Birone, dal che poi nascevano le conseguenze a favor suo proprio e delle cose di Spagna, col pregiudizio all’incontro che ne sarebbe risultato a quelle di Francia. Ma non si riponevano da lui minori speranze nella istessa negoziazione del marchesato, perché egli si proponeva in essa di poter agevolmente guadagnare i ministri del re piú stimati e le sue dame piú favorite, non solo coi doni, che sempre hanno grandissima forza, ma con l’attrattiva di se medesimo e con le disinvolte e spiritose maniere ch’egli godeva dalla natura, e delle quali con grand’arte in ogni occasione sapeva mirabilmente valersi. Trovavasi il duca allora in etá di trentasette anni. Era egli picciolo assai di statura e con qualche disparutezza, rilevato ancora fra le spalle, ma vivace sopramodo negli occhi e nel volto e non meno eziandio ne’ gesti, e nelle parole affabile cortese liberale magnanimo, abilissimo ad ogni azione militare e civile, e dotato in somma di tante altre sí egregie parti, che non si potevano quasi unir le piú belle insieme per far bene corrispondere le qualitá d’un gran prencipe al piú desiderabile governo di un gran principato. Ma queste sí rare virtú venivano sommamente oscurate dall’ambizione, la quale nel duca di Savoia regnava con tale eccesso che portandolo continuamente a torbidi vasti e per lo piú fallaci disegni, faceva che in vece di misurarsi egli con la misura sua propria usasse molto quella di re, alle cui prerogative non potendo soffrire di cedere come prencipe di tanta eminenza, anch’egli d’una casa tutta mista di sangue regio ancor essa, perciò aveva cercato e cercava sempre inquietamente con tutti i mezzi di rendere alle grandezze loro quanto piú poteva uguali le sue. Nelle agitazioni maggiori che in tempo della lega si erano patite in Francia aveva aspirato egli a farsi re di Provenza, e poi anche all’istessa corona di Francia quando si trattava d’escluderne tutti i prencipi di Borbone.
Svaniti poscia quei tempi, non erano svanite però in lui quelle cupiditá. Col Piemonte e con la Savoia stava egli in mezzo alle due corone, e senza dubio averebbe voluto il suo principale interesse ch’egli tra le forze loro sí formidabili, per maggior stabilimento e sicurezza di se medesimo, si fosse fatto mezzano di concordia e di pace fra l’una e l’altra. Ma la pace fra loro non rendeva lui piú grande, ancorché venisse a renderlo piú sicuro; ond’egli desiderava le turbolenze, e a questo fine nudriva molto piú volontieri tra’ due re tutti i maggiori sospetti e le maggiori gelosie che poteva, sperando che turbate le cose loro fosse per nascere vantaggio grande sempre alle sue, ed a quel modo arrivar egli piú agevolmente poi alla sí da lui bramata regia condizione e fortuna. Ma in somma vedesi che all’ambizione sogliono essere molto piú famigliari i precipizi che non sono gl’innalzamenti, e di ciò il medesimo duca potrá servire d’un esempio memorabile in tutti i secoli; percioché dopo essersi da lui in varie occasioni eccitato ora un fuoco di turbolenze ora un altro, egli è rimasto finalmente piú consumato e piú miserabile d’ogni altro fra quelle fiamme, ed in esse ha lasciata ancora sí memorabilmente la casa sua che in quest’anno del milleseicentoquaranta, nel quale io vo continuando queste memorie, si trovano i prencipi di quella casa poco meno che intieramente fuori dei loro stati, avendone preso con l’armi il possesso da una parte e dall’altra i due re, e gareggiando essi fra loro a chi può in vari modi sempre piú avantaggiarvisi. Il che mi fa sovvenire del giudizio, o piú tosto del vaticinio, che fecero meco piú volte sopra di ciò, in tempo della mia nunziatura di Francia, i due primi oracoli di prudenza ch’avesse allora quel regno, cioè, Sillery gran cancelliere e Villeroy primo segretario di stato, dichiarandomi l’uno e l’altro in occasione de’ miei offizi sopra le cose turbate allora dal duca di Savoia principalmente, che in fine con la sua inquietudine il duca non averebbe mai potuto rovinare i due re, ma che bene un giorno egli averebbe rovinato se stesso e la sua casa.
Fatta ch’ebbe il duca la radunanza della sua corte in quella forma che poteva piú sodisfarlo, partí finalmente da Ciambery e per la via di Lione entrò in Francia. In Lione, e in ogni altro luogo per dove passò, fu ricevuto e spesato in nome del re con ogni splendidezza, e trattato con tutte l’altre dimostrazioni d’onore e di rispetto che in tale occorrenza egli poteva maggiormente desiderare. Trovavasi il re allora in Fontanablès, casa reale di Campagna, e dove i re sogliono godere i trattenimenti loro principali nelle caccie e massime in quella de’ cervi. Dal re fu quivi raccolto il duca pur similmente in ogni piú splendida ed affettuosa maniera. In quei primi giorni non si trattò di negozio, ma trasferitosi il re poco dopo a celebrare il santo Natale in Parigi, passate le feste, si cominciò poi ad introdurre la negoziazione necessaria sopra le cose del marchesato. Sfuggí però il re che si trattasse di ciò a dirittura fra lui ed il duca, affinché non si amareggiassero i congressi loro con una materia che per necessitá doveva portar seco delle amarezze. Studiavasi perciò il re piú tosto di trattenere il duca in feste in danze in conversazione di dame ed in altre allegrezze. E veramente non si potevano accoppiare due prencipi che piú sbrigatamente e con piú naturale disinvoltura sapessero unire ad un tempo col piacere il negozio, e col negozio il piacere, di quello che faceva l’uno e l’altro di loro. Dunque, venutosi alla trattazione, furono eletti alcuni deputati dall’una e dall’altra parte che avessero a ragunarsi e trattare insieme di quanto occorresse intorno al sopradetto interesse del marchesato. Dalla parte del re furono eletti il contestabile, il cancelliere, il maresciallo di Birone, il marchese di Rhony, il segretario Villeroy e il signor di Villiers; e da quella del duca il marchese di Luiino, il signor di Giacob, il suo cancelliere, il suo ambasciatore ordinario, il signor di Salines, il presidente Buglietto, il presidente Morozzo e il segretario Roncasio. Questi furono li deputati per l’una e per l’altra parte.
In tanto non aveva tralasciato il patriarca di rinovare con ogni maggiore efficacia gli offici che piú convenivano e col re e col duca in nome del papa, dal quale erano state scritte di giá nuove lettere affettuosissime all’uno e all’altro dopo che si era divulgata e poi eseguita la risoluzione che il duca aveva presa di andare egli stesso in Francia. Col duca in particolare il patriarca aveva strettamente passati gli offizi col ricordarli, che trovandosi ora in persona propria appresso quella del re, tanto piú conveniva che s’aggiustassero bene insieme, accioché lasciandosi da lui in Francia ben sodisfatto il re potesse all’incontro anch’egli tornar con ogni sodisfazione maggiore in Italia. Al re similmente ricordò, che avendo in tutte le sue azioni mostrata sempre una generositá cosí grande, ogni ragione voleva che non si lasciasse vincere ora di cortesia dal duca, il quale con sí gran sommissione era venuto in propria persona a constituirsi nelle sue mani. Con i ministri poi dell’uno e dell’altro non mancava il medesimo patriarca di fare parimente ogni offizio opportuno, ma presto egli scoprí che l’aggiustamento avrebbe incontrate grandissime difficultá, perché in effetto il duca si mostrava piú alieno che mai dalla restituzione del marchesato, ed il re all’incontro piú risoluto che mai in voler che gli fusse restituito.
