Le operette morali/Della filosofia leopardiana. Dialogo di G. Chiarini
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DELLA FILOSOFIA LEOPARDIANA
DIALOGO
DI G. CHIARINI.
DIALOGO
FRA
UN FILOSOFO GIOBERTIANO ED UN RAZIONALISTA.
—
- Giobertiano.
- Voi sapete, o egregio amico, quanto io ami ed ammiri il Leopardi: amo ed ammiro in esso ciò che raramente mi accade trovare unito negli uomini, un ingegno altissimo e un animo sovranamente buono.Ma con tutto ciò, debbo dirvelo aperto, la filosofia da lui professata, o, per meglio dire, quella filosofia di cui egli fu vittima e non autore, pare anche a me, come al Gioberti, supremamente immorale e incivile; e dico che non si potrebbe fare all'Italia un dono più infausto che il predicarla, favorirla e cercare di metterla in voga. So bene che in questo punto voi dissentite da me: ma perch'io ho molta buona opinione di voi e vi voglio bene, mi sarebbe caro che noi venissimo discorrendo insieme un poco le ragioni del nostro dissentire. Chi sa che per questo ragionare non potessero in tutto o in parte mutarsi le vostre opinioni, o le mie!
- Razionalista
- Io veramente o poca o nessuna speranza di ciò; e tengo col Leopardi che il discutere allora soltanto possa riuscire a qualche utile conclusione, quando avviene fra uomini che professano le medesime o poco differenti dottrine. Perchè ciascuno è tenero della sua proprietà, e tanto più valorosamente la difende contro chi volesse rapirgliela, quanto essa è il frutto di sue fatiche. Ora che altro sono le opinioni di uno scrittore se non la sua più cara proprietà, il frutto dell'opera sua? Aggiungete la superbia umana; la quale, per molto, o poco, o niente che si mostri di fuori, è in tutti grande egualmente, cioè grandissima; e per la quale non pare, a chi ha consumato molta parte della vita negli studi, di poter dire senza vergogna, non che ad altri, a sè stesso, io mi sono ingannato. Quando s'imprende una disputa fra due uomini di pensare diverso, ciascuno si mette all'opera con la persuasione fermissima d'aver con sè la ragione, e col proposito non meno fermo di trarre dalla parte sua l'avversario; la quale persuasione ed il qual proposito sono molto più forti di tutti gli argomenti che quegli potesse accampare. S'intende ch'io parlo soltanto di quelli scrittori che, come noi, professano sinceramente, senza secondi fini, le opinioni che si formarono studiando: perchè di quegli altri (e sono moltissimi) che tengono l'una piuttosto che l'altra dottrina, secondo ch'ella è più o men fortunata nei tempi loro, e porta più o meno tranquillità di vivere onoranza e denari, non accade e non è degno che io mi occupi. I quali si vedranno sempre tenacissimi a difendere quella dottrina, finchè durerà la fortuna di lei; ove questa ceda, cedere anch'essi. Io dunque credo, mio caro amico, che per lunghe e sottili che possano essere le nostre dispute, queste finiranno lasciando anzi confermando ciascuno di noi nella opinione sua propria. Ma ciò che importa? Disputiamo pure, se a voi piace: che, se non altro, ne caveremo qualche diletto; ed in fine nè voi andrete a denunciar me per eretico alla Santa Inquisizione, o a quell'altro non men terribile e sapientissimo tribunale della opinion pubblica, inventato dai nostri bravi contemporanei; nè io porterò accusa contro di voi al tribunale dei liberi pensatori.
Ora ditemi di grazia, perchè chiamate immorale e incivile la filosofia del povero Leopardi?
- Giobertiano.
- E mel domandate? Io giudico l'albero dai frutti. Qual è la conseguenza logica, fatale, inevitabile, del pessimismo filosofico predicato dal Leopardi? Che il meglio che si possa fare in questo mondo, è cavarsi tutte le voglie, usando a tal fine ogni argomento possibile. Io non starò a discutere i funesti effetti di questa massima, ov'ella diventasse regolatrice del vivere umano; e voi forse vi rammentate ciò che ne ragionò lungamente il Gioberti nel Gesuita moderno. So bene che il Leopardi, per una felice contradizione fra le sue idee e le opere, visse in tutto diversamente da ciò che portava la sua filosofia; so ch'egli potrebbe dire che mai non gli passò per la mente di proporre quel fine al suo scrivere; e so ancora ch'egli volle prevenire l'accusa che io gli fo, dichiarando che se ne' suoi scritti ricordava alcune verità dure e triste, o per isfogo dell'animo, o per consolarsene col riso, e non per altro; non lasciava tuttavia di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la congizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi. Ma tutte queste cose non rilevano nulla. Quando un autore ha posto alcune premesse, non è più in facoltà di impedire che altri ne deduca le ragionevoli conseguenze. Ora è egli il vero, o non è, che le massime capitali della filosofia leopardiana son queste? Tutto è una infinita vanità; la virtù, la gloria, l'amore sono illusioni; la nostra vita non ha un frutto, non è buona ad altro che a disprezzarla essa medesima; tutti i viventi sono necessariamente infelici; il timore e la speranza di un'altra vita sono uno stolto conforto onde il mondo consola sè insieme coi fanciulli. Provatemi che da queste sentenze ed altre assai della medesima qualità, che non accade riferire, non iscende dritta e necessaria la conseguenza da me accennata, e vi dirò bravo.
- Razionalista.
- Permettete che io mi faccia un po' da alto. E rispondete voi prima ad alcune domande mie. Consentite voi che il filosofo ha da cercare la verità?
- Giobertiano.
- Certamente.
- Razionalista.
- Dunque mi sembra che, prima di condannare la filosofia leopardiana, importi vedere se le dottrine fondamentali di essa son vere o false.
- Giobertiano.
- Intorno a ciò non accade fare lungo ragionamento; imperrochè quando la conseguenze di coteste dottrine sia quella ch'io dico, niuno metterà in dubbio ch'elle siano false falsissime; non potendo mai stare che una dottrina vera partorisca effetti così perniciosi.
- Razionalista.
- Se la conseguenza delle dottrine leopardiane sia, o no, quella che voi dite, è ciò di che dobbiamo disputare; ed io non posso concedervi come provato quello a cui piacemi contradire; ma nego ancora che una dottrina si abbia da tenere per falsa solo per questo, che altri può dedurre conseguenze dannose. Che le conseguenze della filosofia del Leopardi sieno per molti quelle che voi dite, potrà darsi; ma io spero di potervi dimostrare, nel processo del mio ragionamento, che voi e cotesti molti siete tratti in inganno. In filosofia ognuno argomenta e ragiona secondo le sue opinioni, i suoi principii, il suo metodo: ora che il metodo che può esser giusto applicato alla dottrina che si professa diventa facilmente falso applicato ad una contraria. Questo è ciò che naturalmente accade a voi e ai contradittori del Leopardi; i quali argomentate dalle dottrine di lui come fareste dalle vostre medesime: per questo vediamo sovente da uno stesso fatto, da uno stesso giudizio, trarsi da molti conclusioni diversissime, che tutte per qualche rispetto possono parere ragionevoli. L'applicazione di una dottrina bisogna lasciarla fare a quelli che la professano, e lasciare ch'essi ne deducano le conseguenze legittime. Solamente abbiamo il diritto di giudicare se quell'applicazione è retta, se queste conseguenze non ripugnano ad essa dottrina e alla natura dell'uomo. Voler giudicare delle verità o falsità di una dottrina filosofica solo dalle conseguenze che ciascuno può trarne, le quali, come vedemmo, possono essere tanto varie quanto nell'argomento cui essa dottrina si riferisce sono varie le opinioni degli uomini, è per lo meno cosa molto incerta e pericolosa.
