Le Mille ed una Notti/Storia dell'invidioso e dell'invidiato
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DELL’INVIDIOSO E DELL’INVIDIATO.
«In una popolosa città, due uomini abitavano vicini, uno dei quali concepì contro l’altro sì violenta invidia, che quello ch’erane l’oggetto risolse di cangiar dimora ed allontanarsi, persuaso che la vicinanza sola attirata gli avesse l’animosità del vicino; chè sebbene prestato gli avesse buoni servigi, erasi avvisto di esserne non meno odiato. Vendè pertanto la sua casa col poco di bene che possedeva, e ritiratosi nella capitale del paese, che non era lontana, comprò una terricciuola, a mezza lega circa dalla città. Quivi aveva una casa assai comoda, un bel giardino ed un ampio cortile nel quale eravi una cisterna profonda, che non serviva ad uso alcuno.
«Il buon uomo, fatto tale acquisto, prese l’abito di dervis (1) per condurre vita più ritirata, e fe’ fare nella sua casa parecchie cellette, nelle quali in poco tempo stabilì una numerosa comunità di dervis. In breve la sua virtù lo fece conoscere, e non mancò di attirargli un’infinità di persone tanto del popolo che delle più distinte della città; in fine, ciascuno l’onorava e lo teneva estremamente caro. Venivano molti altresì da lontano per raccomandarsi alle sue preghiere, e tutti quelli che partivansi da lui, propalavano le benedizioni che credevano di avere, per suo mezzo, ricevute dal cielo.
«La sua fama essendosi sparsa anche nella città nativa, l’invidioso n’ebbe sì vivo cordoglio che abbandonò casa ed affari, determinato di farlo perire. A tal uopo si trasferì al nuovo convento di dervis, il cui capo, già suo vicino, lo accolse con tutti gli immaginabili segni d’amicizia. L’invidioso gli disse essere venuto espressamente per comunicargli una faccenda importante, di cui non poteva parlare che in segreto. — Affinchè,» soggiunse, «niuno ci ascolti, passeggiamo, vi prego, qui nel cortile, e poichè si avvicina la notte, comandate ai vostri dervis di ritirarsi nelle loro celle.» Il capo dei dervis secondò il desiderio dell’ospite.
«Vedutosi l’invidioso solo col dabben uomo, cominciò a raccontargli cose indifferenti, camminando l’uno accanto all’altro pel cortile, finchè, giunti sull’orlo della cisterna, gli diè una spinta, e ve lo gettò dentro, senza che alcuno fosse testimonio di sì scellerata azione. Ciò fatto, si allontanò celeremente, ed uscito dal convento senza essere veduto, tornò a casa contentissimo del suo viaggio, e persuaso che l’oggetto della sua invidia più non fosse in vita; ma egli s’ingannava assai....»
Scheherazade, vedendo spuntare il dì, non potè proseguire. Si sdegnò il sultano della malizia dell’invidioso. — Bramo grandemente,» disse fra sè, «che mal non accada al buon dervis; spero di sentire domani che il cielo non l’avrà abbandonato in sì perigliosa emergenza.»
NOTTE XLVII
Dinarzade, svegliatasi, scongiurò la sorella di dirle se il buon dervis uscisse salvo dalla cisterna. — Sì,» rispose Scheherazade. «Ed il secondo calendero, continuando la sua storia, disse: — La vecchia cisterna era abitata da fate e da geni, che trovaronsi colà in buon punto per salvare il capo del dervis mentre cadeva, ed invisibili lo tennero sollevato fino al fondo, talchè non si fece alcun male. Egli ben comprese esserci qualche cosa di straordinario in una caduta, in cui doveva perdere la vita; ma non vedeva, nè udiva nulla. Nondimeno poco dopo udì una voce che diceva: — Sapete chi è quel valentuomo a cui abbiamo testè salvata la vita?» Ed altre voci avendo risposto negativamente, la prima riprese: — Ve lo dirò io. Cotest’uomo, per la maggior carità del mondo, ha abbandonato la città in cui abitava, e venne a stabilirsi in questo luogo, nella speranza di guarire un suo vicino dall’invidia che costui gli portava; e si acquistò stima sì universale, che l’invidioso, non potendolo soffrire, giunse costì nel disegno di farlo perire, ed avrebbelo eseguito senza il soccorso da noi prestato a questo brav’uomo, la cui riputazione è tanto grande, che il sultano, il quale soggiorna nella città vicina, verrà domani a visitarlo per raccomandare alle sue preghiere la principessa di lui figlia.