Nelle prime conferenze tra i deputati non si venne a proposta alcuna precisa, procurando ciascuna delle parti che l’altra fosse la prima a scuoprirsi. Ma perché ciò toccava a quella del duca, il quale doveva per ogni ragione essere il primo a proporre la forma del suo aggiustamento col re, uscirono fuori con una proposta i suoi deputati che si giudicò sommamente artificiosa da quelli del re, e perciò da loro fu malissimo ricevuta. La proposta fu che il duca riconoscerebbe il marchesato in feudo perpetuo dal re e dalla corona di Francia, e che di piú lasciarebbe certa picciola porzione della Bressa e alcune altre terre, le quali non si discostavano molto dal marchesato. Parve a’ deputati del re sí bassa una tale offerta e sí disprezzabile che la ributtarono assolutamente, e con parola di gran senso dissero che il re in ogni modo rivoleva il suo marchesato, ch’egli non pensava ad altri luoghi per cambio ma che quando pure il duca avesse questo pensiero bisognava ch’egli facesse altre offerte. Applicossi però il duca al ripiego del cambio, e cominciorono i suoi deputati a crescere l’offerte, proponendo che il duca cederebbe una gran parte della Bressa e di piú ancora le terre sudette che s’avvicinavano al marchesato. Ma parve pur anche a’ deputati regi indegna questa sorte d’offerta, in riguardo al fine specialmente ch’aveva il re di voler che nel cambio entrasse di piú la piazza di Pinarolo con le valli di Susa e della Perosa. Il che averebbe fatta godere a’ francesi una nuova porta in Piemonte quasi non meno opportuna che l’altra prima del marchesato, e cominciossi perciò a scoprire chiaramente che il re inclinava a questo partito del cambio, e che voleva con ogni maggior vantaggio valersi dell’occasione di lasciare al duca il marchesato e di fargliene pagare ben caramente la voglia.
Venuto dunque a trattare piú alle strette sopra il ripiego del cambio, sorsero grandissime difficoltá; l’una e l’altra parte si teneva aggravata, ciascuna cercava di prevalere ne’ vantaggi, e in somma le conferenze davano assai piú materia di contrasto che di negozio. Per superare le durezze interponevasi il patriarca con ogni piú viva efficacia, frequenti erano le sue udienze col re, frequenti col duca e frequentissimi i suoi congressi particolari con i ministri dell’uno e dell’altro prencipe. Usava egli però gran riserva e circonspezione per non mostrarsi piú inclinato all’uno che all’altro, e con tal destrezza in tutto il negozio s’adoprava che tutto venne finalmente a cadere in man sua, senza che si riducessero quasi piú in conferenza gli accennati ministri. Nondimeno egli non profittava molto, perché tornava il re sempre a dire, che se il duca si teneva troppo aggravato nel cambio, facesse la restituzione del marchesato. Riducevasi però a strettissimi passi il duca, e di giá si mostrava pienamente pentito d’esser venuto in Francia, e conosceva quanto piú vantaggioso per lui sarebbe riuscito il deposito del marchesato in mano del papa che non era questo della sua persona in mano del re. Non si era pretermesso dal duca fin da principio di fare varie proposte al re per unirsi con lui, ma non l’aveva trovato in alcuna disposizione di volere nuovamente rompere col re di Spagna e rigettare in nuove turbolenze la Francia, che afflittane in sí dolorosa forma per sí longo tempo, a guisa di corpo convalescente dopo una lunga e mortale indisposizione, aveva bisogno degli agi e della quiete per ristorarsi. Nei ministri del re aveva il duca trovato pur anche una saldissima fede, e non si era meno ingannato negli amori del re, scuoprendo che agli amori delle dame prevalevano in lui molto piú quelli del suo interesse, onde stava tutto cruccioso e tutto diviso fra se medesimo non sapendo a che risoluzione appigliarsi. Talora averebbe voluto partire a negozio rotto, ma rompendolo gli veniva subito inevitabilmente la guerra addosso, e dall’altra parte il restare l’angustiava quasi non meno per la necessitá di dover accordarsi a voglia del re con tanto suo svantaggio. Il patriarca nondimeno gli faceva animo e l’esortava alla pazienza affine che le cose non venissero a rompimento, ch’era il punto nel quale premeva piú il papa e sopra il quale inviava continuamente ordini strettissimi al patriarca.
Ardeva di voglia il duca di ricuperare la cittá di Ginevra, onde egli fece proporre che avrebbe restituito al re il marchesato purché all’incontro il re lasciasse la protezione di Ginevra e non gl’impedisse la ricuperazione di quella cittá, sopra la quale erano sí chiare le ragioni della sua casa. Ma gli fu risposto che il re non voleva né pensava abbandonare i suoi confederati svizzeri, insieme con i quali i re suoi predecessori s’erano obligati alla protezione de’ ginevrini; che un tale interesse non aveva che fare con l’altro del marchesato, ma ch’egli bene avrebbe interposto i suoi offici e la sua autoritá, dove amicabilmente avesse potuto, a favore del duca in quelle differenze.
Propose poi il duca di fare il deposito del marchesato in mano di qualche prencipe francese, adducendo sopra di ciò un esempio simile in tempo del re Carlo ottavo. Ma di tal proposta il re s’alterò grandemente, pigliando sospetto che il duca in farlo avesse avuto per fine di metterlo in diffidenza coi prencipi della Francia, poiché il duca sapeva molto bene ch’egli non vi acconsentirebbe, e sospettò il re similmente che nell’altro particolare di Ginevra il duca avesse voluto pur anche porlo in mal concetto appresso i cattolici del suo regno e appresso il papa medesimo, come s’egli persistendo nella protezione di Ginevra si mostrasse tuttavia fautore degli eretici e poco zelante a favore de’ cattolici. Ributtò dunque la proposta d’un tal deposito, facendo rispondere ch’era diversissimo il caso d’allora da questo presente, che la Francia non aveva altro prencipe che potesse arrogarsi un’autoritá simile se non egli solo, e che non si scorgeva nel duca pensiero di fare un giusto deposito, essendosi conosciuto alieno da quello che si giustificatamente doveva approvare in nome del papa.
Tornò con tal occasione il duca a mostrarsi desideroso di tal partito con la rinovazione del compromesso nel papa e con dargli piena autoritá di venire all’intiera decisione della causa, e perciò averebbe voluto che il patriarca ne facesse al re la proposta. Ma il patriarca disse liberamente che non poteva farla in maniera alcuna, perché averebbe mostrato che il papa affettasse un partito dal quale per tante ragioni era alieno; soggiungendo che l’esser venuto in persona il duca per aggiustarsi col re aveva fatto mutar faccia alle cose in modo che non si poteva piú ritornare alle trattazioni di prima. Ch’egli però si disponesse all’aggiustamento per tutte le vie possibili e con ogni maggior brevitá di tempo, giá che si vedeva andar le cose sue peggiorando sempre con la tardanza.
Ma in questo mezzo gli ambasciatori di Francia e di Savoia in Roma non avevano lasciato star quieto il pontefice; ora dall’uno ora dall’altro si erano fatte querele acerbissime appresso di lui, dolendosi quello di Francia che il duca fosse andato per voler dar quasi le leggi al re in casa sua, col pretendere di fargli accettare partiti non solo ingiusti ma che si potevano riputar vergognosi; e dall’altra parte l’ambasciatore di Savoia si doleva altamente che il duca si fosse condotto in forma supplichevole a trovare il re ed a porsi nelle sue mani, sperando pure che un tal atto di sommissione dovesse piegarlo piú agevolmente a qualcheduno de’ tanti partiti ch’egli aveva proposti in cosí manifesto vantaggio suo, e che il re in vece di fare prevalere i sensi piú generosi e piú onesti aveva sempre con somma durezza voluto anteporre i piú rigidi e piú interessati. Ma che finalmente quando non seguisse l’accordo, restarebbe il duca giustificato in maniera che il mondo sicuramente non averebbe di che poter accusarlo. A favor di Savoia univasi l’ambasciatore di Spagna, e con quello di Francia andava congiunto il cardinale d’Ossat, e riempivano scambievolmente il papa di amarezze incredibili, ravivando in lui sempre piú tragicamente i sospetti che l’accordo non fusse per effettuarsi, e che in conseguenza si dovesse prorompere di nuovo alle turbolenze e all’armi. Pieno dunque il pontefice di timore e di zelo inviò con espressi corrieri nuovi ordini efficacissimi al patriarca in piú stretta confermazione de’ passati. Scrisse nuove lettere di sua mano al re ed al duca. Esortò con vive e paterne ragioni l’uno e l’altro all’accordo, ed in quella del re, dove egli giudicò maggiore il bisogno, con parole di ardente zelo scrisse, in particolare, che lo pregava quanto piú teneramente poteva a liberarlo dall’agonia nella quale si trovava col timore di vedere acceso un nuovo e miserabil fuoco di guerre, e perdersi le tante vigilie e fatiche da lui prese di fresco in ridurre, com’era poi seguito felicemente, il gregge cristiano in pace.