Che intendete voi per verità? Il giudicare di un vero o di un falso o cadrà intorno a' fatti o intorno a' giudizi umani. I fatti o avvengono dentro noi stessi, e ne abbiamo coscienza immediata, o avvengono fuori di noi, e li apprendiamo per via de' sensi, o di dimostrazioni scientifiche. Qualunque essi sieno, non sorge e non può sorgere controversia intorno alla esistenza loro, ma varia e può variare all'infinito la stima che se ne fa. I giudizi poi o sono evidenti di per sè stessi, come quelli che esprimono semplicemente la esistenza dei fatti, come gli assiomi della geometria, come i calcoli del matematico, o si derivano logicamente da questi, e si dimostrano veri per la evidenza delle prove. Ma v'ha ancora un'altra sorte di giudizi; tutti quelli che procedono dalla varia stima che portiamo dei fatti. Al qual genere appartengono la maggior parte dei filosofici. Ed in questi è grandissima, e forse non mai conciliabile, varietà e controversia. Se la scienza del ragionamento potesse acquistare in ogni sua parte la precisione che ha nella matematica, cesserebbe ben presto ogni discordia anche fra i giudizi dei filosofi. Ma ciò nè fu veduto, nè è sperabile si vegga mai, perocchè sia troppo diversa la materia sopra la quale si esercita il giudizio del filosofo e quello del matematico. A nessuno venne o verrà mai talento di negare che 4 più 2 è eguale a 6, e 4 meno 2 è eguale a 2; e di questo giudizio tutti fanno la medesima stima, e tutti ne deducono le medesime conseguenze. anche nessuno ha mai negato o negherà che l'uomo nasce e muore, che prova sensazioni piacevoli e dolorose, che pensa, che vuole, che ama; ma quanti convengono intorno alla estimazione di questi fatti? quanti ne traggono identiche conclusioni? Il matematico va dal noto all'ignoto; e il filosofo pure: ma quegli nel suo procedimento arrivando all'ignoto per combinazione di cose note, non eccede mai i limiti delle sue conoscenze, e mira ad un resultato i cui elementi sono della natura stessa dei primi giudizi da cui mosse; questi o pretende varcare quei limiti, o li varca senza accorgersi, e vuol trovare le ragioni che sono al di sopra del suo intendere. Cerchiamo nell'ordine naturale un fatto, della cui verità non sia lecito ad alcuno di dubitare; e vediamo se per le conseguenze che altri può trarre dalla semplice affermazione di esso sia ragionevole stimare falso il giudizio che esprime quella affermazione. Dice un indubitabile vero chi dice che la natura ha posto nell'uomo il germe, come di tutte le buone, così di tutte le ree passioni, e che da queste si generano tutti i mali della società umana. Ora se ad alcun ragionando piacesse da tale premessa dedurre che quei mali e le cattive passioni sono cose naturalissime, e che perciò fa opera contro natura chi punisce i malvagi; perchè applicata alla vita, questa sarebbe una pessima dottrina morale, si potrebbe giustamente condannare di falso il giudizio da cui fu derivata? Il filosofo, che vuole esser degno di questo nome, dee procedere alla ricerca delle verità senza preoccupazione veruna, senza domandarsi prima quali saranno gli effetti di essa. Trovata la verità, deve a questa adattare la morale. Accomodare i propri giudizi ad un fine già disegnato non è cercare la verità, è un voler dare ad intendere a sè ed agli altri che sia verità ciò che piace o giova di creder tale. Questa è pur troppo la filosofia di molti ai giorni nostri; ma non fu quella di Giacomo Leopardi. Spogliatosi di tutte le opinioni acquistate nella fanciullezza per fede cieca all'autorità, e ritenute alcun tempo per assuefazione, egli si pose, solo con la portentosa sua mente e cogli studi suoi anche più portentosi, in faccia alla natura; guardò i fatti senza timore, e quali gli si mostrarono li affermò francamente; esaminò i giudizi degli uomini che lo avevano preceduto, e paragonandoli ad essi fatti e sottoponendoli al suo ragionamento, o li accolse, o li rigettò, o li modificò, o ne sostituì ad essi de' suoi, come il ragionamento gli suggeriva; cercò per ultimo le ragioni, e non trovandole, e le trovate dagli altri stimando o assurde o niente più che ipotetiche, disse a sè medesimo, qui è il confine dell'umano sapere. Per questa via si condusse a formare ed esprimere i suoi giudizi intorno alle cose; e poichè essa a me pare la sola per la quale si possa negli studi speculativi approdare a verità, voi intenderete facilmente essere anche questa una delle ragioni che mi fanno tenere come molto probabile la sostanza della filosofia leopardiana.
- Giobertiano.
- Se io volessi rispondere a tutto ciò che voi siete venuto dicendo, mi bisognerebbe e fare troppo lungo discorso e vagare troppo lontano dallo argomento. Lasciando ogni rimanente, voglio però dirvi che non mi ha punto persuaso il ragionamento da voi fatto per dimostrare che da una verità si possono trarre conclusioni dannose. L'esempio da voi recato non fa al caso, perché in esso la conseguenza non precede necessaria dalla premessa, e questa è incompiuta. Se la natura ha posto nell'uomo, insieme colle buone anche le male passioni, gli ha dato altresì e intelletto per discernere quelle da queste e consigliarsi nella scelta, e volontà da seguire i consigli dell'intelletto: onde non solamente non fa cosa contro natura, ma ne osserva strettamente le leggi chi punisce i malvagi, i quali non vollero o non seppero far buon uso delle facoltà ch'ella concesse loro.
- Razionalista.
- È qui dove io vi aspettava. Lasciamo stare che potrebbe domandarsi: perchè condannare l'uomo a questa lotta col male, in cui per colpa o dell'intelletto o della volontà spesso rimane soccombente? E se la lotta volevasi, perchè non provvederlo sempre di armi sì valide che agli assicurassero la vittoria? A gran torto un re ed una nazione punirebbero della toccata sconfitta un capitano cui eglino stessi avessero mandato quasi inerme a combattere un nemico formidabile. Ma al postutto, non valeva meglio risparmiare all'uomo questa inutile lotta, nella quale o vincitore o vinto non ha merito o demerito alcuno? Perchè, a volere che l'uomo potesse tenersi responsale davanti alla natura degli atti suoi, sarebbe mestieri ch'egli esistesse e fosse quale è esclusivamente per atto della sua volontà. Lasciamo, dico, questo discorso, che non fa al proposito nostro; e udite come io vi rispondo. Concedo che nel mio esempio la conseguenza non scenda necessaria dalla premessa: mi basta che logicamente sia giusta; e questo non potrete negare. Ma e chi ha detto che le conseguenze che voi traete dalle dottrine leopardiane sieno necessarie, sieno cioè le sole che indi si possano trarre? Avete detto ciò voi solo, e ciò penseranno tutti i contradittori di quelle dottrine. Io però dico che, secondo il vostro modo di ragionare potranno quelle conseguenze esser logiche; secondo un modo diverso potranno dalle dottrine medesime dedursene delle opposte interamente. E questo è ciò che, come accennai, mi propongo di dimostrarvi. Ma intanto, credete a me, finchè staremo a disputare delle conseguenze di una dottrina per indi argomentare s'ella sia vera o falsa, non verremo a niuna conclusione. Contentiamoci dunque per ora di cercare soltanto se le massime della filosofia del nostro autore sono, o non sono vere, indipendentemente da ogni loro conseguenza.
- Giobertiano.