«Allora un’altra voce chiese qual bisogno avesse la principessa delle preghiere del dervis, cui la prima rispose: — Non sapete dunque ch’essa è invasa dal genio Maimun, figlio di Dimdim, che se n’è invaghito? Ma io ben so in qual modo questo buon capo di dervis potrebbe guarirla; è cosa facilissima e ve la voglio dire. Avvi nel suo convento un gatto nero con una macchia bianca sulla cima della coda, della grandezza circa di una piccola moneta d’argento. Ch’egli strappi sette peli da quella macchia bianca, e li arda sulla testa della principessa. Tosto sarà ella guarita e libera da Maimun, figlio di Dimdim, il quale non ardirà più mai avvicinarsele.
«Non perdette il capo dei dervis una sola parola di quel dialogo delle fate e dei genii, che del resto si tennero in perfetto silenzio per tutta la notte. L’indomani, allo spuntar dell’alba, quando potè distinguere gli oggetti, siccome la cisterna era demolita in più luoghi, scoperse una fessura, per la quale uscì senza fatica.
«I dervis, che lo cercavano, esultarono al rivederlo. Ei raccontò loro in brevi parole la perfidia dell’ospite da lui tanto bene accolto il giorno innanzi, e si ritirò quindi nella sua cella. Il gatto nero, onde avea udito parlare la notte nel congresso delle fate e dei genii, non tardò a venirgli, secondo il solito, a far carezze. Egli lo prese, gli strappò sette peli dalla macchia bianca che aveva all’estremità della coda, e li mise in disparte per servirsene all’uopo.
«Erasi alzato da poco il sole, quando il sultano, nulla volendo trascurare di ciò che credeva poter recare una pronta guarigione alla principessa sua figlia, giunse alla porta del convento, dove ordinò al suo seguito di fermarsi, ed egli entrò coi principali ufficiali che l’accompagnavano. I dervis lo accolsero col massimo rispetto.
«Il sultano trasse in disparte il loro capo, e: — Buon sceik (2), » gli disse, «forse già saprete il motivo che qui m’adduce. — Sì, o sire,» rispose modestamente il dervis; «se non m’inganno, è la malattia della principessa che mi procura questo immeritato onore. — Appunto,» replicò il sultano. «Mi donereste la vita se, come spero, le vostre preghiere ottenessero la guarigione di mia figlia. — Sire,» soggiunse il dabben uomo, «se vostra maestà vuol farla venir qui, ho fiducia, coll’aiuto di Dio, di poterla perfettamente risanare.
«Il principe, esultante di gioia, mandò tosto a prendere la figlia, la quale comparve non molto dopo; accompagnata da numeroso seguito di donne e di eunuchi, e velata in maniera che non le si vedeva il volto. Il capo dei dervis ordinò le si tenesse sulla testa un braciere, e non appena ebbe posti i sette peli sui carboni accesi, che il genio Maimun, figlio di Dimdim, proruppe in grandi strida, senza lasciarsi vedere, e lasciò libera la principessa. Portò questa in primo luogo la mano al velo che le copriva la faccia, e lo sollevò per vedere ove fosse. — Dove sono?» sclamò; «chi m’ha qui condotta?» A tali parole non potè il sultano trattenere l’immenso suo giubilo, abbracciò la figliuola, e le baciò gli occhi; baciò pure la mano al capo dei dervis, e voltosi agli ufficiali che lo accompagnavano: — Ditemi il vostro parere; qual ricompensa merita chi ha così guarita mia figlia?» Risposero tutti che meritava di sposarla. — Anch’io il pensava,» ripigliò il sultano, «e da questo momento lo creo mio genero.
«Poco tempo dopo morì il primo visir; il sultano pose in sua vece il dervis, e morto il medesimo sultano senza prole maschia, radunatasi la milizia ed i vari ordini religiosi, il dabben uomo fu d’unanime consenso proclamato sultano....»
Il giorno che spuntava obbligò Scheherazade a fermarsi, ma il dervis parve a Schahriar degno dell'ottenuta corona, e ardentemente bramava sapere se l’invidioso ne sarebbe morto d’affanno. Si alzò pertanto nella risoluzione di udirlo la notte seguente.
NOTTE XLVIII
— Or ecco in qual modo il secondo calendero,» continuò Scheherazade, «proseguì la storia dell’invidioso e dell’invidiato:
«Essendo dunque,» diss’egli, «salito il buon dervis sul trono dello suocero, un giorno che passeggiava in mezzo a’ cortigiani, scorse l’invidioso fra la turba di gente che accorreva a vederlo. Fece allora avvicinare uno dei visiri che l’accompagnavano, e gli disse sottovoce: — Andate, e conducetemi quell’uomo; ma guardatevi dall’ispaventarlo.» Obbedì il visir, e quando l’invidioso fu alla presenza del sultano, questi gli disse: — Amico, mi è gratissimo il rivederti.» E subito volgendosi ad un uffiziale soggiunse: «Gli si diano immediatamente mille monete d’oro del mio tesoro, e gli si consegnino inoltre venti balle delle più preziose merci de’ miei magazzini, con una guardia sufficiente per iscortarlo a casa sua.» Incaricato l’ufficiale di tal commissione, salutò l’invidioso, e continuò il suo cammino.
