Melmoth o l'uomo errante/Volume II/Capitolo XI
Questo testo è completo. |
◄ | Volume II - Capitolo X | Volume II - Capitolo XII | ► |
CAPITOLO XI.
Il giorno seguente la giovanetta che aveva eccitato tanto interesse doveva abbandonare Madrid, per andare a passare alcune settimane in un castello poco lontano dalla capitale e che apparteneva alla sua famiglia. Cotesta famiglia si componeva della madre di lei, donna Chiara d’Aliaga, moglie di un ricco negoziante, che aspettavasi di ritorno dalle Indie, di un figlio don Fernando d’Aliaga e di numero portentoso di domestici; perchè cotesti ricchi cittadini, superbi della loro opulenza e della nobiltà de’ loro antenati, avevano la smania di viaggiare con tanta gravità e cerimonia, quanto il primo grande del regno. Perciò la vecchia e pesante carrozza avanzava lentamente; il cocchiere dormiva, ed i sei cavalli neri non cambiavano mai il loro passo solenne e misurato. Don Fernando di Aliaga ed i domestici erano a cavallo a fianco della carrozza, dentro la quale stavano sedute donna Chiara e la sua figlia.
Donna Chiara era una donna di un umor grave e di un carattere freddo; dessa aveva tutta la gravità di una Spagnuola e l’austerità di una pinzocchera. Don Fernando offriva un complesso di passioni vive e di costumi austeri, cosa molto comune fra gli Spagnuoli. Il suo personale orgoglio trovavasi urtato, quando si richiamava alla mente la degradazione in cui era caduta la sua famiglia dedicandosi al commercio; riguardava la bellezza straordinaria di sua sorella come il mezzo il più probabile di ricuperare il suo rango per mezzo di un matrimonio con qualche individuo di una illustre famiglia; egli la contemplava con una parzialità mista di egoismo, poco onorevole però e per chi l’ispira e per chi la risente.
In compagnia di simili persone la figlia della viva e sensibile Immalia, la figlia della natura, era condannata a vedere appassire il fiore di una esistenza trapiantata in un clima tanto poco per lei confacente. Il suo singolar destino pareva, che non l’avesse allontanata da un deserto fisico, se non per trasportarla in un deserto morale. Cotesta sua ultima posizione era forse più triste ancora della prima. Egli è certo che il più lugubre punto di vista non offre nulla di più angustiante, quanto l’aspetto delle persone sulla fisonomia delle quali indarno cerchiamo di scoprire una espressione, che corrisponda a ciò che noi sentiamo. La sterilità della natura può considerarsi abbondanza comparativamente a quella di un cuore, che comunica la sua desolazione a tutto ciò, che gli sta d’intorno.
Era già qualche tempo, che essi si trovavano in viaggio quando donna Chiara, la quale non proferiva mai accento se non dopo una lunga e muta prefazione, forse per aggiunger peso a quanto diceva, rivolta alla figlia così si fece a dirle con la gravità di un oracolo. Mia figlia, mi hanno detto che voi ieri sera ad una pubblica passeggiata foste sorpresa da un incomodo e vi sentiste male: avreste forse riscontrato qualche oggetto che si cagionasse della sorpresa o dello spavento! No, signora. — Quale dunque può essere stata la cagione della emozione che deste a divedere..... secondo quello che mi è stato detto... perchè io non ne ho alcuna cognizione.... alla vista di una persona di una straordinaria apparenza? — Oh! non posso, non oso dirvelo, rispose Immalia, coprendosi col velo per nascondere il volto già fatto tutto rubicondo. Quivi ad un tratto l’irreprimibile ingenuità della sua primiera natura riacquistando tutte le forze, si lasciò cader giù dal cuscino, dove era seduta ed abbracciando le ginocchia di donna Chiara, esclamò: O madre mia, vi confesserò tutto, — No, le rispose donna Chiara respingendola con tutta la freddezza del orgoglio offeso, no; questo non è necessario. Io non mi curo di una confidenza, che prima mi è stata negata: a me non pacciono neppure coteste emozioni violente; esse sono indegne di una signorina; nulla è più semplice de’ doveri, che riguardano la vostra giovine età: questi consistono in una perfetta obbedienza, in una sommissione profonda ed in un silenzio non interrotto, a meno che non vi sia indirizzata la parola o da me, o dal vostro fratello don Fernando, o dal mio e vostro direttore spirituale, il padre Giuseppe. Certo che non ci sono doveri più agevoli ad eseguire. Alzatevi dunque e cessate di piangere; se la vostra coscienza è turbata confidatevi col padre Giuseppe che egli potrà tranquillizzarla.
Dopo questo discorso donna Chiara che non aveva mai dette tante parole tutte in un fiato, si accomodò meglio sul suo cuscino per riposare più comodamente, e cominciò a far passare fra le sue dita i grani del suo rosario con la più grande divozione. Quindi si addormentò profondamente, e non si destò se non quando fu arrivata al luogo del suo destino.
Il mezzo-giorno aveva suonato dì poco, il desinare imbandito in una sala terrena prossima al giardino non attendeva che l’arrivo del padre Giuseppe, che non tardò a presentarsi sopra una mula maestrosa. A prima vista i lineamenti del suo volto portavano l’impronta di una meditazione profonda, ma esaminandolo più da vicino, sembravano piuttosto il resultato della sua fisica conformazione, che di un esercizio intellettuale; ciò non ostante il padre Giuseppe era un uomo onesto e di pure intenzioni.
Terminato il desinare, donna Isidora (questo era il vero nome di Immalia) fece una riverenza profonda alla sua genitrice ed all’ecclesiastico, e si ritirò secondo il suo costume nel proprio appartamento.