- Sia come a voi piace; ch'io non ricuserò la disputa anche ristretta su questo punto. E comincierò dal dire che quelle massime derivano a filo di logica dal materialismo. Egli stesso il Leopardi confessa che in filosofia si lasciò affascinare dalle dottrine che nel secolo passato dominarono in Francia, e quindi si sparsero per tutta Europa. Negli anni primi della giovinezza tutto occupato dalle lettere classiche, impedito poi di attendere seriamente agli studi dalla malattia che lentamente lo uccise, egli non si accorse nemmeno degli avviamenti della filosofia moderna: forse glie ne mancò il tempo e la voglia; e perciò si rimase contento a quella superficiale filosofia del materialismo, che pure in qualche modo si accordava colla disperata sua infelicità. Quando io dunque abbia provato che i principii fondamentali del sistema filosofico dei materialisti (e gli si fa troppo onore a chiamarlo sistema) son falsi, resterà provato che false eziandio sono le dottrine leopardiane. Nè ciò mi sarà molto difficile, imperrochè chi si conosce davvero di filosofia sappia che quei sistemi furono già da lungo tempo vittoriosamente confutati. Così non fosse mancata tanto presto la vita al Leopardi, ed egli avesse potuto applicarsi di proposito alle severe discipline filosofiche, com'io son certo che avrebbe prima di morire mutato affatto opinioni!
- Razionalista.
- È vezzo comune di chi non approva certe dottrine il dire ch'elle sono state già confutate da un pezzo. E stimandosi facil cosa il farle passare per errori di menti giovanili e inesperte, quando avviene che chi le professò sia un ingegno potente e, come il Leopardi, mancato innanzi tempo agli studi, torna comodo aggiungere, che, s'egli fosse vissuto più lungamente, avrebbe senza fallo riconosciuto ed emendato gli errori suoi, abbracciando le opposte dottrine. Ma chi rispondesse che nel Leopardi avvenne tutto il contrario, che cosa direste voi? LE dottrine ch'egli, secondo i suoi contradittori, avrebbe dovuto abbracciare da poi, se non moriva, furono quelle della sua prima giovinezza; che abbandonò nella virilità, quando, come dice egli stesso, si volse a pensare e si affezionò alla filosofia. Voi avete veduto certamente i segni di coteste sue prime dottrine negli scritti giovanili. Ma io vo' citarvi un pensiero che si legge nelle carte da lui cedute al Desinner, perché parmi che mostri chiaro come egli, prima di ragionare a modo suo, seppe anche ragionare benissimo come i suoi contradittori. „Tutto è, dice egli, o può essere contento di sè stesso, eccetto l'uomo; il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell'altre cose„ Quale de' filosofi suoi avversarii non accetterebbe come buono questo ragionamento, o forse non lo avrà sotto altra forma fatto egli pure? Anzi non è esso un esempio perfettissimo di argomentare di essi filosofi? Se il Leopardi lo mutò poi, egli è perchè certo dovette parergli falso. Io credo che, se gli avvenne di ritornare più tardi sopra quel ragionamento, egli si sarà domandato: Quali prove ho io della verità del fatto affermato con la prima proposizione? O anzi non ho prove del contrario? Posso io dire e credere veramente che un animale, in quel ch'è ferito a morte o da un suo simile o dall'uomo, sia o possa essere contento di sè? Ecco intanto una falsa premessa. Nè più vera di questa è l'altra sottintesa, che ciò ch'è contento di sè, abbia limitata la esistenza a questo mondo; ciò che non è contento, la prosegua fuori di esso. La qual sentenza presuppone quest'altra: che il fine ultimo e necessario di tutti gli esseri animati sia la felicità. Ora chi ha detto ciò all'uomo? e com'è ragionevole, dal vedere che tutti gli animali sono più o meno infelici, argomentare che sono stati creati per esser felici? Teniamo stretto il nostro ragionamento a ciò che l'esperienza c'insegna. Che cosa è per noi la felicità? La sodisfazione dei nostri desiderii. Cosicchè l'uomo che vivendo ottenesse ogni cosa da lui desiderata, sarebbe da ogni parte felice. Ma si trova egli quest'uomo? Non si trova, avvegnachè la natura umana sia tale, che da ogni desiderio sodisfatto ne rampollano de' nuovi. Laddove per contrario infinito è il numero di coloro la cui vita è un succedersi continuo di desiderii non sodisfatti; e questi cotali uomini sono naturalmente infelicissimi: agli altri avviene di conseguire appena una piccola parte delle voglie loro. Dal che sta bene conchiudere che la vita dell'uomo nel mondo è dal più al meno infelice; ma non veggo che ragione ci sia d'aggiungere che, non essendo felice qui, debba esser felice altrove. Anzi, quando si potesse provare ch'ella durasse fuori del nostro mondo, parmi che per ragione di analogia si dovrebbe giudicare che fosse anche altrove infelice; così portando la natura dell'animo umano. Ragionando a questo modo, o poco diversamente il Leopardi mutò, secondo me, le opinioni della sua prima giovinezza nella filosofia della virilità: la quale, se fossegli toccato di vivere più lungo tempo, avrebbe forse potuto modificare in qualche parte, ma non certo mutarne la sostanza, che una più lunga pratica del vivere e le nuove scoperte delle scienze gli avrebbero confermato ogni giorno più vera.
- Giobertiano
- Se fosse proprio così, bisognerebbe dire che il Leopardi sortì da natura un ingegno atto quanto altro mai agli studi letterari, ma negato assolutamente ai filosofici. Io però non credo questo, e rimango nella mia opinione, che gli mancasse il tempo e la voglia a farsi vero filosofo. Quelle opinioni della sua fanciullezza, delle quali lasciò traccia nelle prime scritture, erano buone e saggie; ma forse non erano altro che l'effetto della educazione religiosa da lui ricevuta in famiglia, e perciò non meritano il nome di filosofia; la quale vuol essere il risultamento di lunghi e gravi studi e meditazioni. Ad ogni modo ei fece molto male a mutarle in quella che voi chiamate la filosofia della sua virilità: e se gli argomenti coi quali avete creduto di dimostrare la falsità di quel suo giovanile pensiero sulla immortalità dell'anima umana dovessero aversi come un saggio del modo ch'ei tenne nel mutare le sue opinioni filosofiche, sarebbe mestieri concluderne che quella mutazione fu operata con una grande leggerezza. Non che fargli torto attribuendo la sua meschina filosofia a poco mature e profonde considerazioni intorno alle dottrine che rifiutò ed a quelle che abbracciò, io credeva di giudicarlo molto benignamente: ma poichè voi mi costringete ad ammettere che quella filosofia fosse l'opera di lunga meditazione, io dovrò concludere che a questa meditazione mancasse buon fondamento di filosofici studi, senza del quale non poteva riuscire che vana anche in una mente fortissima. Ecco qui: quei vostri argomenti sono i soliti di tutti i materialisti. Stretti nel mondo angustissimo della materia, si direbbe che voi non sapete fare un passo più in là, che non sapete levarvi alla considerazione del pensiero, che è il nostro creato, in cui tutto si appunta, e del quale voi stessi portate con voi la rivelazione. Cosa singolare! Voi vi servite del pensiero per negare il pensiero stesso, cioè la vostra esistenza. Voi non volete vedere nell'universo altro che la materia, nell'uomo altro che il corpo: e pure voi pensate. Come non sentire in voi stessi quell'unità, quell'identità e consapevolezza personale, che è il substrato più intimo, il midollo e la radice del pensiero? Come non sentire che il pensiero è uno, e semplice, e sostanziale; e quindi non può dissolversi, non può svanire come un fenomeno? Se dal vostro corpo creato e finito risalite alla universa materia da cui esso rampolla, come dal pensiero subiettivo non risalire necessariamente ad un pensiero obiettivo, da cui quello tragga l'esistenza, il moto e la vita? Voi riconoscente nell'uomo un desiderio insaziabile di felicità: e poi che vedete che questo desiderio non rimane pago nel mondo, invece di dedurne razionalmente che dovrà esser pago altrove, poichè la natura non può aver posto nell'animo umano un'aspirazione impossibile a sodisfare, ne conchiudete miserabilmente che l'uomo non è fatto per esser felice, ch'egli non può conseguire il suo fine, o anzi che la vita sua non ha un fine. E perché questo? Perchè la volontaria cecità della vostra mente v'impedisce di scorgere quel pensiero infinito ed eterno, ch'è principio o fine di tutte le cose, ed intorno al quale si aggirano spiritualmente le intelligenze umane, che solo ricongiungendosi a lui, avranno pago l'incessabile desio che lo persegue nel mondo.