«Quand’ebbi finito di narrare codesta storia al genio, assassino della principessa dell’isola d’Ebano, gliene feci l’applicazione. — O genio!» dissi, «voi vedete che quel sultano benefico non solo volle scordarsi che l’invidioso avevagli attentato alla vita, ma lo trattò eziandio e lo rimandò con tutta la bontà da me riferita.» Infine adoperai ogni mia eloquenza per pregarlo ad imitare sì bell’esempio e perdonarmi; ma tutto fu inutile. — Ciò che posso fare per te,» mi disse, «è di non toglierti la vita; ma non isperare che ti rimandi sano e salvo. Bisogna che ti faccia sentire il potere de’ miei incanti.» Sì dicendo, mi afferrò con violenza, e portandomi attraverso la volta del palazzo sotterraneo, la quale spalancossi per lasciarlo passare, mi sollevò tant’alto, che la terra non mi parve più che una nuvoletta bianca. Da quell’altezza si slanciò verso terra come il fulmine, e sostò sulla vetta d’un monte. Ivi raccolse un pugno di polve, pronunziò o piuttosto vi mormorò sopra certe parole, delle quali nulla compresi, e gettatomela addosso: — Lascia,» disse, «la figura d’uomo, e prendi quella di scimia.» E sparve, lasciandomi solo, convertito in scimiotto, oppresso dal dolore, in paese sconosciuto, non sapendo se fossi vicino o lontano dagli stati del re mio padre.
«Sceso dal monte, entrai in una pianura, della quale non venni a capo se non dopo un mese, in cui giunsi sulla spiaggia del mare, che essendo allora in bonaccia, lasciommi scorgere un vascello a mezza lega da terra. Per non perdere sì bella occasione, ruppi un grosso ramo d’albero, lo gettai in mare, e postomivi cavalcioni, mi servii di due bastoni come remi per guidarmi.
«Vogando in tal modo, mi accostai al vascello, e quando fui abbastanza vicino per esserne riconosciuto, presentai uno spettacolo veramente straordinario ai marinai e passeggeri che, raccolti sul ponte, mi guardavano tutti con somma meraviglia. Intanto raggiunsi la nave, ed aggrappatomi ad una corda, mi arrampicai sulla coperta, ma non potendo parlare, mi trovai in terribile imbarazzo. In fatti il pericolo che allora corsi non fu minore di quando era stato in potere del genio.
«I mercatanti superstiziosi credettero che avrei portata disgrazia alla navigazione se mi ricevevano, talchè uno disse: — L’accopperò con una martellata.» Un altro: — Voglio trapassargli il corpo con una freccia.» Un altro: — Bisogna gettarlo in mare.» Nè avrebbero mancato di fare quanto dicevano, se mettendomi dalla parte del capitano, non me gli fossi prosternato a’ piedi, prendendolo per l’abito in supplichevole positura; ei fu sì commosso da quell’atto, e dalle lagrime che mi vide versare, che mi prese sotto la sua protezione, minacciando di far pentire chiunque volesse arrecarmi il minimo male; e mi colmò di carezze, mentre da parte mia, a deficienza di parole, gli dava co’ miei gesti i maggiori contrassegni di gratitudine che mi fu possibile. Il vento che susseguì alla calma, benchè non fosse forte, fu favorevole; nè cangiò per ben cinquanta giorni, facendoci felicemente approdare al porto di una bella città, popolosa e commerciante, capitale d’un possente impero, ove gettammo l’ancora.
«In breve fu il nostro vascello circondato da una infinità di battelli pieni di gente, che venivano a felicitare gli amici del loro arrivo o ad informarsi di quelli lasciati nel paese d’onde venivano, o semplicemente per la curiosità di vedere un vascello che arrivava sì di lontano. Giunsero, fra gli altri, alcuni ufficiali, i quali chiesero di parlare, da parte del sultano, ai mercatanti della nostra nave; e questi presentatisi tosto, un ufficiale, presa la parola, disse loro: — Il sultano, nostro signore, ci ha incaricati di attestarvi il suo giubilo pel vostro felice arrivo, e pregarvi di voler scrivere ciascuno su questo papiro qualche riga di proprio pugno. Per manifestarvi qual sia il suo disegno, dovete sapere ch’egli aveva un primo visir, il quale, oltre una gran capacità nel maneggio degli affari, scriveva all’ultima perfezione. Questo ministro è morto da pochi giorni; il sultano n’è afflittissimo, e siccome non guardava mai senza ammirazione i caratteri della sua mano, ha fatto solenne giuramento di non dare la carica di primo visir se non ad un uomo che sappia scrivere come colui scriveva. Molte persone hanno presentato i loro caratteri; ma finora niuno comparve in tutta l’estensione di quest’impero, che fosse giudicato degno di occupare il posto del visir.