E l’ora di far la meridiana, osservò il padre Giuseppe. No, reverendo padre, disse donna Chiara con un aspetto tristo; la sua cameriera mi assicura che ella non si ritira per dormire. Ella, ahimè! è troppo bene avvezza all’ardor del clima in cui fu smarrita nella sua infanzia per soffrire il caldo, come noi! No, ella non si ritira per andare a dormire, nè per fare orazione, secondo il lodevol costume delle dame spagnuole. Temo che non sia per.... — Perchè?.. la interruppe atterrito il padre Giuseppe. — Per riflettere, per pensare; conciossiachè io ho, più d’una volta dacchè è ritornata, riscontrate le tracce delle lagrime sugli occhi di lei. Temo, padre mio, che a lei non dispiaccia e ripensi a quel paese di idolatri, a quel dominio di Satana, dove ha passata la sua giovinezza. Il buon ecclesiastico dimandò qualche schiarimento sulla maniera di pensare di donna Isidora, su’ discorsi, i divertimenti e le occupazioni della medesima. Donna Chiara gli somministrò tutti quelli, ch’essa aveva potuto raccogliere, frammischiando le parole con delle esclamazioni reiterate sul timore che ispiravale la salute della figlia. Egli cercò di tranquillizzarla, promise di parlare in proposito con la signorina, rassicurò donna Chiara promettendole di prendersene tutto l’impegno. Terminata la conversazione su questo soggetto il padre Giuseppe aggiunse: ed intanto quando il vostro figlio don Fernando, il quale certamente non si abbandona alla riflessione, come la sua sorella, avrà terminato di riposare, vogliate farlo avvertire, che son pronto a continuare la partita a scacchi, che incominciammo fino da quattro mesi fa. Io aveva spinta la mia pedina fino alla penultima casella, o non mi restava che una mossa per arrivare a dama, E che? la partita ha durato tanto tempo, gli disse donna Chiara. Tanto tempo! le rispose il padre Giuseppe, avrebbe potuto durare di più ancora: ma noi ci abbiamo impiegato tre ore di seguito un giorno per l’altro.
La serata fu passata in un profondo silenzio, l’ecclesiastico e don Fernando proseguivano la loro partita a scacchi; donna Chiara attendeva al suo ricamo e donna Isidora assisa vicino ad una finestra aperta contemplava lo splendor della luna, respirava il profumo del tuberoso, e stava aspettando ed osservando che si aprisse il gelsomino di notte. Questi oggetti le rammemoravano tutte le delizie, che un tempo la natura aveva sparse sulla sua esistenza. Il cupo azzurro del cielo e la brillante luce del notturno pianeta, che regnava da sovrano, avrebbero potuto porre a contrasto quella notte con lo splendore incomparabile di quelle de’ Tropici. Un sogno delizioso la riconduceva momentaneamente all’isola incantata, di cui ella era stata per tanto tempo la regina e la divinità. Una sola immagine mancava; una immagine la cui assenza convertiva ugualmente in deserto, ed il paradiso di quell’isola e le bellezze di un giardino spagnuolo illuminato dal più bel raggio della luna. Ella non poteva sperare di riscontrare cotesta immagine se non nel proprio cuore. Non era se non nella più profonda solitudine, che ella osava ripetere talvolta a sè medesima e il nome di lui e le ariette che egli le aveva insegnate a cantare ne’ momenti, in cui il suo amore assumeva una tinta di dolcezza. Il contrasto fra la sua trascorsa e la presente vita era tale; tanto sentivasi vinta dalla violenza e dalla freddezza; le avevano sì di spesso ripetuto che tutto ciò che faceva, diceva, pensava era male, che ella incominciava a rinunziare alla testimonianza de’ suoi sensi ed a persuadersi, che le visite fattele dallo straniero non erano state se non visioni, che avevano ad un tempo sparso il turbamento e la gioia sopra di una esistenza onninamente illusoria.
Rimango sorpreso, sorella mia, le disse don Fernando, che era entrato di molto cattivo umore pel giro sfavorevole a se, che aveva presa la partita, rimango sorpreso di non vedervi giammai occupata, come tante giovani vostre pari, o a lavorar coll’ago o a fare qualche altro femminile lavoro... O a leggere qualche libro di pietà, soggiunse donna Chiara, alzando per un momento gli occhi dal telaio, ove ricamava, e lasciandoveli tosto ricadere. Ci sarebbe la leggenda di quei santi polacchi, nati come voi in una terra di tenebre... si chiamavano... reverendo padre, ne ho dimenticato il nome. Scacco al re, disse il padre Giuseppe non ponendo mente alla interrogazione di donna Chiara. Voi non pensate che a coltivar qualche fiore, a suonare il liuto o a guardar la luna continuava don Fernando incollerito pel suo avversario, e molto più bel silenzio di donna Isidora.
Ella fa grandi elemosine e molte opere caritatevoli, soggiunse il buon ecclesiastico; ultimamente fui chiamato per recarmi in una miserabile capanna non lontana dal vostro castello, donna Chiara, per visitare un infelice, che moriva sulla paglia. Io non faceva, che adempiere il mio dovere; ma la vostra figlia vi era arrivata prima di me. Ella vi si era recata senza che vi fosse stata chiamata, e la sentii proferire le consolazioni le più tenere, le più eloquenti.. che, per parentesi, ella aveva tratte da un sermone manoscritto, che un povero prete, che non voglio nominare, le aveva imprestato, onde lo leggesse.
Isidora arrossì a questo piccolo tratto di vanità intanto che l’animo gretto di don Fernando, e la fredda austerità della genitrice la facevano alternativamente sorridere e piangere.
Sì, continuava il padre Giuseppe, io sentii tutto questo, siccome vi ho detto, all’entrare nella capanna, e vi assicuro, che mi fermai con delizia e compiacenza sulla soglia. Le sue prime parole furono... Scacco matto! Nel suo trionfo il buon padre aveva obbliato l’argomento del discorso, che stava facendo, accennando col dito lo stato disperato del giuoco del suo avversario. Scacco matto! ripetè donna Chiara, senza alzar gli occhi dal suo lavoro.