Il grande errore dei materialisti sta nel considerare ch'essi fanno il pensiero come un attributo della materia; mentre per contrario la materia non è che una rivelazione del pensiero. Essi scambiano le cause cogli effetti; sottomettono la parte più nobile dell'essere alla meno nobile; come se fosse possibile che il misto e composto producesse il semplice e l'uno, che questo fosse fenomeno, accidente, modificazione, quello la sostanza unica, e la causa di sè. Chi non vede che cumuli è in ciò di contradizioni e di assurdità? Sostenere che il pensiero procede dalla materia è come dire che i mirabili concetti delle opere di Platone sono il prodotto di parole e lettere insieme accozzate e scritte sopra un poco di carta, non della mente divina del greco filosofo.
- Razionalista
- Voi potreste, mio buon amico, seguitare lungamente su questo metro, dicendo delle belle parole e frasi bellissime, che non conchiudereste niente quanto al persuadermi. Io conosceva già le vostre obiezioni; e ne ho lette molte altre dello stesso genere nei libri de' vostri filosofi: le ho lette e meditate, ma senza pro'. Voi dite benissimo che la cagione di tutti gli errori di noi altri poveri materialisti sta nella cecità della nostra mente, che non iscorge così chiaro come voi quella mentalità superiore assoluta, dalla quale essa attinge pure la sua virtù pensativa. Ma che colpa è la nostra se, per quanto noi desideriamo e cerchiamo ciò, lo spirito increato non si degna di rivelarsi compiutamente a noi sue umili creature, nè di farci accorte che il nostro spirito è qualche cosa di assolutamente distinto dal corpo, e cioè di non caduco e non corruttibile? Che colpa, se l'uno si sente così strettamente legato all'altro con cui nacque, crebbe, si perfezionò, e di cui partecipò tutte le vicende, che non sa concepire di potere esistere senza di lui? Saremmo noi forse i reietti dell'Idea sostanziale e creatrice? noi soli gli sfortunati ch'essa, a tutti gli altri madre benigna, trasse dal nulla, per iscacciarne poi dal proprio seno, e lasciarci in balìa di noi stessi? E perchè ciò? Con quale giustizia? e in punizione di qual fallo?
- Giobertiano.
- Voi vi querelate invano, e invano chiedete ragione a Dio di un fatto, ch'è dalla vostra volontà. Egli vi creò eguali a tutti gli altri, diede a voi come agli altri il libero arbitrio, in virtù del quale poteste e pensare e operare in tutto secondo che vi piaceva. Onde se il vostro pensiero stesso non vi guida a lui, non glie ne date la colpa; non dite che non vi riesce vedere chi splende chiaro come il sole agli occhi di tutti i veggenti; ma dite piuttosto che tenete chiusi gli occhi per non vederlo.
- Razionalista.
- Oh questo poi no. E qui permettete che, lasciando il plurale pel singolare, vi dica che dei fatti miei interiori pretendo esser miglior giudice io di chi che sia, anzi il solo giudice competente. Se il mio pensiero vede o non vede una cosa, se il non vederla procede da volontà o da impotenza, niuno ha diritto di giudicare meglio di me. E quando io dico che il mio pensiero, per quanto interroghi sinceramente sè stesso, non sente d'essere al tutto indipendente dal corpo in guisa ch'e' possa esistere senza di esso, e che gli argomenti che la vostra filosofia reca a sostenere questo concetto non valgono a persuadere la mia mente, alla quale il concetto stesso ripugna, voi dovete credermi, se volete ch'io creda a voi quando affermate il contrario. E poi per qual ragione dovrei in questo fatto mentire a me stesso? S'intende che l'uomo menta quando la menzogna gli è utile, ma quando questa non ha altro effetto che di togliergli una bella illusione, sarebbe il sommo della stoltezza. Non crediate però che, sostentendo le parti dei materialisti, io voglia sciogliere questo punto capitalissimo della quistione col solo argomento della coscienza intima secondo la quale ciascuno giudica la essenza del proprio pensiero. A questa coscienza intima corrisponde perfettamente il ragionamento, e dal quale è fatta più salda, e nel quale ha, direi quasi, la sua radice.
La materia, dite voi, è una rivelazione del pensiero. Dunque la materia esiste soltanto perchè il pensiero ci fa conoscere la esistenza di lei? Dunque se il pensiero non fosse, non sarebbe neppur la materia? Dunque il nostro mondo esiste soltanto perchè esiste il pensiero che lo manifesta a noi? Io non so se, per tenervi fedele alle vostre dottrine, voi vi sentirete il coraggio di negare le scoperte più luminose della scienza moderna. Voglio sperare di no: e con questa speranza vi prego di sapermi dire se esisteva e che cosa era il mondo prima che sorgessero gli uomini, e se esisteva e che cosa era, prima che fosse formato, la materia onde esso componesi. Anche vi pregherei di dirmi se esistono quei mondi in formazione che probabilmente non sono abitati da nessun essere pensante; se esistevano anche prima che fossero rivelati a noi dai cannocchiali degli astronomi; e se finalmente tutta la materia che esiste nell'universo è quella sola che si rivela a noi in modo così imperfetto. Poi che voi vedete che nè la materia del nostro mondo era così ben nota agli uomini di qualche secolo fa come a noi, nè noi conosciamo così bene la materia degli altri mondi, che pur ci sono visibili, come quella del nostro. Io vi assedio con tutte queste domande per mostrarvi che la vostra definizione della materia genera nel mio capo una quantità di dubbi inestricabili, se pure la intendo. Perchè anzi tutto debbo confessarvi ch'ella mi riesce alquanto incerta e vaporosa; tanto che, per quanti sforzi faccia, la mia mente non giunge a comprenderla interamente. Vedete; io la volgo e rivolgo da tutte le parti, mi ci fisso sopra con la maggiore intenzione; E noi appena mi pare di averla afferrata da qualche lato, ecco ch'ella mi sfugge. Che volete? la mia mente è fatta per modo che un concetto, il quale non sia bene determinato, non vi può entrare. Voi (non so) potrete dirmi che la materia è rivelazione del pensiero solo in quanto essa esiste, e che per ciò non è necessario, come non è possibile, che sia rivelata a noi compiutamente e in tutte le sue forme; e che prima che esistessero gli uomini, il nostro mondo era rivelazione del pensiero divino da cui procedere la universale materia, e da cui veramente questa è rivelata al pensiero umano. Ma io allora vi risponderò che per tali spiegazioni il vostro concetto, non che farmisi più, chiaro, mi diventa sempre più vaporoso e incomprensibile. E non che cessare, si moltiplicheranno le mie interrogazioni. La materia fu sempre rivelazione del pensiero divino? cioè, ha esistito sempre insieme con esso? Se voi mi rispondete affermando, ammettete l'eternità della materia, ammettete cioè un fatto che rovina dalle fondamenta tutto il vostro sistema; se negate, venite a dire che l'azione creativa della vostra Idea sostanziale ha avuto cominciamento; e allora che cosa era questa Idea creatrice, quando non creava? e allora voi ammettete una successione di tempo nell'eternità, cosa che sta in contradizione coi principii della vostra filosofia. Ma non basta: questa rivelazione della materia che il pensiero divino fa all'umano nell'atto che lo crea, e questo atto quando avvengono essi? non appena la creatura umana è concepita nell'utero materno, o quando esce al mondo? Ma pensa forse il bambino in corpo alla madre, o subito dopo che ne uscì? E come si accorda coll'Idea creatrice, una, semplice, etera, l'azione creativa, varia, molteplice, e nella successione del tempo? Come questa creazione può esser effetto di quell'Idea? Voi domandate a me, com'è possibile che il misto e composto produca il semplice e l'uno; io potrei con più ragione domandare a voi, com'è possibile che il semplice e l'uno produca il misto e composto. Perchè a buon conto io vedo da