Furono dunque reiterati con tanto ardore dal patriarca gli uffizi che il re e il duca fecero venire a nuove conferenze i loro deputati, e stimarono a proposito che il patriarca unitamente con loro si trovasse. Ma non intervenne egli alla prima ragunanza, perché stimò di non poter con onor suo e della sede apostolica intervenirvi mentre vi fosse il marchese di Rhony eretico, il quale era uno dei regi deputati, come fu detto di sopra. Volse perciò il re che si astenesse il Rhony dal trovarvisi, benché poi nella negoziazione del cardinale Aldobrandino egli piú d’ogni altro ne aiutasse il buon’esito, come si narrerá a suo luogo. Ragunavansi i deputati in casa del contestabile, e sedeva il patriarca solo in capo di tavola. Al destro lato stavano i deputati del re, e al sinistro quei di Savoia, e gli uni e gli altri diferivano grandemente agl’uffizi del patriarca, riconoscendolo quasi come arbitro di tutto il maneggio. Onde i prelati della corte romana con tal’esempio averanno potuto sempre meglio conoscere le prerogative particolari de’ ministri apostolici nelle corti degli altri prencipi, e insieme piú accendersi nel desiderio di poter conseguire e degnamente esercitare li medesimi impieghi; e di qua pur si può sempre meglio comprendere il vantaggio grande che hanno li pontefici in tutte le trattazioni che dal supremo officio loro pastorale richiede la cristianitá di continuo, quando col debito zelo vien usato da loro quell’officio, e che procedono con la vera e propria loro qualitá di padri communi; e con tale occasione è forza ch’io mi compiaccia in qualche modo ancor io fra me stesso nella memoria di un simile avvenimento occorsomi nel primo anno della mia nunziatura di Francia. Aggiustaronsi allora, e fu nell’anno milleseicentodiciassette, due gravissime differenze sostenute con l’armi nelle due estremitá d’Italia: l’una era in Friuli tra la casa d’Austria e la republica di Venezia per ragione degli Uscocchi, e l’altra in Piemonte tra il re di Spagna, in favor del duca di Mantova, ed il duca di Savoia, col quale era unita in lega l’istessa republica. Sopra le cose di Monferrato erano mezzani della concordia il pontefice Paolo ed il re di Francia, onde a me toccò di fare una delle prime scene in tutto quel maneggio, e con tale successo che divenni quasi arbitro ancor’io di tutto quello che nella corte di Francia si negoziava. Facevansi le conferenze a casa del gran cancelliere, ch’era in quel tempo il signor di Villeroy. Io stava solo pur similmente in capo di tavola: al destro lato sedevano i ministri del re che erano cinque e i piú stimati, cioè il signor cancelliere, il signor di Veer guardasigilli, Villeroy primo segretario di stato, il presidente Gianino ed il signor di Pisius, figliuolo del cancelliere che doveva succedere nell’officio del Villeroy, che di giá unitamente con lui l’esercitava. Alla parte manca stavano due ambasciatori veneti, l’uno straordinario ch’era Ottavio Buon e l’altro ordinario ch’era il cavaliere Gussoni. Faceva l’officio di ambasciatore straordinario in nome del re di Spagna, e sosteneva insieme le parti della casa d’Austria di Germania, il duca di Monteleone signore principale del regno napolitano, ma egli non interveniva alle conferenze per qualche difficoltá del sedere, come anco non vi si trovavano i ministri di Savoia per qualche altra considerazione particolare. Dopo grandissime difficoltá vennesi in fine al primo aggiustamento delle due concordie a Parigi, che fu poi confermato appieno in Madrid col ministero pur’anche principalmente di monsignor Caetano arcivescovo di Capua, che era nunzio apostolico in quel tempo nella corte di Spagna; né si può dire con quanto beneficio della cristianitá, con quanto onore della santa sede, con quanta gloria del pontefice l’uno e l’altro aggiustamento si stabilisse; ma di questo successo io tratterò piú diffusamente nelle mie memorie particolari della mia nunziatura di Francia, se piacerá a Dio di concedermi tempo ed agio a bastanza da poter impiegarmivi.
Ora, tornando agli offici del patriarca, egli si adoperò di maniera che la negoziazione cominciò a pigliare buona piega, e ridursi in termini da poterne sperare in breve l’aggiustamento. Fece il duca distendere una scrittura nella quale mostrava ch’egli veniva all’ultima risoluzione de’ suoi partiti. Furono due le proposte; l’una intorno alla restituzione del marchesato e l’altra intorno all’equivalenza del cambio. Proponevasi la restituzione in questa maniera: che il duca rimetterebbe in mano del re il marchesato di Saluzzo, nel quale dovesse all’incontro il re constituire un governatore grato al duca; che i presidi fussero di gente svizzera de’ sette cantoni cattolici; che le pretensioni delle parti sopra il marchesato si rimettessero al giudizio del papa, con essergli data sopra ciò la facoltá necessaria e la dilazione del tempo che bisognasse per decidere intieramente la causa; che il governatore giurasse di rendere il marchesato in mano di quella parte a cui favore dal papa si giudicasse, e che in tanto l’amministrazione militare e civile in nome del re si facesse. Questa era la prima offerta.
L’altra intorno al cambio si proponeva nella forma seguente: che il duca in ricompensa del marchesato darebbe il paese della Bressa, Barcellonetta e Brussia, Dragoniera e val di Stura, e piú rilasciarebbe Centale, Damonte, Roccasparviera, e Castel Delfino, luoghi non molto lontani dal marchesato e sopra i quali il re aveva pretensione; che potendo forse il re pretendere che si ponessero francesi in luogo di svizzeri in qualche piazza del marchesato, e d’aver Pinarolo in luogo di qualche altra delle terre sudette, in tal caso per le conseguenze importanti che da ciò risultarebbono, il duca desiderava che il re lo lasciasse tornare in Piemonte per conferire l’uno e l’altro partito con suoi vassalli, per eleggere poi l’uno de’ due secondo ch’egli piú si sodisfacesse o dell’uno o dell’altro; e tale in sostanza era il secondo partito.
Fatta la scrittura il duca la communicò subito al patriarca, e lo pregò a voler presentarla egli stesso al re con l’aggiongervi ancora i suoi offici perché fosse ben ricevuta. Dal patriarca si conosceva che il re e i suoi ministri vi averebbero trovato varie difficoltá; nondimeno si mostrò disposto a fare quello che il duca desiderava; ma prima di trattare col re, egli volle scuoprir meglio i suoi sensi in quelli del cancelliere, al quale parve che le proposte del duca s’avvicinassero in modo alle pretensioni del re che ormai si potesse pigliare qualche buona speranza d’aggiustamento. Trattò poi il patriarca col re medesimo e lo trovò repugnante in alcuni punti, e massime in quello di non doversi indrizzare a lui stesso il giuramento del governatore, e nell’altro di mettere guarnigione di svizzeri soli in tutte le piazze, e quanto al cambio mostrò ancora di stare molto piú fisso nella piazza di Pinarolo. Assicurò nondimeno il patriarca della sua inclinazione all’accordo, e ch’egli dalla sua parte vi si disporrebbe con ogni maggior facilitá. Volle nondimeno il re communicare il tutto non solo col suo piú stretto consiglio ma coi prencipi del sangue e con gli altri prencipi e signori piú riguardevoli della corte, e con diversi altri consiglieri togati che in Francia si chiamano di robba lunga. Tenne dunque il re sopra di ciò un gran conseglio dove intervennero tutti questi nominati, e dopo averli uditi fece egli poi rispondere alla scrittura del duca con un’altra, che in sostanza era del tenore che segue.