«Coloro tra i mercanti che credettero di scrivere abbastanza bene da pretendere a quell’alta dignità, vergarono l’uno dopo l’altro ciò che vollero. Quando ebbero finito, mi avanzai, e presi anch’io il papiro. Tutti, e specialmente i mercadanti che avevano scritto, immaginandosi che volessi lacerarlo o gettarlo in mare, misero alte strida; ma presto si rassicurarono, allorchè videro che teneva il papiro in mano con cura, e che faceva segno di volervi scrivere. I loro timori cambiaronsi allora in maraviglia. Nondimeno, siccome non avevano mai veduto scimie che sapessero scrivere, e non potevano persuadersi ch’io fossi più dotta delle altre, volevano togliermelo di mano; ma il capitano prese anche qui le mie parti. — Lasciatelo fare,» ei disse, «lasciate che scriva. Se scarabocchierà la carta, vi prometto di punirlo; se invece scrive bene, come spero, non avendo mai veduto in vita mia uno scimiotto più destro ed ingegnoso, nè che comprenda meglio le cose, dichiaro di riconoscerlo per figlio. Ne aveva uno che non possedeva la millesima parte del suo spirito.
«Vedendo che nessuno più si opponeva al mio disegno, presi la penna, e non la deposi se non dopo aver fatto sei sorta di scritture usate dagli Arabi; ciascun saggio di carattere conteneva poi un distico od una quartina improvvisata in lode del sultano. Il mio scritto non solo ecclissava quello dei mercadanti, ma oso dire che non erasene veduto sin allora uno più bello in quel paese. Finito ch’ebbi, gli uffiziali presero il papiro, e lo recarono al sultano...»
Scheherazade, giunta a questo passo, si fermò, scorgendo il giorno.
NOTTE XLIX
All’indomani, Dinarzade, svegliandosi, disse alla Sultana: — Credo, sorella, che il sultano nostro signore non abbia minor curiosità di me d’udire la continuazione delle avventure dello scimiotto. — Sono a soddisfarvi entrambi,» rispose Scheherazade; «e per non tenervi in ansietà, vi dirò che il secondo calendero continuò in tai sensi la sua storia:
«Il sultano non badò menomamente alle altre scritture, e non guardò che la mia, la quale gli piacque in modo, che disse agli ufficiali: — Prendete il cavallo più bello delle mie scuderie, addobbatelo con magnificenza, e prendete pure una delle più sfarzose vesti di broccato, per rivestirne la persona autrice di questi sei saggi, e conducetemela.» A codest’ordine, gli uffiziali si posero a ridere, talchè il sultano, sdegnato del loro ardite, stava per punirli, quand’essi gli dissero: — Sire, supplichiamo vostra maestà a volerci perdonare: questi caratteri non sono di mano d’un uomo, ma vergati da uno scimiotto. — Che dite?» sclamò il sultano; «queste scritture non sono d’un uomo? — No, sire,» rispose un ufficiale; «possiamo assicurare la maestà vostra che sono d’uno scimiotto, il quale le ha vergate alla nostra presenza.» Troppo sorprendente trovò il sultano la cosa per non essere curioso di vedermi. — Fate quanto v’ho comandato,» lor disse, «e conducetemi subito uno scimiotto sì raro.
«Tornarono gli ufficiali al vascello, e comunicati i loro ordini al capitano, questi rispose che il sultano era il padrone. Mi vestirono dunque immediatamente d’un abito di ricchissimo broccato, e portatomi a terra, mi posero sul cavallo del sultano, il quale mi aspettava nel suo palazzo con gran corteggio di notabili della sua corte, da lui riuniti per farmi onore.
«Cominciò la processione. Il porto, le strade, le piazze, le finestre, le terrazze dei palazzi e delle case, erano affollate d’una moltitudine immensa di persone d’ogni sesso e d’ogni età, dalla curiosità attirate da tutte le parti per vedermi, essendosi la fama divulgata in un istante che il sultano aveva scelto per gran visir uno scimiotto. Dopo aver dato sì nuovo spettacolo a tutto questo popolo, che non cessava di manifestare la sua sorpresa con raddoppiate grida, giunsi al palazzo.
«Trovai il principe seduto sul trono ed attorniato dai grandi della corte. Gli feci tre profondi inchini, mi prostrai, e baciando la terra, mi misi a sedere in positura di scimia. Non poteva l’assemblea cessare dall’ammirarmi, non comprendendo come mai uno scimiotto sapesse rendere sì bene ai sultani il rispetto a loro dovuto, ed il monarca n’era ancor più maravigliato. In una parola, la cerimonia dell’udienza sarebbe stata compiuta, se potuto avessi ai miei gesti aggiungere un’arringa; ma le scimie non ebbero mai il dono della favella, ed il solo vantaggio d’essere stato uomo non mi conferiva tal privilegio.