Prima che il padre Giuseppe avesse potuto spiegare a donna Chiara, che cotesta esclamazione non aveva alcun rapporto con l’azione caritatevole della sua figlia, questa gettò un grido, che sparse l’allarme in tutta la sala; tutti accorsero in aiuto di lei, e di soprappiù sopraggiunsero quattro cameriere e due paggi. Donna Isidora non aveva già perduta la conoscenza; accorgevasi benissimo di essere in mezzo a tutti loro, pallida come la morte; senza poter parlare girava lo sguardo sopra il gruppo che la circondava, e non distingueva verun individuo. Ciò non ostante ella conservava quella presenza di spirito (che non abbondona giammai una donna quando si tratta di custodire il suo segreto) e non accennava nè col dito nè coll’occhio la finestra, alla quale erasi presentato l’oggetto del suo improvviso terrore. Pressata da un numero infinito d’interrogazioni, dessa sembrava incapace a rispondere, e ricusando ogni assistenza si appoggiò al parapetto per sorreggersi.
Donna Chiara si avanzỏ con un passo misurato per presentare alla figlia una boccettina di essenza, che portava sempre presso di sè, quando una delle cameriere, che conosceva il gusto della sua giovane padrona, propose di farla rinvenire per mezzo dell’odore de’ fiori. Si affrettò dunque ad andare a cogliere delle rose e le presentò a donna Isidora. La vista e la fragranza di quei fiori richiamò mille rimembranze del tempo trascorso alla infelice, onde ella fece un cenno con la mano perchè a sè le togliessero d’avanti, ed esclamò: ah! qui non vi ha nessuna rosa simile a quelle, di cui era adorna quando egli mi vide per la prima volta! Egli! chi, mia figlia, disse donna Chiara ricolma di spavento. Spiegatevi, mia sorella, lo esigo, disse l’impetuoso don Fernando; di chi intendete parlare? Essa è in delirio, lo interuppe il padre Giuseppe, cui la sua abituale penetrazione aveva fatto conoscere, che in quell’avventura vi era qualche mistero. Essa è in delirio, e non è cosa conveniente di circondarla in tal guisa, e di farle tanto pressanti interrogazioni. Madamigella, andate a riposare ed i santi veglino sul vostro sonno.
Donna Isidora salutò l’ecclesiastico in segno di riconoscenza, e rientrò nel suo appartamento. Il padre Giuseppe rimase per più di un’ora con donna Chiara e don Fernando per combattere i timori dell’una e la pronta suscettibilità dell’altro. Nel corso della sua conversazione si fece uscir qualche parola per sapere se donna Chiara fosse disposta a consacrare sua figlia al servizio di Dio. La pietosa madre trovò maraviglioso tal progetto; ma non fu così di don Fernando, il quale, pe’ motivi da noi di sopra indicati, lo combatteva validamente. Non avendo potuto riuscire a persuadere nè donna Chiara nè il di lei confessore, esigette da quest’ultimo, che non se ne parlasse più fino al ritorno del padre, ciò che gli fu accordato senza pena. Donna Chiara passò la maggior parte della notte nella preghiera, e non andò a coricarsi che quando il venticello fresco della mattina le permise di prendere un poco di riposo. Isidora non dormì neppur essa: come la sua genitrice, ella ancora si era prostrata innanzi la sacra immagine della Vergine, ma con pensieri ben differenti. La sua esistenza che consisteva in un contrasto perpetuo tra gli oggetti presenti e le rimembranze del passato, la differenza tra quello che vedeva e quello che sentiva nel suo interno, tra la vita piena di sensazioni, che le offriva la sua memoria, e quella troppo monotona che viveva presentemente; tutto ciò riunito insieme sorpassava le forze di un cuore traboccante di sensibilità e che da nessuno era diretto, e di un intelletto renduto stupido da delle vicissitudini, alle quali neppure uno spirito più forte del suo avrebbe potuto resistere.
Dopo aver ella recitato le consuete preghiere, che indirizzava giornalmente alla madre del Salvadore, sentì un pressante bisogno di sfogare il suo cuore avanti di lei e cominciò a raccomandarsele con delle parole che le venivan dettate da’ suoi proprii sentimenti; creatura amabile e celeste esclamò inginocchiandosi avanti alla sacra immagine, voi che sola non avete cessato di sorridermi dopo il mio arrivo in questa terra cristiana; voi la cui fisonomia ho creduto talvolta che rappresentasse quella degli enti che dimoravano nelle stelle del mio cielo indiano, ascoltatemi nè vi vogliate mostrar meco corrucciata. Fate che io perda ogni sentimento della mia esistenza presente o almeno ogni rimembranza del passato. Perchè cotesti pensieri mi si riaffacciano e mi perseguitano? Dessi formavano un tempo la mia felicità ed ora mi trafiggono il cuore. Perchè conservano essi il loro potere, giacchè la loro natura è cambiata? Io non posso più tornare ad essere quella che fui; fate dunque ch’io lo possa dimenticare; fate che io possa vedere, sentire e pensare siccome quelli che mi circondano. Sento che è molto più agevole discendere fino a loro, che innalzarli fino a me. No, madre di Dio! donna divina e misteriosa! eglino non saranno più testimoni delle emozioni dell’ardente mio cuore. Esso si consumerà nella propria sua fiamma, prima che la loro fredda compassione contribuisca ad estinguerla! O madre divina! un cuore ardente non è forse la più degna offerta, che uno possa farvi? Noi possiamo avere della religione, ma non possiamo avere della religione senza amare. E perchè fa d’uopo che io pensi e senza, posciachè la vita non esige, se non dei doveri che non sono ispirati da verun sentimento ed una apatia non turbata da riflessioni di alcuna sorta? Sì, sì, aiutatemi a bandire dalla mia mente ogni altra immagine fuori della sua. Che il mio cuore sia come un solitario appartamento rischiarato da questo lume soltanto, che amore ha acceso innanzi all’oggetto della sua adorazione, e che arda esso solo eternamente.