Primieramente rappresentava il re quanto si fosse mostrato pieghevole a comporsi in qualche amicabil forma col duca di Savoia intorno alla differenza del marchesato di Saluzzo, com’egli a tal fine aveva rimessa nel pontefice la differenza, proposto il deposito da farsi in mano di lui, consentito alla venuta in Francia del duca e dato orecchio ad ogni partito che gli si era proposto; essendogli dispiaciuto che non fosse stato riuscibile alcun altro de’ partiti che intorno a questi due presenti e della restituzione e del cambio, egli quanto al primo non averebbe dovuto rimpossessarsi nel marchesato se non in quella forma stessa nella quale lo godeva la corona di Francia quando ne fu spogliata; che nondimeno per mostrare il suo desiderio di aggiustarsi col duca, si contentarebbe di porvi un governatore che fosse grato al medesimo duca, che non poteva consentire di mettere per tutto e per tutto il tempo i presidi di gente svizzera, ma che per sodisfare in qualche parte ancora di ciò il duca, gli metterebbe per un anno o due nelle terre ma con francesi dentro a’ castelli; che facendo la restituzione il duca nella debita forma, il re pienamente sottoporrebbe la causa al giudicio del papa ed eseguirebbe con piena fede quello che da lui se ne giudicasse.
Quanto all’altro partito del cambio, dichiarava il re ch’egli sempre piú volontieri averebbe veduta seguire la restituzione del marchesato; che nondimeno quando pure il duca rientrasse nel cambio, pretendeva il re ch’esso duca gli cedesse tutta la Bressa compresavi principalmente la cittá e terra di Borgo, e di piú Barcellonnetta col suo vicariato, le valli di Stura e della Perosa con la terra e valle di Pinarolo, con l’artigliarie e munizione che erano nel marchesato; che risolvendosi il duca a tal partito e cambio, il re all’incontro gli cederebbe tutte le sue ragioni sopra di quello stato; che intorno al pigliar tempo il duca di conferire l’uno e l’altro partito con i suoi vassalli prima di pigliare l’ultima risoluzione d’eleggere l’uno de’ due, pareva al re molto meglio che il duca partisse a negozio finito per non lasciarlo pendere nuovamente con pericolo di nuova difficoltá che sopravenisse; ma quando pure il duca lo desiderasse per una certa sua sodisfazione, il re all’incontro voleva che si prefigesse breve termine dentro il quale il duca dovesse risolversi o all’uno a all’altro partito, senza fare in alcuno di loro mutazione di sorte alcuna. Questa in sostanza fu la scrittura che il re fece distendere e questa l’ultima risoluzione ch’egli mostrò di pigliare.
Passata che fu la scrittura per mezzo del patriarca in mano del duca, volle anch’egli farla ben considerare da’ suoi consiglieri. Trattonne poi egli col patriarca, e mostrò d’aver mosse varie difficoltá, le quali però non erano di tal natura che agevolmente non si potessero superare. Desiderava il duca un’espressione piú chiara, che il marchesato fusse proveduto d’un governatore che non gli fusse sospetto, e parevagli conveniente che si mantenessero i svizzeri nelle piazze non uno o due anni soli, ma tutto il tempo che fusse per durare il compromesso nel papa. Averebbe egli di piú volsuto che o nella restituzione o nel cambio intervenisse prima particolare approvazione pur del medesimo papa, il che parve strano al patriarca dicendo che di giá appariva con manifesta chiarezza la sua approvazione, poiché il tutto passava principalmente con gli offici d’un particolar suo ministro inviato a posta in Francia per questo effetto. Rinuovò anche il duca l’instanze sopra il particolare di Ginevra, nel che il patriarca diceva di non poter ingerirsi come in affare d’eretici, e che a parte il re ed il duca averebbono sopra di ciò possuto intendersi fra di loro. Vedevasi che il duca averebbe desiderato d’aver qualche pretesto per nuovi allungamenti prima di eleggere l’uno o l’altro partito; del che procurò il patriarca di levargli ogni speranza, per le dichiarazioni troppo risolute che il re aveva fatte, di non volere che si allungasse punto quel termine di tempo che nell’accordo si prefigesse per doversi risolvere il duca all’accennata elezione. E sopra questo spazio di tempo da prefigersi negoziò il patriarca piú volte col cancelliere e con Villeroy. Erasi allora verso la metá di febraro, onde essi dopo aver trattato col re, dissero al patriarca che il re averebbe dato tempo al duca di pigliare o l’una o l’altra risoluzione per tutto il primo giorno di maggio. Parve troppo breve il termine al duca, e perciò il patriarca si adoperò di maniera che ottenne dal re la dilazione di tutto maggio; nondimeno il duca non si acquietava, e diceva, che dovendo egli communicare un negozio si grave ai suoi vassalli, era necessario che gli fosse dato maggior spazio di tempo. Tornava spesso a quei beneplacito del papa, si andava torcendo in varie maniere, e trovando pur altre varie difficoltá, si vedeva in somma ch’egli veniva a quell’aggiustamento con due volontá contrarie o piú tosto con una sola a’ secreti suoi fini concorde, la quale era di non voler far in modo alcuno quel che faceva. Ma il re non era punto men sagace di lui, e scopriva e indovinava i suoi sensi. Onde un giorno ricercò il patriarca a dirgli se veramente egli credeva che il duca osservarebbe l’accordo. Al che il patriarca rispose che Dio solo scuopriva l’interno de’ cuori umani, e che specialmente in quelli de’ prencipi non si poteva penetrare; che nondimeno per tutte le convenienze stimava che il duca fosse per osservare quello che si accordasse. — Voi vederete — replicò il re — che sí come io previddi ch’egli non voleva il deposito in mano del papa, cosi troverá nuovi pretesti per non eseguire l’accordo che fra di noi sará stabilito, e che io sarò costretto, come anche dissi pur allora, di farmi la giustizia con la mia spada. — Procurò il patriarca di moderare sempre piú l’animo del re, e strinse di nuovo l’uno e l’altro con si affettuose preghiere in nome del papa, che cessata finalmente ogni difficoltá, si venne all’intiera conclusione dell’accordo. Fu dunque sul fine di febraro distesa una scrittura, la quale conteneva dieciotto articoli e i piú essenziali erano questi che seguono.
Primieramente si dichiarava che da una parte il re cristianissimo Enrico quarto e dall’altra il duca di Savoia Carlo Emanuele, mossi dalle paterne e sante esortazioni del pontefice Clemente ottavo, per mostrare la riverenza loro verso la sua persona e la santa sede, e insieme il desiderio che avevano della pace publica e di conservar tra di loro ogni piú stretta corrispondenza d’amicizia e di parentela, rinovando il primo compromesso giá fatto nella persona di esso pontefice alla pace di Vervin, ora di nuovo rimettevano alla sua decisione le differenze loro sopra il marchesato di Saluzzo, al qual fine mossi pur’anche dall’affettuose sue instanze avevano stabilito un particolare accordo fra loro nella forma seguente: — che detto marchesato sarebbe dal duca restituito al re per tutto il primo di giugno prossimo, senza che vi si potesse interporre da esso duca tardanza alcuna sotto qualsivoglia colore e pretesto; che il re vi porrebbe al governo persona di tal qualitá che il duca non potesse averla sospetta; che per guardia delle terre e piazze che ne avessero bisogno il re metterebbe gente svizzera, ma ne’ castelli gente francese o d’altra sorte come piú gli piacesse; che il servizio degli svizzeri dovesse intendersi per quel tempo solo che averebbe a durare nel pontefice il compromesso, al quale si prefigeva il termine di tre anni; che volendo il duca in luogo di restituire il marchesato dar l’equivalenza d’un cambio, dovesse per tutto il mese del prossimo giugno mettere in mano del re il paese della Bressa compresavi principalmente la terra e cittá di Borgo, Barcellonetta col suo vicariato, le valli di Stura e della Perosa con la terra e castello di Pinarolo. Il che dal duca eseguito, il re all’incontro gli cederebbe tutte le ragioni di prima; che dovessero in questa occasione ancora restituirsi quelle terre con tutti quanti i luoghi che l’uno e l’altro prencipe tuttavia riteneva negli stati l’uno dell’altro; e perché il duca desiderava prima d’eleggere o l’uno o l’altro partito che gli fusse dato qualche spazio di tempo per communicare il tutto a’ suoi vassalli, si contentava il re di darglielo sino al primo giorno del prossimo mese di giugno senza che si potesse però in alcuna parte alterare l’accordo fatto. E quando il duca volesse eleggere la restituzione, dopo che fusse in effetto seguita, prometteva l’uno e l’altro prencipe di star puramente al giudicio e decisione del pontefice, il quale era supplicato di voler continuare i medesimi offici paterni in tutto quello che nuovamente potessero far bisogno per l’intiera esecuzione dell’accordo.