quel misto e composto, che si chiama corpo umano, uscire quel semplice che si chiama pensiero; io vedo da un congegnamento di ruote ed altre macchine, ch'è pure un composto, uscire qualche cosa ch'è semplice, come il moto; non vidi mai il pensiero nè il moto produrre un benchè menomo atomo di materia. È propriamente per ciò che mi ripugna quella vostra mentalità superiore, quella Idea sostanziale, quel pensiero increato, che crea l'universo. Io debbo, secondo voi, e non c'è altra via, risalire a cotesto pensiero increato e infinito dal mio creato e finito: ma è chiaro che non potrò risalirvi altrimenti che per analogia; imaginando, cioè, che il pensiero divino sia qualcosa di simile all'umano; che abbia, in grado infinitamente maggiore e perfettissimo quanto volete, qualità della stessa natura; perchè se io gli attribuirò qualità al tutto diverse e stranissime dal pensiero nostro, io ne farò qualche cosa a cui si converranno tutt'altri nomi che quelli di mente e pensiero. E quando io gli attribuisco la facoltà di creare, e di ciò faccio la sua essenza, egli sarà tutto ciò che volete, ma non sarà pensiero, giacchè il pensiero, quale lo conosciamo noi, non ha coteste facoltà. È falso dire, come fate, che i materialisti non vogliono vedere nell'universo che la materia, e negano il pensiero, perchè non li persuade la spiegazione che voi date dell'una e dell'altro. Nega forse il moto di un orologio, chi dice ch'esso è il risultato di vari ordigni ingegnosamente combinati? — Ma il pensiero è più nobile della materia— E sia: forse perchè il profumo è ciò che fa più pregevole il fiore, direste voi che questo è prodotto da quello? e che negherebbe il profumo chi osasse affermare il contrario? Certamente, è qualche cosa di grande e meraviglioso nella potenza che l'uomo ha di pensare. Chi non sente ciò? Chi oserebbe negarlo? Limitato nello spazio e nel tempo, il pensiero dimostra pure all'intelletto umano la necessità dell'eterno e dell'infinito; e l'intelletto dinanzi a questa idea che non può comprendere, si smarrisce. Vedete la piccolezza nostra! Ciò che il nostro pensiero si mostra più grande è altresì ciò che fa accorto l'uomo della ignoranza e nullità sua in faccia all'universo. L'eterno e l'infinito sono cose di cui non puoi dubitare, dice a sè stesso il pensiero; ma invano cercheresti d'intenderle. E quando, scioccamente superbo, l'uomo vuol darsi ragione di questo mistero, e spiegarsi qual legame unisca l'infinito al finito, l'eternità al tempo, va fabbricando una quantità d'ipotesi, alle quali manca ogni argomento di certezza. Ma la potenza di pensare è qualcosa di grande e meraviglioso solamente rispetto a noi e a quel nonnulla che per essa noi possiamo conoscere del mondo e dell'universo: in paragone all'universo che è? Chi dice a noi che nella infinità dei mondi che si muovono nello spazio infinito non siano esseri dotati di facoltà incomparabilmente superiori a quelle dell'uomo? di facoltà molto più grandi e meravigliose che non è la facoltà di pensare, e forse molto diverse da essa, o che se in qualche modo le somigliano, la vincano assai di forza e di comprensione? Non c'è nulla di strano a supporre che, come noi coi nostri deboli occhi e i nostri debolissimi cannocchiali siam giunti a leggere qualche sillaba nell'immenso volume del cielo, e come siamo riusciti, coll'esperienza e la industria, a scoprire alcune delle innumerevoli proprietà della materia e delle leggi che la governano, altri esseri molto maggiori a noi d'intelletto e di forza sieno andati molto più avanti nella conoscenza dell'universo. Questa è una semplice supposizione; ma poichè niuno potrebbe dimostrarmi ch'è assurda, anch'essa mi basterà per combattere il vostro pensiero increato. Perchè io vi domanderò: se non è inverosimile supporre che nell'ordine universale degli esseri esistano facoltà molto diverse dal pensiero umano e molto più meravigliose (le quali a noi non è dato immaginare, perché la fantasia nostra, per quanto ferace, non può lavorare che sopra le idee acquistate nel mondo a cui appartiene); come oserà l'uomo, non solamente supporre, ma affermare che la potenza creatrice dell'universo è alcun che di simile al pensiero umano? Qual cosa può darsi più ridicola e puerile di questa? come non vedono i filosofi della vostra scuola, come non sentono, essi che tante belle cose vedono e sentono, che volere col pensiero umano abbracciare l'infinito e l'eterno, e volerne fare qualche cosa di simile ad esso pensiero, è una solenne contradizione? è un negare all'infinito e all'eterno la essenza loro nell'atto medesimo in cui si affermano? Perchè l'infinito e l'eterno non sarebbero più tali se potessero esser compresi da ciò che è finito e nel tempo. Voi insistete, domandando se quella consapevolezza che l'umo ha di sè, e nella quale sta, come a dire, il midollo e la radice del pensiero, e se la unità e semplicità di questo, non dimostrano ch'egli è una sostanza incorruttibile e quasi divina. Al che io rispondo che Tom, il mio buono e fedel cane, sa benissimo di non essere il vostro cane, sa d'esser lui e non altri che lui, precisamente come io so d'esser io; e ciò che non pertanto voi non dite che lo spirito del mio cane è incorruttibile e partecipe della divinità. O perchè? Perchè non iscorgete nessun legame fra cotesta consapevolezza che il cane ha dell'essere suo e la incorruttibilità e quasi divinità di ciò ond'egli acquista tale consapevolezza; perché non è un assioma, e non è stato mai provato da nessuno, che ciò che è consapevole di sè sia immortale. Di grazia, perchè il ragionamento che vale pel mio cane non dee valere per me? — Ma l'unità e semplicità del pensiero?— Che cosa intendete per semplice ed uno? Se, come credo, intendete ciò che non si può nè toccare nè vedere, ciò che non consta di parti, ciò in somma che non è materiale; io vi domanderò se sono qualche cosa di materiale per noi il moto, la luce, il suono, l'elettricità, il magnetismo; e pure nessuno, e nemmeno voi, caro amico, osereste dire che il moto dell'orologio durerà anche dopo guasti li ordigni di esso, che durerà la luce consumata che sia la candela, che cessato il contatto dei corpi onde producevasi, non cesserà il fenomeno elettrico ed il magnetico. Anche l'argomento pel quale avete nominato Platone, tuttochè specioso, non prova niente contro le dottrine leopardiane; anzi può ritorcesi contro le vostre. Sta bene che i concetti di un libro procedono dalla mente dello scrittore, non da quei segni convenzionali che li rappresentano materialmente sulla carta. Ma ditemi un poco; cotesti pensieri che non hanno niente di corporeo, che sono semplici come la mente che li produsse, e dovrebbero quindi, per le vostre dottrine, essere incorruttibili ed immortali com'essa, sono veramente cosiffatti? Ditemi, che cosa diventano essi, distrutti i libri nei quali vivono? Esistono forse ancora quei pensieri, che pure dovettero essere mirabili, di tante canzoni di Saffo, di Simonide e d'altri poeti della greca antichità, le opere dei quali andarono perdute? Noi non diciamo veramente che il pensiero procede dalla materia, che cioè la materia pensa; ma che dalla materia posta in certe particolari condizioni e organata in un dato modo, per virtù di quella forza misteriosa che muove e governa l'universo si svolge il pensiero. Appunto a quel modo medesimo che dalla materia posta in altre condizioni si producono per virtù della stessa o di altre forze il moto, la luce, il suono, il calore, l'elettricità, il magnetismo; e a quel modo che dalla diversa combinazione delle ventiquattro lettere dell'alfabeto vengono fuori, per virtù dell'ingegno umano, la Commedia di Dante e i sonetti del Berni, e dall'accozzamento diverso delle sette note musicali il Barbiere di Siviglia e il Mosè del Rossini.