Donna Isidora il cui entusiasmo era giunto al più alto grado, così pregava inginocchiata avanti l’immagine della Vergine, e quando si rialzò, il silenzio che regnava nella sua camera ed il placido sorriso, che brillava sul volto di quella figura celeste pareva, che la rimproverassero l’eccesso della sensibilità, cui si era abbandonata. Tali erano le sensazioni d’Isidora la quale si appoggiò alla sua finestra per cercare di respirare un poco d’aria che l’atmosfera ardente sembrava negarle. Pensava ella che in una notte consimile nella sua isola indiana si sarebbe tuffata nel ruscello ombreggiato dal suo favorito tamarindo; forse si sarebbe arrischiata nelle onde placide ed argentine dell’Oceano, ma adesso ella aveva incominciata la cerimonia del bagno, che cerimonia poteva meritamente chiamarsi ciò che prima non era per lei, se non un piacere incantatore. Il sapone, i profumi, le spugne, e soprattutto l’assistenza delle donne che la servivano, avevano fatto nascere in lei della ripugnanza per ciò, che un tempo le era paruto sì delizioso. Nè il bagno nè la preghiera avevano calmati gli agitati suoi sensi; cercava dell’aria appoggiandosi alla finestra, ma la cercava indarno. La luna brillava sull’alto de’ cieli con tanto splendore, con quanto il sole nelle boreali regioni. Paragonando essa la bellezza del cielo con la trista uniformità dei parterre e de’ boschetti artificiali, che si distendevano a’ suoi piedi, Isidora non potè rattenere le lagrime; queste erano divenute il suo linguaggio quantunque volte trovavasi sola, ma non osava servirsene in presenza della sua famiglia. Ad un tratto ella vide uno de’ viali che rischiarava la luna, ombreggiato dall’avvicinarsi di una figura umana, che si avanzò e pronunziò il di lei nome, quel nome, che ella riconosceva e tanto amava; il nome d’Immalia.
Ah! esclamò ella, sporgendo il capo fuori della finestra, vi ha dunque ancora qualcuno che mi conosce sotto questo nome? — È il solo, sotto il quale io posso indirizzarvi la parola, rispose una voce, che era quella dello straniero. Io non ho ancora l’onore di sapere quello, con cui vi chiamano i vostri amici cristiani. — Essi mi chiamano Isidora; voi però seguite a chiamarmi Immalia. Ma in un subito tremando per la sicurezza dello straniero, ed il suo timore sorpassando la sua gioia pura ed innocente, aggiunse: Ma in qual modo voi siete qui, in questo luogo, ove non entra mai persona, fuori degli abitanti di questa casa? Come avete fatto per passare di sopra alle mura del giardino? Come siete venuto dalle Indie? Di grazia, ritiratevi; la vostra sicurezza ne dipende. Io sono attorniata da persone, delle quali non posso fidarmi, e che mi è impossibile di amare: mia madre è severa, mio fratello violento. Oh! come siete entrato in questo giardino? Come avete potuto affrontare tanti rischii per vedere una persona, che da tanto tempo obbliaste?
Dessa pronunziò queste ultime parole a bassa voce. Lo straniero rispose con un’aria beffarda e piena di malignità: Bella neofita, graziosa cristiana, sappiate che i chiavistelli, le sbarre, le muraglie non possono farmi opposizione, come non me la facevano le rupi nè le onde che venivano a frangere nella vostra isola Indiana. Io posso penetrar dove voglio, e ritirarmi a mio piacere senza dimandare la permissione ai mastini del vostro fratello od a’ suoi lacci; mi rido ugualmente dell’avan-guardia delle cameriere della vostra genitrice armate de’ loro occhiali e di rosarii i cui grani sono tanto grossi, quanto.... Zitto, zitto! Non proferite tanto empie parole; io deggio rispettare questi sacri oggetti... Ma siete voi veramente? Siete voi, che ho veduto ieri sera, o era forse una di quelle visioni, che spesso mi rappresentano i miei sogni, quando io immagino di essere tuttora all’isola fortunata, ove per la prima volta.... Oh! perchè vi ho io conosciuto?... — Amabile, cristiana, avvezzatevi al vostro terribile destino. Sono io, che vedeste ieri sera. Due volte ho visitato il luogo, dove voi brillate come la più bella di tutta Madrid. Sono io che vedeste; io fissai il vostro occhio, trapassai il vostro seno leggiero, come avrebbe potuto far un baleno; voi cadeste scolorata; e senza conoscimento sotto l’ardente mio sguardo. Sì, sono io, che vedeste, io che già turbai la vostra angelica esistenza in quel paradiso insolare, io che vi perseguito anche in seno alla esistenza fattizia, che avete abbraccia-
— Che io ho abbracciata!... Oh! no: essi mi presero a forza e qui mi trascinarono; mi hanno detto che era per la mia presente e futura felicità. — Ne sono persuaso; e non siete voi già felice? Il vostro corpo delicato più non è esposto alle intemperie degli elementi; il vostro gusto sì raffinato è lusingato da mille invenzioni novelle; voi dormite su delle soffici materasse, la vostra camera è ricca di tappezzerie. Sia pure sfavillante od oscura la luna, le candele non ardono meno nel vostro appartamento. Sia il cielo sereno o ricoperto di nubi; sia la terra smaltata di fiori o desolata dalla tempesta, l’arte del pittore vi ha fornito un nuovo cielo, una terra novella; voi potete riscaldarvi al calore di un sole, che non tramonta mai, intanto che il cielo è tenebroso agli occhi degli altri; ovvero errare in mezzo a de’ paesaggi e dei fiori intanto che la metà de’ vostri simili periscono oppressi dalle nevi e dagli oragani. Avete infine delle creature ragionevoli, con le quali poter favellar in luogo delle vostre lossie, delle vostre scimmie, de’ vostri pappagalli. — La conversazione, che io ho trovata qui non mi è sembrata molto più intelligente o più istruttiva della loro.
