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DIALOGO.
XXV
operata con una grande leggerezza. Non che fargli torto attribuendo la sua meschina filosofia a poco mature e profonde considerazioni intorno alle dottrine che rifiutò ed a quelle che abbracciò, io credeva di giudicarlo molto benignamente: ma poichè voi mi costringete ad ammettere che quella filosofia fosse l'opera di lunga meditazione, io dovrò concludere che a questa meditazione mancasse buon fondamento di filosofici studi, senza del quale non poteva riuscire che vana anche in una mente fortissima. Ecco qui: quei vostri argomenti sono i soliti di tutti i materialisti. Stretti nel mondo angustissimo della materia, si direbbe che voi non sapete fare un passo più in là, che non sapete levarvi alla considerazione del pensiero, che è il nostro creato, in cui tutto si appunta, e del quale voi stessi portate con voi la rivelazione. Cosa singolare! Voi vi servite del pensiero per negare il pensiero stesso, cioè la vostra esistenza. Voi non volete vedere nell'universo altro che la materia, nell'uomo altro che il corpo: e pure voi pensate. Come non sentire in voi stessi quell'unità, quell'identità e consapevolezza personale, che è il substrato più intimo, il midollo e la radice del pensiero? Come non sentire che il pensiero è uno, e semplice, e sostanziale; e quindi non può dissolversi, non può svanire come un fenomeno? Se dal vostro corpo creato e finito risalite alla universa materia da cui esso rampolla, come dal pensiero subiettivo non risalire necessariamente ad un pensiero obiettivo, da cui quello tragga l'esistenza, il moto e la vita? Voi riconoscente nell'uomo un desiderio insaziabile di felicità: e poi che vedete che questo desiderio non rimane pago nel mondo, invece di dedurne razionalmente che dovrà esser pago altrove, poichè la natura non può aver posto nell'animo