«Congedò il sultano i cortigiani, non restando con lui che il capo degli eunuchi, uno schiavo assai giovane ed io. Passò egli allora dalla sala d’udienza al suo appartamento, ove essendosi posto a mensa, mi accennò d’avvicinarmi e mangiare con lui. Per attestargli la mia obbedienza, baciai la terra, mi alzai, e sedetti a tavola, mangiando con ritenutezza e modestia.
«Prima di sparecchiare, vidi un calamaio; e fatto segno che me lo recassero, scrissi sur una grossa pesca alcuni versi di mia composizione, attestanti la riconoscenza mia al sultano; la lettura che ne fece, quando gli ebbi presentata la pesca, aumentò il suo stupore. Levata la mensa, gli fu recato certo liquore particolare, del quale mi presentò un bicchiere, ch’io tracannai, e su cui poscia scrissi altri versi, i quali spiegavano lo stato in cui, dopo infiniti patimenti, mi trovava. Il sultano lesse anche quelli, e sclamò: — Un uomo che sapesse fare altrettanto, sarebbe superiore ai più grandi uomini.
«Fattosi quindi recare un giuoco di scacchi (3), mi domandò per cenni se sapessi giuocare, e se volessi farlo con lui. Baciai la terra, e portando la mano sulla testa, gl’indicai ch’era pronto a ricevere tanto onore. Guadagnò egli la prima partita, ma io vinsi la seconda e la terza, e scorgendo che ne dimostrava qualche dispiacere, per consolarlo, scrissi una quartina che gli presentai, ed in cui diceva che due potenti eserciti erano venuti alle mani un intiero giorno con grande ardore, ma che alla sera avevano fatto pace, e passata la notte tranquillamente insieme sul campo di battaglia.
«Tante cose sembrando al sultano molto superiori a tutto ciò ch’erasi veduto od inteso della destrezza e dello spirito delle scimie, non volle essere solo testimonio di siffatti prodigi, ed avendo una figliuola chiamata Dama-di-beltà: — Andate,» disse al capo degli eunuchi, ch’era presente ed addetto al servizio della principessa, «andate, e fate venir qui la vostra signora: voglio ch’ella meco divida il piacere che provo.
«Il capo degli eunuchi partì, e tornò tosto colla principessa. Aveva costei il volto scoperto, ma non appena fu nella stanza, che se lo coprì prontamente col velo, dicendo al sultano: — Sire, bisogna che vostra maestà non v’abbia posto mente. Sono sorpresa assai che mi facciate venire alla presenza di uomini. — Evvia, figliuola,» rispose il sultano, «voi stessa non vi pensate. Qui non v’ha che il piccolo schiavo, l’eunuco vostro aio ed io, che abbiamo la libertà di vedervi in viso: eppure abbassate il velo, o mi fate un delitto d’avervi qui chiamata? — Sire,» replicò la principessa, « vostra maestà vedrà tra poco che non ho torto. Lo scimiotto ch’è con voi, benchè abbia codesta forma, è un giovane principe, figlio di un gran re, che subì tal metamorfosi per incanto. Un genio, figlio della figlia d’Ebli, lo ha così trasformato, dopo aver crudelmente uccisa la principessa dell’isola d’Ebano, figlia del re Epitimaro.
«Il sultano, sorpreso, si volse alla mia parte, e non parlandomi più per segni, chiesemi se vero fosse quello che sua figlia diceva. Siccome io non poteva parlare, mi posi la mano sulla testa ond’assicurarlo aver la principessa detta la verità. — Figlia,» ripigliò allora il sultano, «in qual modo sapete voi che questo principe fu trasformato in scimiotto per incanto? — Sire,» rispose Dama-di-beltà, «vostra maestà si degnerà ricordarsi che uscendo dall’infanzia ebbi per aia una vecchia dama: era questa una sapientissima maga, che m’insegnò settanta regole della sua scienza, in virtù della quale potrei, in un batter di ciglio, trasportare la vostra capitale in mezzo all’oceano, al di là del Caucaso. Mediante tale scienza conosco al sol vederle tutte le persone incantate; so chi sono, e da chi furono incantate: cosicchè non vi sorprenda se subito riconobbi questo principe, malgrado la malia che gl’impedisce di comparire a’ vostri occhi sotto la natural sua forma. — Figlia,» disse il sultano, «non vi credeva capace di tanto. — Sire,» rispose la principessa, «v’hanno certe curiose cose ch’è bene sapere; ma non mi parve d’avermene a vantare. — Or dunque,» ripigliò il sultano, «potreste voi dissipare l’incantesimo del principe? — Sì, sire, posso restituirgli la sua primiera forma. — Rendetegliela dunque,» interruppe il sultano; «non sapreste farmi maggior piacere, poichè voglio che sia mio primo visir, e che vi sposi. — Sire, sono disposta ad obbedire a’ vostri comandi.»