Questi erano gli articoli piú essenziali sopra l’uno e l’altro partito. Il rimanente si riduceva all’amministrazione del governo del marchesato e a materie quasi tutte di giustizia, che avevano riguardo piú agli interessi degli abitanti che a quelli de’ prencipi. Seguí l’accordo in Parigi e ne fu mostrata dall’uno e dall’altro prencipe molta sodisfazione, benché ciò in apparenza si facesse dal duca nel cui animo si vedeva troppo chiaro di giá il pentimento di esser venuto a mettersi nelle mani del re in quella forma, né tardò egli molto a partire lasciando nella corte del re un concetto grandissimo del suo spirito e delle sue maniere, e sopra tutto della generosa e liberale sua natura, nella quale appariva un animo veramente regio e ben degno ancora d’essere accompagnato da regia condizione e fortuna. Trattollo il re con gli onori medesimi alla partita, ch’aveva usato verso di lui al ricevimento, e si procurò in ogni modo ch’egli partisse quanto piú fosse possibile sodisfatto.
Ma uscito dal regno il duca, né anco arrivato in Savoia, si cominciò ben tosto a conoscere chiaramente quanto egli fosse alieno da venire all’esecuzione dell’accordo. Aveva egli prima che partisse dalla corte di Francia spedito a quella di Spagna Domenico Bolli suo cancelliere, con titolo in apparenza di dar conto a quel re di tutta la negoziazione di Parigi, ma in effetto per dolersi altamente che in essa il re di Francia avesse voluto sí rigidamente trattarlo. Doveva esso Bolli giustificar di nuovo l’andata del duca in Francia con le ragioni che giá furono addotte di sopra, e mettere ogni studio maggiore per far conoscere a quel re e a’ suoi ministri quanto fosse dannoso all’istesso re l’accordo fatto in Parigi; che il duca si era indotto a farlo per uscir dalle mani del re di Francia, che per lui non era stata libera l’azione come non libero il luogo; che restituendosi il marchesato rientravano i francesi in possesso di quella parte d’Italia, e non restituendosi ne acquistavano per mezzo del cambio un’altra quasi non inferiore, come si doveva stimare quella di Pinarolo; che si vedeva nel re di Francia una manifesta intenzione di voler turbare le cose d’Italia, e senza dubio con un disegno di molto maggiore danno della corona di Spagna che di pregiudizio della casa di Savoia. Con queste ragioni d’incitamento sperava il duca di movere in modo il re di Spagna, ch’egli avesse a far sua del tutto la causa del marchesato.
Trattenevasi il duca fra tanto in Savoia senza dar segno alcuno di prepararsi all’esecuzione dell’accordo, e arrivato poi in Turino cominciò molto chiaramente a dolersi di restarne troppo aggravato, lamentandosi in varie maniere di quella negoziazione e della violenza ch’egli diceva d’aver ricevuta in essa dal re di Francia. Di tal novitá diede conto al papa il suo nunzio ordinario in Turino, e di giá ancora per via di Francia il papa aveva penetrato il medesimo. Scrisse egli nondimeno lettere affettuose al re ed al duca, ringraziando l’uno e l’altro della nuova confidenza mostrata verso di lui in questo ultimo accordo stabilito fra loro, e con paterno affetto esortandoli a farne seguire quanto prima l’esecuzione.
Ma non si può dire quanto egli si turbasse in vedere che l’accennato accordo potesse rompersi e in conseguenza venirsi a nuovo rompimento di guerra, che dovesse sconvolgere piú che mai la cristianitá e piú dolorosamente che mai riaprire le piaghe sí lungo tempo da lei patite, e con la troppo recente pace non ben del tutto saldate. Considerava egli il maggior fondamento del duca di Savoia per non venire all’esecuzione dell’accordo consister nelle speranze che da lui si pigliavano di tirare, come si è detto, il re di Spagna ne’ suoi disegni; e perciò il papa stimò che da quella parte ora si dovesse principalmente aspettare il bene o il male di tutto il negozio. Ordinò egli, dunque, al suo nunzio di Spagna che informasse bene pienamente il re e il suo consiglio di tutto quello che tra il re di Francia ed il duca di Savoia si era negoziato e stabilito in Parigi, che facesse tutti gli offici opportuni perché il re di Spagna, re giovine succeduto di fresco ed interessato nella conservazione della pace, volesse adoperare la sua autoritá col duca per fargli eseguire l’accordo; ma in particolare comandò al nunzio che sopra di ciò vivamente stringesse il duca di Lerma, il quale era in supremo favore appresso il re, ponendoli in considerazione anco per suo proprio interesse, che avendo egli acquistato il favore per via della corte, poteva molto piú agevolmente vederlo diminuito che augumentato per via dell’armi.
Appresso il re di Francia rinovò per mezzo del patriarca e del vescovo di Modena suo nunzio ordinario gli offici che piú convenivano per andar tuttavia trattenendo il re, accioché trasportato dallo sdegno non si gettasse in qualche troppo ardente risoluzione contro il duca di Savoia. Ma con l’istesso duca in particolare riscaldò in ogni piú efficace modo gli offici, mescolando con le preghiere l’autoritá, e con la reputazione del duca in dover osservare quello che aveva promesso, la riputazione ancora sua propria, tanto innanzi da lui impegnata nel preceduto maneggio per servizio del medesimo duca. E perché fussero di maggior peso queste esortazioni volle che il patriarca le portasse da Parigi egli stesso al duca, e con ogni piú vivo senso in nome suo gliel’imprimesse. Questi erano gli offici che il papa faceva per l’esecuzione dell’accordo.
Intanto era gionto in Spagna il Bolli cancelliere del duca di Savoia, spedito da lui a quella corte nel modo che si è mostrato di sopra. Udita e considerata la sua relazione, giudicossi l’accordo sí dannoso al duca e insieme al re che parve necessario in ogni maniera di procurare che non si volendo o potendo trattar di romperlo, si trovasse almeno qualche forma di moderarlo. Per tornare a nuova negoziazione non vi era né poteva essere altro mezzano che il papa. Onde con ogni ardore a lui volse il re tutte le sue piú vive e piú affettuose instanze. Dal duca di Sessa, ambasciatore suo in Roma, fece rappresentare al papa la stretta congiunzione ch’egli aveva col duca di Savoia, e piú stretta quasi ancora nell’interesse che non era nel sangue. Perciò non potersi dal re abbandonare il duca in occasione sí grave, la quale insieme abbracciava i propri suoi piú importanti interessi nelle cose d’Italia, dove egli riteneva cosí gran luogo; non aver egli avuta participazione dal duca d’alcuna sorte, in tutto quello che si era trattato e poi stabilito tra il re di Francia ed il duca di Savoia in Parigi; che nondimeno dovendo nascere da quell’accordo un’alterazione cosí grande alle cose d’Italia e specialmente a quelle che avevano riguardo alla religione, la quale non poteva non rimanere in pericolo ogni volta che per gli aditi o del marchesato o di Pinarolo si potesse dalla Francia introdurre l’eresia in Italia, ogni ragione voleva che si fusse dovuto chiamar lui ancora a farlo restar libero da quei sospetti che averebbe sí giustamente prodotto in lui quell’accordo; ch’egli perciò supplicava il papa a voler di nuovo interporre la sua autoritá per moderare almeno la capitulazione accordata e ridurla a piú giusto segno; il che quando non seguisse egli si dichiarava di non potere abbandonare in modo alcuno la causa del duca di Savoia, come causa ch’egli doveva riputare intieramente sua propria.