- Giobertiano.
- Oh ma ci siamo. L'avete detta la gran parola. Che importava darvi tanto da fare per combattere le mie obiezioni, se poi volevate conchiudere dandomi quasi ragione? Sicchè voi siete costretto ad ammettere che la materia non pensa, e che la virtù del pensiero muove da alcun che di non materiale. Voi chiamate ciò una forza misteriosa; io, più logico di voi, argomento della natura del figlio quella del padre, e lo chiamo pensiero, mente, Dio. Ma i nomi importano poco.
- Razionalista.
- Non concedo che importino poco; anzi dico che importano assai, quando vogliono definire ciò ch'è indefinibile. Non dite di grazia ch'io vi do ragione; perchè, se ci penserete un poco, vedrete che noi siamo ancora, e resteremo sempre, lontani le mille miglia l'uno dall'altro. La filosofia leopardiana non nega ciò che voi chiamate Dio ed essa chiama natura, quella virtù cioè per la quale l'universo esiste e si muove; ma dove voi presumete d'intendere Dio, di spiegarlo, di noverarne ad uno ad uno gli attributi, essa dichiara che la essenza della natura è assolutamente incomprensibile, che volerla argomentare da alcuni pochi e minimi effetti che se ne veggono in questo mondo, è grande stoltezza. E dove voi fate Dio qualche cosa di perfettamente distinto dall'universo, essa non sa comprendere la natura separata da questo, e li considera come eternalmente congiunti e indissolubili. A chi le domanda quale legame li unisce fra loro; come stanno ed operano insieme; come possono essere a un tempo uni e molteplici, semplici e misti; in qual modo e per qual ragione l'universo infinito ed eterno si manifesta a noi finito e nel tempo; essa risponde che di tutte queste ed altre assai cose non intende e non può intendere niente. Il saper nostro, secondo la filosofia leopardiana, si riduce a quel poco che l'esperienza e il ragionamento guidato da essa c'insegnano. Noi vediamo intorno a noi da tutte le parti la materia che per mille guise, e prendendo forme sempre diverse, ei muove all'interno dello spazio; vediamo che la materia non si distrugge; ci ripugna immaginare che sia sorta dal nulla, e che il moto di lei abbia avuto cominciamento; e diciamo ch'essa è eterna, ed eterna la forza per la quale si muove: ci dimandiamo ove siano i termini dello spazio, e il pensiero ci risponde che lo spazio non può aver termini, perchè al pensiero, la cui essenza sta nel conoscere ciò che è, ripugna il nulla; vediamo esso spazio, fin dove la nostra vista può giungere, popolato di mondi; ci domandiamo, a che lo spazio senza la materia e senza il moto di lei?; e ne deduciamo che infinito sia il numero di mondi che si muovono ab eterno nello spazio infinito. Il pensiero, il moto, il suono, la luce, l'elettricità, il magnetismo, e tanti altri fenomeni del nostro mondo, la maggior parte dei quali rimane occulta a noi, ma che tutti possono forse ridursi ad uno solo, il moto, non sono se non effetti parziali e temporanei di quella forza, che è come dire l'anima dell'universo, e non sono se non una minia parte degli effetti che da essa procedono; ma la facoltà di produrli dura in essa perenne e non ebbe mai cominciamento.
Quella breve ed elegantissima scrittura che il Leopardi finse aver tradotta daStratone di Lampsaco parve al vostro Gioberti così debole per la sostanza filosofica, che giudicò non doversi avere in altro conto che d'uno scherzo. Io non dirò ch'ella sia profonda, se il profondo sta nel difficile; perch'ella è semplice e piana in guisa, che anche un uomo al tutto inerudito, purchè di buon senso, può intenderla. Ma ciò che l'autore ragiona ivi della eternità della materia, della caducità delle forme di essa, della forza o forze ond'è continuamente trasformata, mi appare dedotto con la più stretta logica da verità così evidenti, ch'io non so se davvero come si possa negargli fede.
- Giobertiano.
- Comincio ad accorgermi che avevate ragione dicendo fin da principio che questa nostra disputa finirebbe lasciando ciascuno di noi nella sua opinione. I nostri ragionamenti muovono da principii troppo diversi: io non posso ammettere certe che a voi paiono verità evidenti; voi mi chiedete la prova di postulati che per me non hanno bisogno di prova, e dei quali è impossibile darla. A ciò che il Leopardi ragiona della eternità della materia io, per modo d'esempio, oppongo che non può essere eterno ciò che non è immutabile: ma che gioverà la mia opposizione, se voi mi chiederete che vi dimostri per quale ragione l'eterno deve essere immutabile? Chi può dare la dimostrazione di una verità che si sente esser tale, ma non si può dimostrare? Cessiamo dunque il discorrere della verità o non verità delle dottrine leopardiane. Dato e non concesso ch'elle sian vere, io sono pure curioso di udire con quali argomenti saprete provarmi che non sono immorali.
- Razionalista.
- Io affermo anzi che sono moralissime, e che la morale allora solo poserà sopra base certa e incrollabile quando sarà daccordo col vero, cioè con coteste dottrine. Sapete voi perchè a molti questo accordo pare un impossibile, una contradizione? Perchè sono assuefatti da tutta la vita a considerare le verità morali come intimamente legate con le idee religiose, anzi come dipendenti da esse; e invincibile è nei più la forza dell'uso, che, come saviamente dice il Leopardi, suole spesso esser cambiato con la natura.