Scheherazade, così dicendo, si avvide ch’era giorno, e sospese la storia del secondo calendero; ma Schahriar, giudicando che il resto non dovesse esserne meno dilettevole, risolse di ascoltarlo il giorno susseguente.
NOTTE L
Indovinando la sultana la premura della sorella di sapere in qual modo Dama-di-beltà avesse ritornato il secondo calendero alla primiera forma, le disse: — Ecco come il calendero ripigliò il suo discorso:
«La principessa Dama-di-beltà andò alle sue stanze, vi prese un coltello, sulla cui lama stavano incise ebraiche parole: poi ne fe’ discendere, il sultano, il capo degli eunuchi, il piccolo schiavo ed io, in un cortile segreto del palazzo, e lasciatici in una galleria che girava tutto all’interno, si recò in mezzo al cortile, ove descrisse un gran cerchio, e vi segnò varie parole in caratteri arabi, antichi, ed altri chiamati caratteri di Cleopatra.
«Preparato il circolo nel modo che desiderava, vi si collocò nel mezzo, fece vari scongiuri, e recitò alcuni versi del Corano. Tosto l’aria insensibilmente oscurossi, talchè sembrava già notte, e che il mondo fosse per iscomporsi. Noi ci sentimmo colti da estremo terrore, ed il nostro spavento vie più crebbe quando vedemmo comparire d’improvviso il genio, figlio della figlia di Ebli, sotto la forma d’un leone di spaventosa grossezza.
«Quando la principessa vide il mostro, gli disse: — Cane, in vece di strisciare al mio cospetto, osi presentarti sotto questa orribil forma? credi forse di spaventarmi? — E tu,» rispose il lione, «non temi di contravvenire al trattato da noi fatto, e confermato con solenne giuramento, di non nuocerci nè farci torto l’un all’altro? — Ah, maledetto!» replicò la principessa; «è a te che far debbo tale rimprovero. — Or bene,» interruppe bruscamente il lione, «sarai pagata dell’incomodo che mi recasti, facendomi qui venire.» Sì dicendo, spalancò le immani fauci, e si avanzò verso di lei per divorarla. Ma la donna, che stava in guardia, balzò indietro, ebbe tempo di svellersi un capello, e pronunciate due o tre parole, lo cangiò in una tagliente spada, colla quale recise in mezzo il mostro. Le due parti del leone sparirono, e non rimase che la testa, la quale trasformossi in un grosso scorpione. Tosto la principessa si cangiò in serpente, e diè fiera battaglia allo scorpione, il quale, non riportando vantaggio, assunse la forma d’un’aquila, e volò via. Ma il serpente, presa allora quella di un’aquila nera più valente, lo inseguì. Noi li perdemmo entrambi di vista.
«Poco dopo la loro scomparsa, spalancossi davanti a noi la terra, e ne uscì un gatto nero e bianco, col pelo tutto irto, che terribilmente miagolava. Un lupo nero presto il seguì, e lo travagliò in guisa che il gatto, messo alle strette, si cangiò in verme, e trovandosi vicino ad un melagrano caduto per caso dall’albero che sorgeva sulla sponda d’un canale profondo, ma poco largo, traforò in un attimo il pomo e vi si nascose. Allora il melagrana si gonfiò, divenne grosso come una zucca, e s’innalzò sul tetto della galleria, d’onde, fatti alcuni giri rotolando, cadde nel cortile, e si ruppe in più pezzi.
«Il lupo, ch’erasi intanto convertito in gallo, si gettò sui granelli del melagrano e si mise ad inghiottirli. Quando non ne vide più alcuno, corse da noi colle ali tese, facendo gran rumore, quasi a chiederci se ve ne fossero altri. Uno ne restava sulla sponda del canale, di cui, volgendosi, s’avvide. Vi corse rapido, ma mentre stava per mettervi il becco, il granello rotolò nel canale, e si cangiò in un pesciolino... — Ma ecco il giorno, sire,» disse Scheherazade; «se non fosse apparso sì presto, son certa che vostra maestà avrebbe preso gran piacere ad udire il resto.» Il sultano si alzò, sorpreso di tutti que’ prodigiosi avvenimenti, che gl’ispirarono sommo desiderio ed estrema impazienza di conoscere il seguito della storia.