Quest’officio del re di Spagna prevenne quello che il papa aveva fatto con lui per mezzo del suo nunzio ordinario. Parve strano grandemente al papa che il re lo ricercasse a farsi ora mezzano di mettere in dubio e in pericolo quell’accordo, nel quale con tante fatiche egli era stato mezzano per aggiustarlo e concluderlo. Onde rispose al duca di Sessa, e dal suo nunzio fece rispondere al re medesimo, ch’egli non poteva né per onore né per conscienza farsi instromento per guastare un’azione col suo mezzo giá stabilita, né con altro fine da lui procurata che del ben publico e per conservazione della pace, la quale per tanti e sí gravi rispetti doveva essere desiderata in primo luogo dal medesimo re di Spagna; sapere molto bene il re che il duca di Savoia di suo proprio motivo era andato in Francia, che volontariamente era condesceso prima al trattato e poi alla conclusione dell’accordo stabilito in Parigi; volontaria perciò doversi riputare quell’azione, volontari del tutto gli oblighi ne’ quali il duca si era constituito, e per conseguenza irretrattabili le promesse che dovevano essere da lui ora osservate; che nel rimanente se il re voleva incitar piú presto che ritener il duca, e nudrire in lui quelli spiriti che per se medesimi, pur troppo, l’accendevano a desiderare un nuovo rompimento di guerra, lasciava il papa tutto ciò alla prudenza del re, il quale per la sua parte averebbe dovuto render conto a Dio di quei nuovi mali che un tal successo farebbe patire alla cristianitá, pur troppo afflitta da quei sí lunghi e sí atroci che frescamente aveva sofferti. E perché pareva al papa di restar punto in qualche maniera sopra quello che il re toccava in materia di religione, come s’egli in certo modo la trascurasse; soggiunse che in sessanta anni continui di possesso che avevano goduto i re di Francia nel marchesato di Saluzzo, non era mai per la divina grazia e per la particolar vigilanza de’ pontefici suoi antecessori entrata l’eresia di Francia in Italia; e che i re di Francia medesimi dalla parte loro vi avevano rimediato con eccettuare sempre dalla libertá di conscienza il marchesato di Saluzzo con tutto quel piú che possedevano di qua da’ monti; che il medesimo si farebbe dal re presente quando seguisse la restituzione del marchesato e che uscisse a favor suo la sentenza pontificia, il che rimaneva incerto; e che non avendo in ciò gli altri pontefici mancato alli offici loro, non mancarebbe in alcuna maniera né anch’egli al suo. Questi erano i sensi che nell’accennata materia dal papa e dal re si mostravano.
Dall’altra parte il re di Francia non poteva con maggior indignazione mostrare i suoi, dopo essersi chiaramente scoperto che il duca di Savoia non voleva stare all’accordo. Non ricusava con termini espressi, però, il duca di voler eseguirlo, ma pigliando ora un pretesto ora un altro rifuggiva sempre agli allungamenti, né si può quasi pensare non che esprimere in quante forme egli si tramutasse. Col papa si scusava si doleva e finalmente poi si raccomandava, conoscendo molto bene che per tentar mutazione nell’accordo non vi poteva essere altro mezzano di lui. Col re di Spagna si trasformava ne’ suoi interessi, mostrandosi renitente all’accordo piú quasi per suo rispetto che per quello di se medesimo. Col re di Francia poi usava nuove sommissioni, dava nuove speranze di eseguir l’accordo concluso, suggeriva d’essere minacciato dagli spagnuoli non meno se gli consegnasse Pinarolo che se restituisse Saluzzo; chiedeva un poco piú di tempo per maturare queste nuove difficoltá, e chiedevalo per la convocazione de’ suoi vassalli conforme al capitolato: concludendo però sempre in ultimo che voleva eseguirlo. Ma il re stimando che tutti questi fossero artifici del duca, e dicendo liberamente che non voleva essere piú ingannato da lui, giudicò bene, dopo aver mostrata ogni ragionevole pazienza, di trasferirsi quanto prima egli stesso in Lione, e quivi piú di vicino vedere gli andamenti del duca, e secondo quelli regolare poi con ogni vantaggio i suoi propri. Aveva egli alla partita del duca inviato a Turino il signor dí Bernis per sollecitare il duca all’esecuzione delle cose accordate; né da questa diligenza era uscito alcun buon frutto né effetto per la mutazione de’ pensieri che si vedevano nel duca. Volle nondimeno il re che Bernis reiterasse piú volte gli uffici, e volle pur anche rappresentare al papa il vivo senso ch’aveva in vedere che il duca, contro ogni ragione, procedesse in quella maniera. Ma vedendo in fine che dal duca non se gli dava alcun segno vero di volere effettuare la capitolazione, e ch’erano di giá scorsi non solo li tre mesi dentro i quali doveva esso duca eleggere l’uno de’ due partiti ma di piú ancora quello di giugno, finalmente egli si levò da Parigi e su ’l principio di luglio venne a Lione, e quivi cominciò a disporre tutto quello che poteva essere piú necessario per passare dal negozio all’armi.
Giunto il re a Lione ordinò al sudetto Bernis che in suo nome significasse al duca la sua venuta in quella cittá, ch’egli veniva con le semplici sue guardie ordinarie e con la sua prima intenzione di stare all’accordo stabilito in Parigi; che se bene era passato il termine dentro il quale il duca doveva eleggere l’uno de’ due partiti, con tutto ciò non poteva credere che da lui si fosse per commettere mancamento, poiché in altra maniera, vedendosi il re costretto dalla necessitá, sarebbe dal negozio passato all’armi, e averebbe procurato per questa via di sodisfare nel miglior modo che avesse potuto alla sua riputazione e al suo interesse.
Poco dopo l’arrivo in Lione del re, il duca gli inviò il marchese di Lulino, e poi anche il segretario Roncasio per andarlo trattenendo pur tuttavia nel negozio. Furono ben ricevuti ambedue: ma dall’altra parte il re fece loro conoscere ch’egli era piú che mai risoluto di voler che senz’altra maggior dilazione il duca eleggesse l’uno de’ due partiti. Onde finalmente dichiarorno che il duca eleggeva la restituzione del marchesato. Mostrò il re di rimanere contento, e cominciò a stringere l’uno e l’altro di loro per l’esecuzione di quanto avevano dichiarato. Nondimeno essi pigliando il pretesto di varie difficoltá, che secondo loro aveva la forma che si doveva tenere nell’esecuzione, procuravano di guadagnare tempo senza concludere cosa alcuna, perché tali erano gli ordini che avevano ricevuti dal duca. Pareva il trattar loro sempre piú strano al re, con tutto ciò volendo egli vincere se stesso nella pazienza, benché fosse di giá scorso tutto il mese di luglio non si ributtava da lui il negozio, ma in effetto quanto egli piú agevolava il negozio e la forma dell’accennata esecuzione tanto piú i due ministri del duca vi andavano trovando nuove difficoltá; onde al fine si accorse il re chiaramente che il duca proponeva la restituzione per non farla, e che differiva artificiosamente a risolversi per non pigliar alcuna risoluzione.
Dunque egli non volle tardar piú oltre, e chiamati i due ministri di Savoia si risenti con loro altamente, e si dichiarò che se il duca in termine di sette giorni, dentro al quale tempo andasse a Turino e tornasse a Lione un corriero, non cominciava effettivamente la restituzione del marchesato di Saluzzo, egli pigliarebbe alle cose sue quel partito che fosse da lui stimato piú conveniente.
Intanto a Roma si erano continuati dal re di Spagna i primi offici col papa, ma persistendo pur anche il papa ne’ suoi primi sensi, di non poter in modo veruno per le ragioni accennate far altre nuove proposte in contravenzione e sconcerto dell’accordo giá stabilito, si ridussero poi gli spagnuoli a pregarlo che per lo meno procurasse di ritrarre qualche sicurezza dal re di Francia, per via della quale non si avesse a temere con la restituzione di Saluzzo in mano sua di vedere turbata la quiete d’Italia, nel che aveva sí grande interesse non solo il re ma l’istesso papa.
A tale richiesta giudicò il papa di poter condescendere, e perché di giá aveva penetrato che non sarebbe dispiaciuto in Spagna il partito del cambio, ogni volta che il re di Francia lo ricevesse tutto di lá da’ monti, e per conseguenza non gli venisse in mano una nuova porta síi gelosa per li spagnuoli in Italia come sarebbe stata quella di Pinarolo, perciò si esibí parimente a fare ogni officio opportuno con esso re in tale conformitá. Sopra tutto desideravano gli spagnuoli che per via del papa il negozio non si rompesse, nel che avevano per fine di guadagnar tempo e di prepararsi all’armi ogni volta che il re di Francia volesse mover le sue.