Lo straniero senza far mostra di aver intese le parole di lei proseguì dicendo: Voi siete circondata da tutto ciò, che può lusingare i sensi, inebriare l’immaginazione o dilettare il cuore. Tutti codesti piaceri deggiono farvi dimenticare la voluttuosa, ma incolta libertà della vostra antica esistenza. — Gli augelli, che si trovano dentro la gabbie della mia genitrice, disse Isidora, non cessano di beccare i dorati fili, che li rinserrano essi gettano a terra i semi e la limpida acqua, che loro vien somministrata. Non vorrebbero posarsi sul tronco di un’annosa quercia e cibarsi de’ più grossolani alimenti piuttosto che logorarsi il becco contro la loro magnifica prigione? Non trovate dunque codesta nuova esistenza in questo paese cristiano così deliziosa come un tempo immaginaste! Dovreste arrossire. Immalia, della vostra ingratitudine e del vostro capriccio. Vi rammentate voi, quando dalla vostra isola indiana travedeste da lungi il culto cristiano, che quell’aspetto vi fece rimanere estatica? — Me ne ricordo perfettamente, siccome quello, che è accaduto in quell’isola nel tempo che ci ho vissuto. Un tempo io viveva nell’avvenire, ora vivo nel passato. — Non vi trovate dunque molto felice in questo nuovo mondo d’intelligenza e di lusso? — Sì, qualche volta. — In quale occasione? — Alla fine di una triste e penosa giornata, quando i miei sogni mi riconducono verso l’isola incantata. Il sonno è per me come una barca condotta da rematori immaginarii, e che mi sospinge verso quelle sponde amene e fortunate. È allora che io esisto di nuovo in mezzo ai fiori ed ai profumi. Tutto vive e tutto ama intorno a me. Sotto le orme de’ miei piedi spuntano i fiori e le onde vengono a lambirle. — E ne’ vostri sogni, Immalia, non vedete mai altra immagine? — Non ho bisogno di dirvelo, gli rispose Isidora con quel misto singolare di fermezza e di ingenuità, che era il resultato del suo naturale carattere e delle circostanze straordinarie della primiera sua esistenza; non ho bisogno di dirvi, che voi siete meco tutte le volte che faccio cotesto immaginario tragitto. — Io? — Sì, voi. Voi vi trovate sempre nel canotto, che mi trasporta nella mia isola indiana. Voi mi guardate; ma l’espressione del vostro volto è sì cangiata, che io non ardisco rimirarvi nè dirigervi la parola. Noi traversiamo i mari in un istante. Voi sedete sempre al timone e non discendete mai del naviglio. Tosto che la mia isola mi si presenta allo sguardo voi disparite. Quando noi facciamo ritorno l’oscurità regna sull’Oceano, ed il nostro viaggio è tanto tenebroso e pronto, quanto la tempesta. Voi mi contemplate senza proferire un accento. Oh! sì! voi siete meco tutte le notti! — Ma, Immalia, codesti non sono che sogni e vane illusioni. E che? io! condurvi dal mare delle Spagne fino alle Indie! Queste non sono che visioni della vostra fantasia! — È dunque un sogno anco quello, che mi illude presentemente? Non parlo dunque a voi in questo momento? Illuminatemi, giacchè non mi pare meno stravagante cosa il vedervi qui in Ispagna, che di ritrovarmi nella mia isola. Ahimè! nella vita che io meno, al presente i miei sogni si sono convertiti in realità, e le realità non mi sembrano esser che sogni. Se voi siete realmente qui, come può esser che ci siate? Come avete fatto per venirmi a trovare sì di lontano? Quanti oceani avete dovuto traversare, quante isole vedere senza ritrovarne una, che sia simile a quella, in cui vi ho veduto per la prima volta! Ma siete veramente voi che io vedo? Io credeva di avervi veduto ieri sera; ma mi piace tuttora fidarmi più a’ miei sogni, che a’ sensi. Io immaginava che voi non visitaste mai altro luogo fuori di quell’isola delle illusioni; sareste mai realmente un ente dotato di vita, e che io posso sperare di vedere in questa terra di fredde realità? — Bella Immalia, o Isidora o qualunque altro nome vi abbiano dato i vostri adoratori indiani, o i vostri padrini cristiani, vi prego di ascoltarmi intanto che io vi disvelo qualche mistero.
Mentre Melmoth parlava così si gettò sopra un letto di giacinti e di tulipani, che spiegavano i loro brillanti colori ed esalavano deliziosi profumi sotto le finestre d’Isidora. Oh! voi distruggete i miei fiori, gridò ella rammemorandosi i momenti felici, in cui fiori erano i compagni della sua immaginazione e del suo cuore. — Vi prego di perdonarmi, disse Melmoth rotolandosi sopra i fiori infranti e lanciando ad Isidora una delle sue tetre occhiate terribili. Io sono inviato per calpestar tutti i fiori fisici e morali del mondo, senza far distinzione nè dei cuori o di altre inezie consimili. Ed intanto, donna Isidora, posciachè così conviene chiamarvi, questa sera io sono qui; dimani sarò... ove la vostra scelta vorrà collocarmi. Vi prevengo però sulle prime, che per me sarà uguale, o che mi mandiate al mare delle Indie ove i vostri sogni mi hanno già inviato sì di spesso, o che mi convenga spezzare i diacci del polo, o che finalmente mi sia necessario solcare i flutti di quell’oceano che un giorno, giorno terribile, in cui non risplenderà nè sole nè luna che non avrà nè principio nè fine, mi converrà solcare per sempre per non raccorne, che disperazione! — Zitto! tacete! non pronunziate tanto orribili parole! Siete voi in realtà, che io vidi nell’isola? Siete voi, che da quel momento avete fatto parte delle mie preghiere, delle mie speranze, del mio cuore? Siete voi quell’ente, sul quale fondai la mia speranza anco in quel momento in cui la vita stava per abbandonarmi? Nel mio viaggio per recarmi a questa terra cristiana, molto soffrii. Io era sì malata, che voi avreste avuta pietà di me. Oh! voi solo, il pensiero di voi, la vostra immagine potevano soltanto sostenermi! Io amava; e quando si ama, si vive. Priva di quella deliziosa esistenza, che mi parve un sogno, e che riempie tuttora i miei sogni, facendo del mio sonno una seconda esistenza, io pensava a voi, voi vedeva ne’ miei sogni, non amava che voi. — Amar me!... nessuno mi ha ancora testificato il suo amore se non con le lagrime. — E non ne ho io versate?... Prestate fede a queste; esse non sono le prime, che io abbia sparse e temo che non saranno le ultime. — In vero voi finireste coll’ispirarmi della debolezza, disse il viaggiatore con un riso sardonico. Sia: io lo voglio; e quando verrà il giorno troppo fortunato, bella Immalia, cioè bella Isidora, quel giorno in cui vi destereste in mezzo a degli amplessi, a de’ raggi di luce, a dell’amore ed a tutti i vani ornamenti con cui la follia ricopre la sventura prima della loro unione?