NOTTE LI
Scheherazade, per soddisfare la sorella curiosa di sentire la conclusione di tutte quelle metamorfosi, richiamato in mente il punto ov’era rimasta, diresse la parola al sultano: — Sire,» disse, «il secondo calendero così continuò la sua storia:
«Il gallo si gettò nel canale, e trasformatosi in luccio, inseguì il pesciolino. Stettero sott’acqua due ore intiere, e non sapevamo che ne fosse avvenuto, quando udimmo orribili grida che ci fecero rabbrividire. Poco dopo vedemmo il genio e la principessa tutti in fuoco, che slanciavansi l’un contro l’altro fiamme dalla bocca, finchè vennero a prendersi corpo a corpo. Allora aumentarono i due fuochi, e gettarono un fumo denso ed infocato, sì che credemmo, non senza ragione, che incendiassero tutto il palazzo; ma in breve ci strinse un ben più grave soggetto di timore, poichè il genio, sbarazzatosi della principessa, volò verso la galleria ove ci trovavamo, e ci soffiò contro vortici di fuoco. Era finita per noi, se la principessa, accorrendo in nostro aiuto, non lo avesse costretto colle sue grida ad allontanarsi e guardarsi da lei. Nondimeno, quantunqu’ella si affrettasse, non giunse ad impedire che il sultano ne avesse la barba arsa e guasto il volto; che il capo degli eunuchi non ne rimanesse soffocato all’istante, e che non m’entrasse una scintilla nell’occhio destro, facendomi guercio. Il sultano ed io ci aspettavamo di dover perire, ma tosto udimmo gridare: — Vittoria, vittoria!» e vedemmo comparire la principessa sotto la natural sua forma, ed il genio ridotto in un mucchio di cenere.
«La principessa si accostò, e per non perder tempo, chiese una tazza d’acqua, che le fu recata dal giovane schiavo, il quale non aveva sofferto alcun danno. La prese, e pronunciate alcune parole, mi versò l’acqua addosso, dicendo: — Se tu sei scimiotto per incanto, cangia di figura, e ripiglia quella d’uomo che prima avevi.» Appena ebbe finito, io tornai uomo qual era prima della metamorfosi, ma però con un’occhio di meno.
«Mi preparava a ringraziare la principessa, ma non me ne diè tempo, che volgendosi a suo padre, gli disse: — Sire, come vostra maestà vede, ho vinto il genio, ma cara mi costa la vittoria. Pochi momenti mi restano di vita, talchè non avrete la soddisfazione di fare il progettato matrimonio. Il fuoco, in questa terribile mischia, è in me penetrato, e sento che a poco a poco mi consuma. Ciò non sarebbe accaduto, se, quando era cangiata in gallo, mi fossi avveduta dell’ultimo granello del melagrano, e lo avessi inghiottito come gli altri, essendovisi il genio ritirato come nella sua ultima trinciera, e da ciò dipendeva l’esito della battaglia, che sarebbe stato felice e senz’alcun danno per me. Un tal fallo mi costrinse a ricorrere al fuoco, e combattere con queste potenti armi, come feci, fra cielo e terra, ed al vostro cospetto. Malgrado la sua arte formidabile e la sua esperienza, ho fatto conoscere al genio di saperne più di lui; l’ho vinto e ridotto in cenere, ma non posso sfuggire alla morte che s’avvicina...»
Scheherazade qui s’interruppe, e disse al sultano: — Sire, il giorno che spunta mi vieta di proseguire la narrazione; ma se vostra maestà vuol lasciarmi vivere sino a domani, udrà il fine di cotesta storia.» Schahriar acconsentì, e si alzò, secondo il solito, per andar ad accudire agli affari dell’impero.
NOTTE LII
La sultana, svegliatasi, s’accinse a proseguire la storia del secondo calendero:
— «Signora,» disse il calendero a Zobeide, «il sultano lasciò che la principessa Dama-di-beltà finisse il racconto del suo combattimento, e quindi le disse con accento di vivo dolore: — Figliuola, guardate in quale stato è vostro padre; aimè! io mi meraviglio d’essere ancora in vita. L’eunuco vostro aio è morto, ed il principe che liberaste dall’incantesimo ha perduto un occhio.» Nè potè dire di più: le lagrime, i sospiri ed i singhiozzi gli troncarono la parola. Noi fummo estremamente commossi della sua afflizione, e sua figlia ed io piangevamo con lui; ma mentre ci affliggevamo a vicenda, la principessa si mise a gridare: — Ardo, ardo! » sentendo che il fuoco che la consumava erasi alla fine impossessato di tutto il suo corpo, e non cessò di gridare finchè la morte non ebbe posto termine agl’insopportsbili suoi dolori. L’effetto di quel fuoco fu sì rapido, che in pochi istanti venne ridotta in cenere come il genio.
«Non vi dirò, o signora, la mia afflizione alla vista di sì funesto spettacolo. Avrei desiderato meglio restarmene tutta la vita scimia o cane, che veder perire sì miseramente la mia benefattrice. Dal canto suo il sultano, dolente oltremodo, proruppe in altissime strida, percuotendosì la testa ed il petto, finchè soccombendo alla disperazione, smarrì i sensi, e mi fe’ temere per la sua vita. Accorsero alle di lui grida ufficiali ed eunuchi, i quali provarono difficoltà grande a farlo rinvenire. Noi non avemmo bisogno di far loro un lungo racconto dell’accaduto, onde persuaderli del dolore che ne provavamo, avendolo essi abbastanza compreso dai due mucchi di cenere, ne’ quali erano ridotti la principessa ed il genio. E siccome il sultano poteva appena reggersi, fu obbligato ad appoggiarsi agli eunuchi per recarsi alle sue stanze.