Ma contrari del tutto erano i sensi che di giá nel re di Francia apertamente si discuoprivano: perciò scorso il termine di sette giorni accennato, e non essendo comparse dal duca di Savoia se non ambigue risposte, che erano però manifeste per fare conoscere ch’egli non voleva venire alla restituzione, il re senza differir piú oltre determinò finalmente di mover l’armi. Come io accennai poco di sopra, il re aveva condotte a Lione le semplici ordinarie sue guardie: ma, in questa parte delle guardie continue, hanno veramente i re di Francia un gran vantaggio sopra tutti gli altri prencipi della cristianitá. Di gente a cavallo e a piedi mantengono essi per loro custodia ordinariamente piú di quattro mila fanti e piú di mille cavalli, oltre all’essere accompagnati sempre da grandissimo numero di nobiltá, che arma tanto piú i fianchi loro, e ch’insieme col rendere piú maestose rende piú sicure al medesimo tempo le loro persone. Con tal seguimento i re in ogni bisogno repentino si trovano superiori nella forza non meno che nell’autoritá, e raffrenato un primo impeto che succeda, molto piú agevolmente o s’aggiustano o si castigano poscia i tumulti. A questo nervo di gente ordinaria, il re subito fece aggiungere quel numero di piú che poteva bastare per l’accennata prima sua mossa d’armi. Appresso di lui si trovavano spezialmente due capitani, i quali, trattone il duca di Umena, erano stimati allora i primi del regno. L’uno era il maresciallo di Birone governatore di Borgogna, e l’altro il signor di Diguieres luogotenente generale del re in Delfínato; quegli cattolico e questi eretico, l’uno e l’altro di nobile e militare presenza, uguali nel vigore del corpo e dell’animo, uguali nell’opinione del valore e del merito, e nondimeno differentissimi nel temperamento delle nature e non meno eziandio nell’arte e nella forma del guerreggiare. Il Birone tutto ardore e tutto impazienza, e che di raro voleva attendere ma piú tosto procurar sempre l’occasione del combattere, e che poscia nel cimentarsi dall’ardito degenerava nel temerario spesse volte. All’opposto il Diguieres appariva gran moderatore di se medesimo, amico de’ vantaggi, paziente nell’aspettargli ma sollecito poi ancora quanto bastava in non perdergli. Il Birone rigido e superbo fuor di modo nel comandare, il Diguieres molto piú soave e piú trattabile nel farsi ubbidire; quegli troppo avido della gloria volendola col disprezzo degli altri tutta per se medesimo, lá dove questi volentieri la compartiva, e in tal modo anche per sua pienamente la riputava. Il fine che amendue fecero mostrò poi da qual parte fossero stati i vantaggi. Percioché il Birone precipitatosi indegnamente nell’accennata congiura fu dal re con publico supplicio fatto decapitare in Parigi, e all’incontro il Diguieres, dopo aver oltre a’ gradi suoi precedenti nella milizia conseguito quello di maresciallo di duca e pari di Francia, pervenne poi anche finalmente, dopo essersi fatto cattolico, all’onore militare supremo di contestabile, e morí pieno d’anni e molto piú ancora di riputazione. E veramente fu soggetto di grandissime qualitá, non meno abile ad ogni negozio di pace che ad ogni maneggio di guerra, amatore del giusto, e nel tempo medesimo d’esser egli macchiato d’eresia, si fece conoscere tale nel suo governo del Delfínato, e col favorire particolarmente quasi piú i cattolici che non faceva gli eretici in quelle parti. Nella corte di Parigi noi ci vedemmo e trattammo piú volte insieme, e quando io fatto cardinale tornavo in Italia, passando per Lione, e passandovi ancor’egli per andare a Parigi, fui visitato da lui con termini di grande onore e rispetto; e con quell’occasione egli scrisse una lettera al nuovo pontefice Gregorio decimoquinto conosciuto da lui in Piemonte, rallegrandosi della sua elezione al pontificato e dando segni manifesti di volere in breve convertirsi alla fede cattolica. Né potrei dire quanto il pontefice gradisse un tale officio e godesse poi di vederne succedere l’efifetto, e che la conversione del maresciallo, oltre al vantaggio che ne riceveva spiritualmente la Chiesa in Francia, fosse tornata insieme temporalmente in quel regno col primo grado militare onde il re volle onorar la persona di lui in tal occasione.
Ora, tornando alla mossa d’armi del re, fu da lui ordinata in questa maniera. Con due repentine sorprese di notte, egli procurò d’impadronirsi ad un tempo medesimo della terra di Borgo nella Bressa e di quella di Momigliano nella Savoia. Alla prima destinò il Birone, ed alla seconda il Diguieres. Dunque, sul mezzo d’agosto, ciascuno di loro con tre mila fanti e qualche numero di cavalli, nell’ore piú tacite della notte assaltò l’una e l’altra delle nominate due piazze, e l’esecuzione seguí tanto felicemente che l’assalir le porte l’entrar nelle terre e lo discacciarne i defensori fu con somma celeritá effettuato. Incontrossi dal Birone qualche maggior resistenza, e perciò quella sorpresa riuscí alquanto piú sanguinosa. Restavano però le fortezze da guadagnarsi. Quella di Momigliano per la qualitá del sito elevato era la piú importante, e da espugnarsi la piú difficile, e l’altra di Borgo era pur anche considerabile, ma bastando per allora al re d’avere occupato le terre fece crescere subito il numero della gente per l’una e per l’altra parte, e comandò al Birone e al Diguieres che per vie ordinarie tirassero innanzi l’assedio contro le fortezze.
Dato questo principio alla mossa dell’armi, il re volle accompagnarla nel medesimo tempo con la giustificazione delle scritture. Publicò dunque egli un gran manifesto, nel quale rappresentava la necessitá evidente d’aver prese l’armi contro il duca di Savoia per non aver il duca voluto eseguire l’accordo, che frescamente in Parigi si era con tanta solennitá stabilito fra loro. Prometteva ogni piacevolezza di trattamento a quelle terre e luoghi del duca, che senza fare opposizione alle sue armi volessero venire alla sua obbedienza, e all’incontro minacciava il rigore proporzionato dove egli trovasse ripugnanza e contrasto.
Quindi il re da Lione si trasferí a Granoble, che è la prima cittá del Delfinato e la piú vicina a Ciambery, che è la prima della Savoia. Erasi di giá il re molto ingrossato di forze, e da tutte le parti del regno la nobiltá naturalmente inclinata all’armi concorreva a trovarlo. Con queste forze egli strinse la terra di Ciambery, la quale per essere debole in se medesima e poco proveduta anco di presidio gli si rese in tre giorni, e poco dopo gli venne in mano il castello parimente poco fortificato e mal proveduto ancor esso. Restavano nella Savoia due passi forti alle due principali sue valli della Tarantasia e della Moriana; e bisognava occupar l’uno e l’altro, per impedire al duca il poter condurre la sua gente di guerra in Savoia. Il passo della Tarantasia era custodito da un forte chiamato Conflans, e quello della Moriana da un altro col nome della Ciarboniera. Voltosi prima il re all’acquisto di Conflans, e preparatevi l’artigliarie, con poca resistenza fu preso il forte: mostrando il governatore una gran viltá, perché egli avrebbe potuto molto piú difendersi. Guadagnato Conflans, il re non diede tempo di maggior speranza al governatore della Ciarboniera: onde assaltò subito quel forte ma gli bisognò starvi sotto ben quindeci giorni, per qualche piú virile resistenza di questo governatore in comparazione di quell’altro. Tale era stata la mossa d’armi, tali i progressi rapidamente fatti dal re di Francia nella guerra da lui fatta contra il duca di Savoia con sí vivo ardore principiata.
In tanto erano gionte a Roma le nuove di questo successo, e benché il papa l’avesse di giá preveduto nondimeno egli restò sommamente afflitto. Parevali che fosse inevitabile ormai questa guerra, e che la cristianitá piú miserabilmente che mai ne dovesse restar consumata, e che tante sue fatiche per la conservazione della pace si potessero di giá reputar come intieramente perdute. Ma giudicando egli dall’altra parte che a misura de’ nuovi pericoli fosse necessario che da lui si applicassero a questo rinascente male tanto piú vigorosi di nuovo i rimedi, perciò fra se medesimo andò pensando che non potendo egli trasferirsi a curarlo in persona, bisognasse almeno per tale effetto adoperare qualche altro piú efficace e piú valido ministerio che non era stato quello de’ suoi nunzi ordinari e del patriarca, nunzio straordinario: il che consisteva nell’inviare un legato, il quale con piú alto decoro potesse rappresentare la pontifical sua persona, e con maggior frutto far valere i suoi pastorali e paterni offici.