Cotesta buona gente sono chiusi come in un cerchio di ferro, dal quale non possono uscire; e non si accorgono che cotesto terribile cerchio è una misera petizione di principio. Essi dicono in sostanza, che bisogna osservare la morale, perchè i precetti di essa ci vengono da Dio colla religione; e che la religione è necessaria, perchè senza essa non ci sarebbe morale, e senza morale non esisterebbe il civile consorzio. Quando eglino affermano che un uomo irreligioso non può essere morale, sono perfettamente logici, ma di una logica loro particolare, che muovendo da falsi principii non può menare che a conchiusioni egualmente false. Di fatti quale confutazione più luminosa potrebbe opporsi al loro ragionamento, che mostrare l'esempio di un uomo, quale fu Giacomo Leopardi, irreligioso e virtuosissimo? Che possono i propugnatori della morale religiosa rispondere a questo argomento? O debbono mostrare, che la virtù di un tal uomo non è morale, o riconoscere che si può esser morali anche senza esser religiosi. Ma vediamo un poco quali argomenti usa la religione per consigliare agli uomini la pratica della morale. Essa dice loro: siate virtuosi in questa vita, e ne avrete larghissima ricompensa dopo la morte; fuggite i vani piaceri del mondo, e sarete beati eternamente nel Paradiso; date a' poveri le vostre ricchezze, e Dio ve ne renderà mille cotanti di beatitudine celeste. Anche la religione sentì che il primo e più potente motore delle azioni umane è il piacere e l'utile proprio: e cercò di far gradita agli uomini la virtù, promettendo a chi la seguisse tanto più grossi quanto più lontani guadagni. Que' santi uomini che, date a' poveri tutte le loro possessioni, andarono a vivere nel deserto, e que' primi cristiani che lietamente sopportarono il martirio per amore della fede, che altro sono se non usurai i quali stimarono di mettere le loro buone opere al frutto del mille per uno? Io non biasimo di ciò la religione, la quale usò il migliore argomento che si poteva a muover gli uomini verso il bene: ma l'usò molto imperfettamente. Anzitutto le ricompense ch'essa proponeva agli uomini in premio delle buone opere loro, essendo molto lontane ed incerte e difficili a conseguire, non potevano avere attrattiva che per le menti deboli, facili a lasciarsi ingannare anche dalle immaginazioni più false: gli uomini forti, per natura poco creduli, e risoluti di cercare nella vita il frutto di essa, dovevano necessariamente preferire il presente certo al lontano incertissimo. Di che, ove una torta educazione mostrasse loro utile il male, niun altro ritegno avevano da questo fuori delle leggi umane, imperfettissime e facili a eludere. Aggiungasi che non tutto ciò che insegnavasi dalla religione o dai suoi ministri era virtù vera, cioè utile agli uomini, anzi talora cagione di gravi danni. A che od a chi giovavano quei sublimissimi pazzi che, per amore della vita contemplativa dispregiando le più nobili imprese e i più cari affetti mondani, si ritiravano in luoghi deserti a vivere vita asprissima e al tutto separata dalle cose terrene? Se tutti gli uomini, seguendo il consiglio di San Bernardo rendutosi monaco, avessero gridato con lui: Io sono come Melchisedech, sanza padre, e sanza madre e sanza fratelli, e non chiamo padre o madre sopra la terra; se tutte le donne avessero, come Santa Eugenia, fuggito la casa paterna e lasciato la famiglia nel lutto per desiderio di servire a Dio in vita di contemplazione; io domando a voi, che ne sarebbe della nostra presente civiltà, anzi pure dell'umano consorzio? Non che giovare, nocque e nuoce moltissimo quella virtù del pentimento tanto raccomandata dalla religione cattolica, per la quale viene rimessa qualsiasi colpa a chi ne provi sincero dolore, e basta un atto di contrizione fatto prima di morire a purgare di ogni macchia la vita più scellerata. Egli è vero che non è di tutti un sincero pentirsi, al quale dee necessariamente tener dietro la ferma volontà di ben fare; ed è altresì vero che la morte può giungere improvvisa il peccatore: ma le menti volgari, e sono le più, non fanno troppo sottili distinzioni, guardano le cose un po' grossamente, e si fidano al tempo. — Per oggi facciamo questo male che ci giova; domani ci pentiremo: chi che s'ha per l'appunto a morire oggi, e senza aver tempo di ricorrere a Dio?— Il maggior numero, che per mancanza di coltura intellettuale si lascia più facilmente guidare alle idee religiose, e non e vede che la scorza, se non fa sempre questo ragionamento, quasi sempre si conduce come se lo facesse. Chi ha praticato gli uomini avrà fatto più d'una volta esperienza di ciò. Io non ho poi bisogno, ragionando con voi, di toccare dei sagrifizi umani che in alcune età furono graditi alle religioni, delle orribili guerre che queste suscitarono, di tanto sangue che fu sparso, di tante infamie che furono commesse dal fanatismo religioso e dalla superstizione.
- Giobertiano
- Io non veggo ancora dove vogliate riuscire col vostro ragionamento: ma permettete che v'interrompa con una osservazione. Da questi ed altri danni, che io non nego esser stati prodotti dalle religioni, non è giusto concludere che la morale religiosa sia imperfetta. Essi danni non sono da attribuire alla religione, ma alla infermità degli uomini, che non sanno applicarne le dottrine se non molto difettosamente. Io posso qui ritorcere contro voi un argomento da voi usato contro di me. Se una dottrina è buona o cattiva, vera o falsa, non dobbiamo giudicare soltanto dalle conseguenze, ma considerando essa dottrina in sè, poichè può bene spesso avvenire, come appunto nel fatto della morale religiosa, che una dottrina sia vera e buona, e la perversità ed imbecillità umana ne facciano derivare effetti perniciosi. Niuno deplora più di me gli errori e i malefizi che in tutte le religioni commisero i ministri di esse; ma se anco quelli fossero molti più che non sono, io non mi persuaderei che si dovessero imputare alle religioni, e dedurne che queste sono una mala cosa. Nè credo che voi vi pensiate d'essere il fortunato che tiene in serbo una morale scientifica, la quale possa fare il miracolo, che la morale religiosa non fece, di rendere tutti gli uomini a cui fosse insegnata tanti angeli di bontà
- Razionalista.
- Voi scherzate; ed io senza scherzare vi rispondo che, se non penso cotesto, penso però che la morale della scienza risparmierebbe al genere umano molti mali che la morale della religione, parte non seppe impedire, parte produsse. Ma non è esatto dire che sia il mio stesso argomento quello che voi avete rivolto contro di me; perchè io lo usava in un caso al tutto diverso. Quando io faceva il ragionamento fatto ora da voi, si parlava di dottrine morali che altri può dedurre da certi principii filosofici, ora si tratta di fatti avvenuti per opera delle religioni. Voi dicevate: dalla filosofia leopardiana applicata al vivere umano deriverebbero queste brutte conseguenze; io ho detto: dalla religione sono derivati questi e questi altri danni al genere umano. Vedete che dall'una cosa all'altra c'è differenza. E tanta differenza, che io potuto negare a voi che quelle conseguenze sian vero; voi non avete negato e non potevate negare che i fatti da me accennati siano avvenuti.
Il maggior difetto della morale religiosa proviene da ciò, che si volle porne l'origine fuori dell'uomo, anzi fuori del mondo, e si presentò come un dovere da adempiere, come un comando da obbedire. Ora la natura degli uomini è tale, ch'essi saran sempre pronti a mancare a un dovere, a disobbedire un comando, quante volte trovino in ciò il loro tornaconto. L'uomo è tanto malvagio quanto gli bisogna, dice il Leopardi nei Pensieri; e nel dialogo tra Timandro ed Eleandro mette in bocca dell'uno queste parole: ad ogni vizio o colpa che veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me stesso presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene. Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere. La ipocrisia umana grida contro queste sentenze, che le paiono giudicare troppo duramente e ingiustamente il genere nostro; e chi grida più forte sono coloro che non risparmierebbero un'ora di prigione all'uomo che per fame rubò uno scudo, ma si cavano rispettosi il cappello ed ossequenti si incurvano al ladro titolato che va in carrozza. Considerando la mia vita, io non la trovo macchiata da nessuna di quelle colpe che le leggi umane puniscono, e mi accorgo di non aver mancato quasi mai volontariamente a' miei doveri d'uomo e di cittadino; ma se scendo per poco dentro me stesso, e mi interrogo sinceramente, sento che debbo ripetere anch'io le parole di Eleandro. L'uomo è fatto così: ma qual colpa n'ha egli? e che vergogna c'è a riconoscersi tale? É legge suprema di natura che tutto ciò che è capace di amore, ami sopra ogni cosa sè, anzi non ami altri che sè, ed ami sè negli altri. La verità di questa legge io la sento così forte in me stesso, la veggo così luminosamente provata da tutti gli atti di tutti gli esseri che mi circondano, che sarei tentato di dire che, come l'amore di sè è essenziale a tutte le cose che sono, così è la ragione dell'essere di tutte le cose. Se l'anima dell'universo fosse capace di amore, l'universo non potrebbe amare che sè; e i beni e i mali nostri, le nostre gioie e i dolori non sarebbero che un effetto di ciò. L'amore di Dio, della patria, della gloria; l'amore del prossimo; l'amore dell'uomo per la donna; della donna per l'uomo; l'amore de' genitori pei figli, de' figli pei genitori; l'amore dei parenti, l'amicizia, la pietà, l'odio,l'ira, e quanti altri affetti, buoni o cattivi, albergano nell'animo umano, sono altrettante forme diverse che assume e nelle quali si estrinseca l'amore di sè. A chi mi dicesse che questo è un paradosso, domanderei se tanto l'uomo che compie un'azione eroica, quanto quegli che commette un delitto, non cercano egualmente l'utile o il piacere proprio; e lo pregherei di dirmi in qual giorno, in qual ora della sua vita egli si ricorda di aver operato volontariamente un atto col quale si proponesse altra cosa che la propria sodisfazione. Così tutto il bene, come tutto il male che si trova nella società umana, deriva dalla buona o cattiva applicazione di quella legge suprema dell'amore di sè. Da questa verità, che ad un osservatore attento e spregiudicato lo studio e la esperienza del cuore umano dimostrano chiarissima, io conchiudo che una dottrina morale sarà tanto migliore quanto sarà più umana, cioè meglio accomodata alla inferma natura degli uomini, e quanto meglio riuscirà a persuaderli che il più certo utile loro sta nel procacciare il bene degli altri, che è quanto dire nel praticar la virtù.