«Poichè la voce di sì tragico avvenimento fu sparsa nel palazzo e nella città, tutti piansero la disgrazia della principessa Dama-di-beltà, e parteciparono all’afflizione del sultano. Per sette interi giorni si fecero tutte le cerimonie del più gran lutto; si sparsero al vento le ceneri del genio, e quelle della principessa furono raccolte, per esser conservate in un vaso prezioso, che venne deposto in un magnifico mausoleo eretto nel luogo medesimo ov’eransi raccolte le ceneri.
«Il cordoglio del sultano per la perdita della figliuola gli cagionò una malattia che l’astrinse a letto per tutto un mese, e non aveva ancor ricuperata intieramente la salute allorchè, fattomi chiamare: — Principe,» mi disse, «udite l’ordine che son per darvi; ne va della vostra vita se non lo eseguite.» Lo assicurai che l’avrei obbedito puntualmente, ed egli allora soggiunse: — Io aveva sempre vissuto felice e contento, nè mai erami occorso nessun sinistro: il vostro arrivo ha fatto svanire la pace di cui godeva. Morta la figlia, perito il suo aio, è un miracolo s’io sono ancora in vita. Voi siete dunque la cagione di tutte queste disgrazie, delle quali non fia possibile ch’io mi consoli. Pertanto vi prego d’allontanarvi di qui sull’istante; perirei anch’io se rimaneste di più, essendo convinto che la vostra presenza m’arreca sventura: ecco cosa aveva a dirvi. Partite, e guardatevi dal comparire mai più in questi paesi; niun riguardo mi tratterrebbe dal farvene pentire.» Volli parlare, ma mi chiuse la bocca con iraconde parole, e fui costretto ad allontanarmi sul momento dal palazzo.
«Ributtato, scacciato, abbandonato da tutti, e non sapendo che cosa sarebbe per avvenire di me, prima d’uscire dalla città entrai in un bagno, mi feci radere barba e sopracciglia, e presi l’abito di calendero. Mi posi in via, piangendo meno la mia miseria che la bella principessa, della cui morte io era stato origine. Percorsi parecchi paesi senza farmi conoscere; infine risolsi di venire a Bagdad, nella speranza di farmi presentare al commendatore dei credenti, ed eccitare la sua compassione col racconto delle mie sventure. Son giunto questa sera, e la prima persona che incontrai, arrivando, fu il calendero nostro fratello che parlò prima di me. Voi sapete il resto, signora, e perchè ebbi l’onore di trovarmi sotto il vostro tetto.
«Terminata dal secondo calendero la sua storia, Zobeide, alla quale s’era egli rivolto, gli disse: — Ne sono pienamente soddisfatta; andate, e ritiratevi ove meglio vi piace; ve ne do intera licenza.» In vece però di uscire, supplicò anch’egli ed ottenne dalla dama la medesima grazia del primo calendero, vicino al quale andò a sedere.
— Sire,» soggiunse Scheherazade, «ormai è giorno, nè posso più continuare. Oso però assicurarvi che per quanto dilettevole sia la storia del secondo calendero, quella del terzo non è men bella. Che vostra maestà si degni risolvere, e dire se vuol aver la bontà di ascoltarla.» Il sultano, curioso di sapere se fosse quanto le prime maravigliosa, si alzò, risoluto di prolungare la vita di Scheherazade, sebbene la dilazione concessale fosse già da più giorni spirata.
NOTTE LIII
— Vorrei,» disse Schahriar verso la fine della notte, «udire la storia del terzo calendero. — Eccomi tosto ad obbedirvi, sire,» rispose Scheherazade. «Il terzo calendero,» soggiunse, «vedendo che ora toccava a lui; dirigendosi, come gli altri, a Zobeide, cominciò in questi sensi la sua storia:
Note
- ↑ Questo nome, che significa povero, corrisponde, presso i Maomettani, a quello di monaco fra i cristiani. I dervis fanno voto di povertà, di castità e d’obbedienza.
- ↑ Parola araba che significa vecchio. Si chiamano così in Oriente i capi delle comunità religiose e secolari, ed i dottori distinti. I Maomettani danno pure questo nome a’ loro predicatori.
- ↑ Il giuoco degli scacchi è un’invenzione indiana, e fu recata in Persia, secondo gli autori, nel secolo XVI dell’era nostra. È probabile che la parola scacchi derivi dalla persiana Schah, che significa re. I Persiani, per dire Scacco matto, si servono dell’espressione Schah mat: il re è morto.