Egli accompagnò questo discorso con quel sorriso terribile e convulsivo, che congiunge l’espressione della frivolezza a quella della disperazione. La misera e timida Isidora gli rispose: Io non v’intendo, e se voi non volete che io rimanga priva della mia ragione, non vogliate rider più, o almeno non ridete in cotesta maniera. — Bisogna bene, che io rida, giacchè non saprei piangere, disse Melmoth fissando su di lei i suoi occhi adusti ed ardenti, che dal chiaror della luna erano renduti più visibili. È molto tempo che la sorgente delle mie lagrime si è in me disseccata, come quella d’ogni altra umana felicità. — Io saprò piangere per ambedue, gli rispose Isidora, ed intanto versava lagrime in abbondanza, e lagrime di rimembranza e di dolore: quando coteste due sorgenti di pianto si uniscono, proseguiva ella, Iddio solo e le infelici creature sanno, se le lagrime mi scorrono dagli occhi in abbondanza. Serbate coteste lagrime per la nostra ora nuziale, mia amabile fidanzata, disse fra se medesimo Melmoth, voi non ne avrete bastanti.
Isidora cedendo ad un movimento naturale al cuore delle femmine, con voce mal sicura gli disse: Se voi mi amate, non venite più in traccia di me in segreto; la mia genitrice, benchè di carattere severo, è buona; mio fratello è generoso, quantunque inchinevole all’ira... il mio genitore... io non l’ho giammai veduto; ma posciachè è mio padre, converrà che vi ami. Fate che io vi ritrovi alla loro presenza, ed il piacere che io provo nel rivedervi non sarà più mescolato col dolore e con la vergogna. Cercate la sanzione della chiesa, ed allora, forse... — Forse! la interruppe Melmoth; avete già dunque imparato ancor voi il forse europeo cotesto artifizio di sospendere il senso di una parola significativa, d’affettare della franchezza nel momento in cui uno cerca di nascondere i suoi sentimenti ne’ più segreti nascondigli del cuore, di ridurre altrui alla disperazione al momento che si vuole, che speri! — Oh no, no! io sono tutta verità. Io sono Immalia allorchè parlo a voi; quantunque per chiunque altro in questo paese, io sia Isidora. Quando incominciai ad amarvi io non aveva che un cuore da consultare; ora ve ne sono parecchi, ma fra tanti ne trovo ben pochi, che rassomiglino al mio. Ma se voi mi amate potreste a loro sottomettervi come ho fatto io; potreste amare il loro Dio, i loro focolari, le loro speranze, il loro paese. Anco congiunta con voi non saprei esser felice, se voi non adoraste la Croce, che la vostra mano fu la prima ad indicare alla mia vista errante, e quella religione, che contro voglia confessate esser la più bella e la più benefica della terra. — Io ho confessato ciò? riprese Melmoth; bisogna bene, che io lo abbia fatto contro mia volontà. Bella Immalia, aggiunse quindi con un riso satirico, voi mi avete convertito alla vostra nuova religione, alla vostra bellezza, alla vostra nascita spagnuola, ai vostri nomi sonori, a tutto ciò che potete desiderare... Mi presenterò senza dilazione avanti la pietosa vostra madre, avanti vostro fratello collerico, ed avanti a tutti i vostri congiunti, per quanto irascibili, superbi o ridicoli esser possano. Parlerò loro, li lusingherò, e quando essi mi invieranno al vostro legale dai larghi mustacchi, dal mantello di velluto nero, vi assegnerò per dote il più vasto territorio, che giammai sposa abbia ricevuto dallo sposo suo. — Oh! possa esser desso situato in quella terra armoniosa e brillante, in cui vi presentaste al mio sguardo la prima volta! Un solo angolo sufficiente a collocare i miei piedi in mezzo ai fiori mi sarebbe più grato, che tutta la terra coltivata d’Europa. — No, sarà in un paese, che al vostro legale non può essere ignoto, ed al quale la vostra pietosa madre e l’orgoglioso vostro fratello riconosceranno essi medesimi i miei diritti, quando li avrò loro dichiarati. Può darsi, che altri vi posseggano de’ diritti individuati con me; eppure, cosa strana a comprendere! essi non mi disputeranno mai il mio titolo esclusivo al suo possesso. — Io non comprendo nulla di tuttociò; ma mi accorgo che manco alla decenza propria di una donna spagnuola e cristiana trattenendomi a favellare più a lungo con voi. Se voi pensate, come pensavate già un tempo, se sentite come io deggio sentire per sempre, tutta codesta discussione, che m’imbarazza e spaventa, si rende inutile; che ho da fare del territorio, del quale mi parlate? se voi ne siete il possessore, ciò solo può rendermelo di qualche pregio. — Che avete da farne! Oh! voi non sapete ancora tutto ciò, che potete avere a fare con cotesto territorio e con me? Per mezzo mio ve ne sarà assicurato l’eterno possesso; i miei eredi ne godranno per tutti i secoli de’ secoli, purchè essi lo tengano al medesimo titolo di me. Ascoltatemi, mia bella Immalia, o cristiana, o qualunque altro nome vi piacerà di adottare, ascoltatemi intanto che vi annunzio le ricchezze, la popolazione e la magnificenza del paese, del quale voglio farvi un presente nuziale. La si trovano quasi tutti i capi della terra, gli eroi, i tiranni; là sono le loro ricchezze, la loro pompa, il loro potere. Che magnifico aggregato! Vi sono de’ troni e delle corone, de’ piedestalli e de’ trofei di fuoco che ardono senza intermissione, e lo splendore della cui gloria ivi brilla eternamente. Là