- Giobertiano
- Ma scusate: Il Leopardi dice che la virtù, come tutto ciò che è bello e grande, non è che una illusione. Ora come voi, che vi spacciate per filosofo pratico, riuscirete a persuadere il genere umano che il suo bene sta nel correr dietro alle ombre? O non vedete che siete in contradizione con voi stesso?
- Razionalista.
- Aggiunge però il Leoaprdi che queste illusioni non sono mere vanità, ma cose in certo modo sostanziali; non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingeniti essenzialmente in ciascheduno, e compongono tutta la nostra vita. E in più luoghi delle sue opere loda ed esalta quelle opinioni, benchè false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, anchorchè vane, che danno pregio alla vita, e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, egli dice, e non quelli sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia.
L'uomo, secondo il Leopardi, è infelice per decreto immutabile di natura; ma la necessaria infelicità sua è accresciuta grandemente da quelli errori che gli fanno cercare la sodisfazione di sè là dove non si trova, e dove trovasi spesso il male altrui; i quali errori procedono sempre da ignoranza e da falso ragionamento. Di che naturalmente conseguita, dovere, qualunque è savio, adoperarsi a dissipare questi errori, parlando sempre agli uomini il linguaggio della verità, e assuefacendoli per tempo a stimare sè medesimi e le cose per ciò che sono realmente; e dovere altresì nell'educare per tal guisa le menti a un forte e sano ragionare, porre ogni studio a svolgere e confermare nel cuore umano quei sentimenti dai quali rampollano le illusioni generose e gentili. Se tutti gli uomini, dice il Leopardi, volessero esser virtuosi; se fossero compassionevoli, benefici, generosi, magnanimi, pieni d'entusiasmo, non sarebbero forse più felici? Ciascun d'essi non ritrarrebbe mille vantaggi dal vivere nell'altrui compagnia? E l'umana società non dovrebbe cercare con ogni cura di ridurre ad effetto quanto è possibile le illusioni, poi che la felicità dell'uomo non può trovarsi in ciò che è reale? Che rileva che il Leopardi chiami illusioni le virtù? Con questo nome egli non iscaccia però dagli animi de' mortali quei sentimenti ond'esse derivano. Chi non chiama illusione la speranza? E pure chi non è sempre apparecchiato ad accoglierla nell'animo anche dopo i più terribili disinganni? La filosofia leopardiana (non ridete, mio buon amico) è essenzialmente pratica; ed appunto per ciò essenzialmente morale. Invece di dire agli uomini: questa vita è niente, la vera vita vostra comincia dopo la morte; invece di ammonirli: fate il bene, e ve ne sarà dato largo premio quando non sarete più; procacciate d'esser infelicissimi in questo mondo per vivere eternamente beati in un altro, che non potete sapere nè dove sia nè che sia; fate bene agli altri anche con vostro danno e dolore; essa dice loro: la presente vita, che certo non è felice nè bella. è pur tutto ciò che la natura vi dà; ma se ad alcuno fosse intollerabile, quegli si consoli col pensiero che la natura gli offre altresì il modo di fuggirla, e che a breve andare la vita fugge gli uomini essa stessa da sè. Chi vuol vivere, cerchi pertanto di trarre dalla vita il miglior profitto che gli è concesso; fugga il male e il dolore e tutto ciò che può turbargli la quiete dell'animo. Al quale intento giungerà per una sola via, che è la virtù: e la virtù rispetto ai legami che stringono fra loro gli uomini raccolti in società, non è altro che un savio amore di sè. Io mi ricordo di avere, ancora giovanissimo, e prima che leggessi gli scritti del Leopardi, fatta più volte questa considerazione. Se tutti gli uomini indirizzassero tutte le azioni loro al bene de' loro simili in generale, ed in particolare di quella parte di persone fra le quali vivono, e più particolarmente ancora di ciascuna di quelle colle quali hanno più stretti commerci di interessi, di parentela, d'uffici; se in somma ciascun uomo cercasse il suo bene nel bene altrui; da ciò solo deriverebbe la miglior condizione possibile di vita al genere umano; e sarebbe temperata, non accresciuta, dall'opera sua la necessaria infelicità destinatagli da natura. Nel mondo, com'è oggi, signoreggiano e fra loro contendono le più brutte passioni, talora a viso scoperto, il più delle volte mentendo l'aspetto delle virtù. La vita umana, dice il Leopardi, e fu detto da altri prima e dopo di lui, è una lotta, nella quale tutti combattiamo l'uno contro l'altro, fino all'ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere, insultando e calpestando chiunque ne ceda anche per un momento. E le armi più usate in questa guerra sono la frode, la calunnia, l'ipocrisia. Deriva da ciò che gli uomini sono oggi vittime, domani carnefici: e sospettosi l'uno dell'altro, o vinti o vincitori, vivono in continua trepidazione, infelicissimi sempre. Nel che fare eglino veramente non sono rei; imperrochè obbedendo a quella suprema legge di natura che sforza l'uomo ad amare sè stesso, e nascendo vivendo in mezzo a gente che quasi sempre cerca la sodisfazione di cotesto amore nel danno altrui, si assuefanno quasi insensibilmente a credere che questo sia l'unico modo di amare sè e di cercare felicità, e a tale credenza conformano le azioni loro. Ora chi riuscisse a persuaderli che s'ingannano, e che la società umana sarà tanto meno infelice, quanto cotesta lotta del male andrò scemando e succederà ad essa l'emulazione nel procacciare il bene altrui, non farebbe egli opera meritoria? E posto che il persuadere agli uomini una verità così semplice ed evidente sia cosa molto difficile, non sarà egli e buono e nobile e morale il tentarla? Questo appunto, secondo che pare a me, si propose il Leopardi co' suoi scritti filosofici; e queste da me accennate brevemente sono le sole vere conseguenze che da essi rampollano. Con che parmi ch'e' restino purgati sufficientemente dalla accusa d'immoralità.
- Giobertiano.
- Che voi abbiate fatto del vostro meglio per riuscire a ciò, concedo; ma non concedo che ci siate riuscito. Pure vi ho ascoltato con piacere, e volentieri tornerò ad ascoltarvi, se vi piacerà che altra volta prendiamo a ragionare di questa materia. Per oggi il nostro dialogo s'è prolungato anche troppo; ond'io penso di serbarvi a tempo migliore le mie obiezioni.
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