Caduto il papa in questi pensieri, vi fu ben tosto sempre piú confermato. Non s’era creduto mai in Spagna che il re di Francia dovesse né cosí presto né con tanta risoluzione venire all’armi. L’opinione di quella corte era stata ch’egli volesse minacciare piú tosto che moverle, e che facendo la guerra solamente con le minaccie dovesse in tanto restar vivo il negozio, per via del quale potesse tuttavia il papa interporsi e procurare che tra il re di Francia e il duca di Savoia si venisse a qualche altra miglior forma d’aggiustamento. A misura dunque di parer nuovo spiacque altrettanto in Spagna l’accennato successo, poiché in effetto bisognava che le necessitá del duca di Savoia si tirassero dietro quelle del re di Spagna, al quale dall’altra parte non poteva in modo alcuno star bene per le ragioni toccate di tornare a nuovo rompimento col re di Francia. Mostravasi perciò vivo dispiacere in Ispagna d’essersi dato animo al duca, e conoscevasi in quella corte quanto meglio avrebbe fatto il re a seguitare li prudenti consigli del papa, ch’erano di levare e non di accrescere gl’incitamenti nel duca, portato da se medesimo pur troppo alle novitá. E di ciò si viddero allora ben chiari i segni, perché non solamente egli non si mostrò turbato né in parte alcuna abbattuto per avergli il re di Francia mossa la guerra contro, ma piú tosto pieno di baldanza e con ogni piú viva risoluzione d’opporvisi, facendo assai chiaramente conoscere quanto egli godesse di vedere la sua causa fatta causa del re di Spagna, e che invece di secondar egli li sensi del re dovesse ora il re seguir piú tosto le voglie sue. Ma non poche volte si vede quanto sia piú facile a’ prencipi impegnarsi che l’uscir poi dell’impegnamento. Non si poteva dunque piú in Spagna levare al duca quell’animo, che prima largamente se gli era dato, in modo che subito s’inviarono molti ordini al contestabile di Castiglia governatore di Milano, accioché radunasse buon numero di soldatesca per soccorrere il duca di Savoia nel modo che piú convenisse. Aveva di giá il re di Spagna eletto al governo di Milano il conte di Fuentes, partito pochi anni prima con gran riputazione da quello di Fiandra, a cui perciò fu comandato dal re che quanto prima venisse in Italia e facesse tutti quelli preparamenti che fossero necessari per sostenere il duca di Savoia contro l’armi del re di Francia. Tali erano dall’altra parte di Spagna le risoluzioni piú strepitose, ma fra tanto in Roma si seguivano in nome del re le piú quiete.
Con queste dunque ricorse egli di nuovo efficacemente agli offici del papa, ricercandolo ad interporsi con ogni premura maggiore, e procurando, per onestare le sue cosí vive instanze, di far conoscere al medesimo papa quanto per proprio interesse alla Santitá sua complisse il procurar la conservazione della pace publica e sopra tutto che non si alterasse la quiete particolare d’Italia. Per invogliare il papa a fare questi offici con maggior autoritá, e per conseguenza con maggior frutto, cominciò apertamente il duca di Sessa a proporre che giá questo era divenuto negozio di legazione, e che sí come non molto prima con un tal mezzo il papa aveva sanate le piaghe della cristianitá nell’accordo stabilito in Vervin, cosí ora egli doveva nell’istessa maniera fare ogni nuovo sforzo per non lasciarla ferir nuovamente da queste armi che di giá si movevano, e che per necessitá si tirarebbero dietro altri movimenti piú gravi. A tali instanze fece aggiungere il re querele altissime contro il re di Francia, e le accrebbe con ogni veemenza maggiore il duca di Savoia similmente dalla sua parte. Onde il papa librati bene tutti i consegli e confermatosi anch’egli in questo al quale di giá inclinava, come fu detto poco innanzi, per se medesimo, risolvè di far elezione d’un legato il quale in suo nome, con l’autoritá necessaria, dovesse procurare per tutte le vie possibili di mantenere stabile e ferma la pace frescamente conclusa in Vervin, ed a questo fine smorzar quanto prima queste rimanenti fiamme di turbolenze, onde la cristianitá veniva di nuovo con tanto pericolo minacciata. Volle nondimeno egli prima scuoprire il senso di tutto il sacro collegio de’ cardinali intorno a sí importante materia; e perché potessero manifestarlo con maggior libertá, volle udir a parte ciascuno di loro in camera. L’opinioni communemente di tutti furono che la gravitá del negozio richiedeva una legazione espressa, e che quanto prima fosse necessario di effettuarla.
Risoluta la legazione, restava che si eleggesse il legato; sopra il qual punto s’incontravano non picciole difficoltá, poiché se bene il sacro collegio era fornito di molti soggetti per bontá prudenza e virtú molto riguardevoli, con tutto ciò non era facile il trovare in essi la precisa qualitá della confidenza ch’era cosí necessaria appresso quei prencipi a’ quali doveva essere indrizzata la legazione. Perciò si rivoltarono gli occhi di Roma principalmente sopra i due cardinali nepoti, Aldobrandino e San Giorgio. Appresso il papa era Aldobrandino, come di giá sopra mostrai, nel primo grado di sangue e d’amore, e insieme di stima e d’autoritá, e verso di lui era cresciuto grandemente l’affetto del zio col maneggio ch’egli aveva avuto nella devoluzione di Ferrara sí ben guidato. Giudicavasi nondimeno capace ancora San Giorgio di questa legazione e d’ogni altro simile impiego, ma ben tosto si restrinsero le principali instanze del duca di Sessa e de’ cardinali spagnuoli sulla persona d’Aldobrandino. Da una parte il papa inclinava a dar questa nuova occasione di gloria a questo suo primo nipote, e dall’altra temeva dover riuscirne dubbioso l’avvenimento, e mal volentieri veniva a privarsi del suo ministerio, che piú d’ogni altro lo sollevava. Fra queste medesime contrarietá di sensi, rimaneva l’istesso Aldobrandino pur anche molto sospeso nell’animo; invitavalo ardentemente l’occasione di un tanto impiego, ed all’incontro non averebbe voluto abbandonare il luogo che godeva appresso del zio, e porger commoditá d’avvantaggiarsi appresso di lui all’emulo suo San Giorgio, benché non lo pungesse anche poi quasi meno l’emulazione in poter dubitare, che ricusando egli questo nuovo accrescimento d’onore, non venisse a cadere in San Giorgio un vantaggio tale.
Aggiungevasi a quella parte di renitenza che in lui si vedeva quella che Giovan Francesco suo cognato mostrava in vederlo partir di Roma, stimandosi e da lui e dalla moglie sua Olimpia, sorella d’Aldobrandino, che l’allontanarsi egli dal papa tornasse in notabile pregiudizio delle persone loro e di quelle de’ loro figliuoli. Ma finalmente si unirono insieme l’inclinazione del zio e del nipote a seguitare quelle che in generale si mostravano dalla corte, e che piú manifestamente ne’ ministri di Spagna e Savoia apparivano nel desiderare che Aldobrandino fosse eletto a questo maneggio; al che diedero non picciola forza l’instanze poco prima fatte dal re di Francia medesimo al papa, come fu narrato di sopra, accioché volesse mandare l’istesso Aldobrandino in qualitá di legato a benedire in Fiorenza il suo reale sponsalizio con la prencipessa Maria de’ Medici. Onde questo ministerio tanto piú serví d’occasione per fare che unitamente ancora seguisse l’altro. Publicata che fu in concistoro dal papa, nel modo che pur similmente allora mostrai, e da Aldobrandino seguita la sua prima legazione in Fiorenza, egli partí da quella cittá per andare in Francia, dove era indrizzata principalmente questa seconda.
Qui dunque ritornando io al primo filo del mio discorso, riferirò qua innanzi tutto quello che da lui fu negoziato e poi stabilito a favor della pace publica, e procurerò che ciò segua con la medesima diligenza e brevitá insieme, che io mi son sforzato di usare in tutte le materie passate.