sono quelli de’ quali avete letta la storia, i vostri Alessandrini, i vostri Cesari, i vostri Tolommei, i vostri Faraoni. Là sono i principi dell’Oriente, i Nembrod, i Baldassari, e gli Oloferni dei loro secoli. Là sono i principi del settentrione, gli Odini, gli Attila, gli Alarici, tutti questi nomi barbari, i quali sotto titoli e pretesti differenti sconvolsero e desolarono la terra che conquistarono. Là finalmente si trovano i principi del mezzogiorno, dell’oriente e dell’occidente, i discendenti di Maometto, i Califfi, i Saraceni, i Mori con tutti i loro titoli pomposi, le loro pretensioni i loro ornamenti, la mezza-luna, il Corano, la coda di cavallo. Oh! non vi mancherà certamente compagnia in quel brillante paese; esso sarà veramente brillante: e che importa che la sua luce provenga o dallo zolfo infiammato o dal tremolante raggio della luna, che in questo momento vi fa comparire tanto pallida? — Io son pallida, voi dite, rispose Isidora potendo a mala pena respirare; non me ne maraviglio. Io non comprendo il significato delle vostre parole, ma questo deve essere orribile; non mi parlate più, di grazia, di cotesto paese con tutto il suo orgoglio, i suoi vizii, il suo splendore! Son pronta a seguirvi ne’ deserti, nelle solitudini, in cui non siano state impresse altre orme, che le vostre, e dove il mio piede sempre fedele le seguirà. Io son nata nella solitudine, e saprò, se fa d’uopo, anco in essa morire; purchè in qualunque luogo io viva, a qualunque epoca io muoia sia vostra. In quanto al luogo nulla m’importa, quand’anco fosse....... ( Ella fremette involontariamente.) — Quand’anco fosse.... dove? le dimandò Melmoth, il quale ad un tempo provava un trionfo barbaro all’aspetto del pieno sacrifizio di sè medesima, che gli faceva la sfortunata, ed un sentimento di orrore pel destino, che ella con le sue imprecazioni andava ad attirare su lei stessa.
Dappertutto, ove voi anderete, gli rispose Isidora, vi seguirò. Quivi io voglio essere, e quivi sarò felice, siccome nella isola de’ fiori e del sole, in cui vi vidi per la prima volta. Ah! io non veggio più fiori tanto belli ed odorosi come quelli, che ivi crescevano; non ascolto più il dolce concento de’ suoi ruscelli e de’ suoi zeffiri, che sembravano ripetere il suono de’ vostri passi!... — Voi ascolterete una musica molto più perfetta, la interruppe Melmoth: sentirete la voce di dieci mila, che dico? di dieci milioni di spiriti, il cui concento è eterno, senza posa e senza intervallo. — Sarà una cosa non molto piacevole! (esclamò Isidora giungendo le mani.) Il solo linguaggio, che io abbia apparato in questo nuovo mondo, dove mi hanno trasportata, e che merita, che se ne faccia parola, è il linguaggio della musica. Nel gorgogliar degli augelli del mio antico mondo io non aveva distinto, se non de’ suoni imperfetti; ma in questo io l’ho veracemente appreso. La sventura, che io ho imparato nello stesso tempo a conoscere, pareggia appena cotesto nuovo e delizioso linguaggio. — Ma se tanta passione avete per la musica, pensate al gaudio di cui sarete ricolma quando udirete quegli accenti ripetuti dal torrente di dieci mila flutti di fuoco, che vanno a frangere contro de’ macigni, ai quali la disperazione eterna ha fatto acquistare la durezza dell’adamante! Vantano l’armonia delle sfere i filosofi! voi pensate piuttosto a quella di codesti orbi viventi, che eternamente si aggirano intorno al loro asse di fuoco, e cantando eternamente nel tempo che ardono, come que’ cristiani vostri fratelli, i quali servivano ad illuminare i giardini di Nerone nel corso di una notte, che egli passava in conviti ed in feste. — Voi mi fate tremare! Tremare, perchè vi parlo di fuoco? che vile timidezza! Vi aveva promesso, che quando foste arrivata ai nuovi vostri dominii, ivi trovereste tutto ciò, che si può immaginare di più grande, di più magnifico, di più splendido, di più voluttuoso: un letto di rose ed un desco di fuoco. — Ed è a cotesta dimora che voi m’invitate? — Sì; venite, e siate mia. Già migliaia di voci vi chiamano: ascoltatele ed obbedite al loro invito! Codeste voci risuonano tutte nella mia; il loro fuoco brilla negli occhi miei ed arde dentro il mio cuore. Ascoltatemi, Isidora, mia diletta, ascoltatemi. E sinceramente e per sempre che io vi ricerco. Oh! quanto deboli sono i vincoli, che uniscono insieme gli amanti mortali, paragonati a quelli, che ci uniranno ambedue nella eternità! Voi amate la musica: là sentirete senza dubbio la maggior parte de’ cantori che hanno esistito, da Tubalcain fino a Lulli. I loro accordi saranno di un genere singolare sarà il muggito eterno di un mare di fuoco, che forma il basso continuo al canto di milioni di cantori, che penano! — Che volete voi dire con questa orribile descrizione? le vostre parole sono tanti enimmi per me; io non v’intendo. Non m’intendete! (rispose Melmoth con un’aria freddamente satirica, la quale era in un terribile contrasto con l’ardente intelligenza, che gli brillava negli occhi) non m’intendete! — Non siete amante della musica? — Io l’amo. Amate ancora la danza, mia bella e graziosa amante? Io l’amava. — Perchè questa diversità nelle vostre risposte? — Amo la musica e deggio eternamente amarla: dessa è per me il linguaggio della rimembranza. Qualunque suono, che io odo mi riconduce alla mia cara isola; ma non potrei dire altrettanto della danza. Io ho appresa la danza: ma ho sentita la musica: non obblierò giammai il primo momento che l’ascoltai; credetti che fosse il linguaggio, col quale parlassero sempre fra loro i cristiani. — Queste sono molto buone ragioni; ma vorrei sapere, se ne avete delle altre per amare la musica ed avere amata la danza. Se ne avete, ditemele di grazia? — Amo la musica, perchè nel sentirla penso a voi. Ho cessato di amare la danza, benchè mi abbia essa talvolta condotto all’estasi, perchè danzando mi è avvenuto talvolta di obbliarvi. Alla presenza di voi, quantunque questa mi sembri esser necessaria alla mia esistenza, non ho mai provato quella sensazione deliziosa, che cagiona in me la vostra immagine, quando la musica la risveglia dal fondo del mio cuore. La danza mi sembra un’apostasia momentanea e quasi una profanazione. — Queste regioni sono sottili, ne convengo, ed io non ci trovo, che un difetto; cioè di non esser bastantemente lusinghiere, per chi le ascolta... ma non importa la danza o la musica! sembra che la mia immagine sia ugualmente perniciosa nel l’una e nell’altra. Questa vi tormenta colle sue rimembranze; quella pe’ suoi rimorsi. Ma io suppongo, che questa immagine siasi da voi ritirata per sempre; suppongo, che sia possibile di rompere il legame che ci unisce, e la cui illusione è penetrata fino nell’anima di ambedue... — Voi potete supporre ciò, rispose Isidora con un misto di verginale fierezza e di dolore; e se voi lo fate, potete credere, che io faccia altrettanto dal canto mio. Lo sforzo non mi costerà molto...... niente altro...... che la vita!
Melmoth contemplava la bella ed innocente creatura, un tempo cresciuta in seno della natura, ed ora così ingenua anco in mezzo della civilizzazione, e che conservava tutta la soave ricchezza della sua primiera angelica natura nell’atmosfera artificiale, in cui nessuno sapeva apprezzarne o il profumo o lo splendore. Melmoth la contemplava; egli ne conosceva tutto il pregio e maladiva sè stesso. Quindi in forza di quell’egoismo, che è compagno di una sventura senza speranza, credette, che cotesta maledizione si indebolirebbe rendendone un altro partecipe, ed approssimandosi alla finestra, d’avanti alla quale se ne stava la vittima, bella quantunque pallida, col tuono più dolce, che potesse prendere le disse: Isidora volete dunque esser mia? Come dovrò rispondervi, disse. Isidora; se è l’amore, che m’interroga, io ho già detto abbastanza; se è la vanità, ho detto ancor troppo. — La vanità! ah! voi non sapete cosa vi diciate! L’angelo accusatore non dovrà certamente apporre questo peccato nel numero de’ miei. È quasi impossibile che io lo commetta; desso è un sentimento terrestre; non posso in conseguenza parteciparne nè compiacermene. Ma non è men vero, che in questo momento sento un poco d’orgoglio umano.
E pronunziando queste ultime parole la sua fisonomia prese diffatti una espressione di orgoglio sì terribile, che Isidora non potè a meno di fremere. Tremante, piena d’inquietudine gli disse: volete voi dunque esser mio? Ovvero, che cosa deggio pensare de’ vostri orribili discorsi? Ahimè! il mio cuore non è stato mai inviluppato nel mistero. — Volete pertanto esser mia, Isidora? — Consultate i miei parenti, sposatemi secondo il rito ed in faccia della Chiesa, di cui io sono un membro indegno, e sarò vostra in perpetuo. — In perpetuo! così va bene; mia sposa! voi volete dunque esser mia in perpetuo?.... Questa è la vostra deliberazione, Isidora? — Sì.... sì.... ve l’ho già detto... Ma il sole è prossimo a levare, sento il fresco soave della mattina; gli aranci esalan un profumo più sensibile. I miei domestici potrebbero vedervi... Ritiratevi, ve ne scongiuro. — Io parto; ma un’altra parola ancora. In quanto a me, il levar del sole, l’arrivo dei vostri domestici, tutto ciò che al disopra del mio capo nell’atmosfera, o sotto la terra a’ miei piedi; tutto, vi dico, è ugualmente indifferente. Rimanga il sole sotto l’orizzonte e mi attenda: Siete voi mia! — Sì, sono vostra, ma conviene che sollecitate il consentimento della mia famiglia. — Oh! senza dubbio. Perchè no? Io sono tanto accostumato alla sollecitazione. — E.... — Ebbene! Come? voi esitate? — Esito rispose la timida, ed ingenua Isidora; perchè... — Su, via proseguite. — Perchè, aggiunse ella piangendo dirottamente, quelli, ai quali voi parlerete, non vi favelleranno con lo stesso linguaggio mio. Vi parleranno di ricchezza e di dote; vi dimanderanno delle relazioni esatte intorno al paese, ove mi avete detto, esser situati que’ vasti e ricchi dominii; e se essi me ne parleranno prima, cosa dovrò loro rispondere?
Allora Melmoth si avvicinò, più che potè, alla finestra, e pronunziò una parola, che sulle prime parve, che Isidora non avesse compresa. Tremante reiterò la sua dimanda. La risposta fu fatta con una voce più bassa ancora. Non osando credere a quanto aveva inteso, e lusingandosi, che il suo udito l’avesse ingannata, ella ripetè per la terza volta la sua interrogazione. Questa volta una parola spaventevole, impossibile a trascrivere le rimbombò all’orecchio. Gettò un grido e chiuse la finestra. Ahimè! la finestra non le tolse, che la vista dello straniero: l’immagine di lui le rimase impressa nel cuore.